«Bibliotime», anno XVII, numero 3 (novembre 2014)


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Le molte facce dell'open access



Se c'è un'idea che negli ultimi decenni è stata capace di crescere e svilupparsi nella maniera più significativa, e di trasformarsi in molti casi in solide realtà, è certo quella dell'open access.

In effetti, anche se per questa idea è difficile individuare un'origine precisa, si può comunque guardare al 1965, anno in cui Luisella Goldschmidt-Clermont, bibliotecaria press il Cern di Ginevra, per prima riconosce l'inadeguatezza dei periodici convenzionali, incapaci di trasmettere celermente le conoscenze specie negli ambiti scientifici e tecnici, sostenendo per contro l'importanza dei preprint, un tipo di pubblicazione che appare particolarmente adatto a veicolare in modo efficace i risultati delle ricerche perché privo di quei vincoli (peer review, tempi di pubblicazione e di spedizione) che condizionano così pesantemente le riviste tradizionali. Ed è per questo che Goldschmidt-Clermont non solo ribadisce la necessità di una distribuzione sempre più rapida dei preprint, ma ne indica una diversa organizzazione, prefigurando la creazione di veri e propri archivi di preprint.

E la suggestione è così forte da essere raccolta, nello stesso anno, dal fisico Michael J. Moravcsik, il quale propone di istituire un registro centrale di preprint per la fisica delle alte energie: un'ipotesi che viene fatta propria dalla Atomic Energy Commission statunitense, che a sua volta darà vita a un progetto di più ampio respiro, il Physics Information Exchange, volto a una distribuzione su larga scala e coordinata centralmente.

Va da sé che questi e altri tentativi di individuare una diversa organizzazione dei prodotti della ricerca costituiscono una sorta di "era degli incunaboli" dell'accesso aperto, dal momento che l'idea prenderà corpo solo con la diffusione di Internet e con la consapevolezza - via via acquisita da studiosi e bibliotecari - della sua efficacia sia economica che scientifica per le diverse comunità di ricerca.

Il passo successivo avverrà infatti nel 1990, quando Stevan Harnad fonderà "Psycoloquy", una rivista elettronica che mantiene le caratteristiche di selettività e di filtro scientifico proprie dei periodici cartacei, ma che sfrutta le capacità della rete per agevolare i contatti fra i collaboratori e semplificare lo scambio delle informazioni. Il nuovo periodico infatti mette a disposizione degli studiosi un canale per la trasmissione degli articoli e per il peer review, oltre che uno spazio di discussione sui temi proposti dalla rivista; infine, aspetto di fondamentale importanza per i successivi sviluppi della comunicazione scientifica, agli autori è concesso di mantenere i propri diritti sugli articoli pubblicati, avendo la facoltà di poterli riproporre su qualsiasi contenitore, cartaceo o elettronico, con la semplice menzione della loro prima uscita su "Psycoloquy".

Ma l'evento cruciale, quello che più di ogni altro segnerà i destini dell'accesso aperto, si avrà l'anno successivo, quando Paul Ginsparg, fisico delle alte energie presso il Los Alamos National Laboratory, metterà a punto un database in grado di ricevere e rendere disponibile su Internet una serie di articoli, rapporti tecnici e abstract che gli autori preferiscono non inviare alle riviste, ma rendere pubblici in maniera immediata e diretta sulla rete. E l'iniziativa avrà un successo tale da estendersi subito ad altri ambiti disciplinari, tanto che il primo open archive della storia (che diventerà noto con il nome di ArXiv), sarà ben presto utilizzato da migliaia di utenti in tutto il mondo.

Negli anni Novanta dunque sono posate le pietre miliari di quello che verrà definito il movimento per l'accesso aperto, e l'edificio che su di esse comincia a prendere corpo viene ulteriormente consolidato dalle riflessioni di studiosi del calibro di Peter Suber, Andrew Odlyzko e Jean-Claude Guédon oltre che, naturalmente, di Harnad e Ginsparg: essi infatti non solo mettono in luce le potenzialità dell'accesso aperto, ma ne individuano anche gli elementi di debolezza, ossia quelli che sono più facilmente attaccabili dai grandi editori internazionali, che vedono la loro egemonia sul mercato delle riviste scientifiche fortemente insidiata dall'avvento dell'open access.

Difatti, la storia ci dice che la forza dell'idea - con i vantaggi che essa arreca a studiosi e istituzioni - non sempre è sufficiente a far breccia in un campo che è stato di dominio pressoché esclusivo degli editori commerciali, i quali per lungo tempo hanno avuto la possibilità di operare in un regime di quasi monopolio, e che quindi mettono in campo una serie di strategie per frenare, ostacolare o contrastare la diffusione dell'accesso aperto.

Tuttavia, malgrado la relativa scarsità di mezzi in confronto alle grandi disponibilità dell'editoria commerciale, e tenendo conto che gran parte delle iniziative in favore dell'accesso aperto sono state realizzate in maniera per dir così volontaristica da studiosi e bibliotecari, sappiamo che l'idea si è estesa sempre più, fino a diventare una sorta di patrimonio comune e da esser fatta propria non soltanto da prestigiose organizzazioni scientifiche, ma anche da istituzioni politiche e statuali.

E com'è noto, uno dei momenti culminanti di questo percorso è stato senz'altro la Dichiarazione di Berlino, redatta al termine della conferenza organizzata nella capitale tedesca nell'ottobre del 2003. Il documento, ratificato da numerosi organismi a livello internazionale, chiarisce e consolida l'idea dell'open access, individuando una vera e propria mission, volta alla più ampia disseminazione della conoscenza, che deve avvenire non solo attraverso le modalità tradizionali, ma anche e sempre più attraverso il paradigma dell'accesso aperto.

Ed è significativo che, a solo un anno di distanza, anche nel nostro paese questi principi siano stati accolti in tutta la loro importanza: e ciò è avvenuto in seguito al convegno promosso dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane e tenutosi a Messina il 3 e 4 novembre 2004, con l'obiettivo di sensibilizzare e coinvolgere il maggior numero di persone intorno ai temi dell'accesso aperto e, di conseguenza, di favorire la diffusione di questa pratica nel modo più ampio possibile. Il documento conclusivo, che ovviamente ha preso il nome di Dichiarazione di Messina, è stato firmato dai rettori di 31 università italiane, ai quali si sono successivamente aggiunti altri atenei, fino ad arrivare alla quasi totalità delle università presenti sul territorio nazionale.

In particolare, i firmatari hanno riconosciuto il valore che la diffusione delle conoscenze riveste per la crescita economica e culturale della società, specie in risposta alle esigenze - provenienti da tanta parte del mondo accademico - di forme alternative di comunicazione scientifica, e alla luce di ciò hanno manifestato la loro piena adesione alla Dichiarazione di Berlino.

Appare evidente il valore politico (oltre che istituzionale e accademico) legato al documento messinese, che non solo attesta il sostegno delle università italiane alle iniziative in favore dell'accesso aperto, ma che assume - come si legge nella Dichiarazione stessa - una vera e propria "funzione di guida nella ricerca di nuovi modelli di disseminazione della letteratura accademica che si pongano in posizione complementare rispetto al modello tradizionale di editoria scientifica".

E non è un caso se questo evento cruciale per la diffusione dell'accesso aperto in Italia sia stato "celebrato", a un decennio di distanza, nella stessa città in cui si è tenuta la prima manifestazione: a Messina infatti, il 3 e il 4 novembre 2014, sono convenuti bibliotecari, ricercatori ed esperti italiani e stranieri, i quali hanno approfittato del prestigioso anniversario per fare il punto della situazione e dispiegare una vasta serie di proposte, strategie e progetti.

L'attuale numero di Bibliotime dunque riporta un'ampia sintesi di questo avvenimento: a partire dall'approfondito report degli interventi curato da Sara Valla e Benedetta Alosi, per arrivare alle possibili conclusioni dell'incontro, riferite nell'articolo della stessa Alosi e di Nunzio Femminò, senza trascurare aspetti di notevole spessore, come quelli indagati da Antonella De Robbio nella sua disamina della "gestione dei diritti di proprietà intellettuale lungo le vie dell'accesso aperto".

Ed anche al di là della conferenza di Messina, il numero si arricchisce di importanti contributi che sviluppano e approfondiscono le tematiche dell'accesso aperto e della valutazione dei prodotti della ricerca. Tra questi, gli articoli di Marialaura Vignocchi ed Elena Giglia e di Enrico Zucchi e Luca Scalco, entrambi volti ad esplorare un aspetto di particolare interesse nel dibattito odierno, ossia la valutazione della ricerca - e le sue interazioni con l'open access - nei delicati ambiti delle scienze umane e sociali. E di particolare interesse appaiono anche gli interventi di Paolo Manghi, volto a individuare i problemi di natura tecnologica e quelli legati ai diritti d'accesso non solo per le pubblicazioni scientifiche ma anche per i dati e gli esperimenti a questi associati; di Maria Chiara Pievatolo, che analizza il fenomeno degli overlay journal, riviste cioè che riprendono lavori già apparsi ad accesso aperto, e sui quali viene poi effettuata una rigorosa e stringente peer review; e di Elisabetta Poltronieri e Paola De Castro, che prendono in esame le prospettive connesse agli open data della ricerca in biomedicina.

Ma nel corrente numero sono altresì presenti una serie di tematiche che appaiono di particolare rilievo nell'odierna realtà professionale: come ad esempio quella dell'information literacy, di cui si occupa il contributo di Alina Renditiso ed Elena Collina; o quella (peraltro strettamente legata al tema della valutazione della ricerca) relativa alla bibliometria ed al suo impatto sul mondo delle biblioteche, e che è oggetto del resoconto di Ornella Russo; o quella, a firma di Elena Giglia, sul "meraviglioso mondo di DOI" e le sue connotazioni di interoperabilità e standardizzazione. Da ultimo, ma non per importanza, l'accurata recensione di Laura Testoni sull'ultima fatica editoriale di Anna Galluzzi.

Michele Santoro




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