«Bibliotime», anno XIII, numero 2 (luglio 2010)
Da sempre le biblioteche vivono un curioso destino: quello di sperimentare, prima di altri, strumenti e tecnologie che avranno sviluppi importanti nel più vasto contesto socioculturale, e non vedersi quasi mai riconosciuto questo merito, poiché godono di una visibilità assai scarsa nel mondo esterno.
E ciò non accade solo nelle numerose trasposizioni letterarie e cinematografiche, in cui di norma la biblioteca è vista come il tempio di un sapere arcano: essa quindi deve rimanere immobile e intatta così come è stata concepita dai suoi fondatori, ed ogni possibile cambiamento viene respinto come portatore di disordine e di confusione.
Anche nel mondo reale, con ogni evidenza, non vi è consapevolezza degli sforzi messi in campo per rendere fruibili le conoscenze che la biblioteca raccoglie e conserva: ciò infatti rimane un discorso a circuito chiuso, esclusivamente limitato a coloro che operano – in forme che all'esterno appaiono quanto mai imperscrutabili – in questa istituzione.
Serve a poco rammentare le radicali trasformazioni architettoniche che le biblioteche hanno affrontato nel corso dei millenni, e che le hanno condotte a modificare i propri spazi per accogliere, di volta in volta, tavolette d'argilla, rotoli di papiro, codici pergamenacei e poi libri a stampa, periodici e ogni altro tipo di materiale, prima di arrivare a quel regime "ibrido" che caratterizza l'epoca odierna, e che vede la coesistenza dell'imponente documentazione cartacea tuttora esistente con le sempre più indispensabili risorse digitali. Difatti che tali cambiamenti - sia nei formati sia negli spazi - non sembrano aver oltrepassato la soglia delle stesse biblioteche (anche di quelle digitali, verrebbe da dire), e di conseguenza non sono state in grado di trasferire una quantità di conoscenze al più vasto contesto culturale e sociale.
E, in maniera analoga, è quasi irrilevante ricordare la complessa e articolata riflessione di natura biblio-tecnica che da sempre le biblioteche hanno messo in atto, e che ha dato vita a una serie di procedure volte ad acquisire, organizzare, trattare e diffondere le informazioni, su qualunque supporto esse siano: difatti la scienza bibliografica e quella biblioteconomica, sebbene abbiano prodotto risultati quanto mai importanti sia sul piano teorico che su quello pratico, e spesso hanno interagito in modo fecondo con altri campi del sapere, non sono state in grado di trasferire questi risultati nel modo esterno, rimanendo così in un ambito circoscritto agli addetti ai lavori.
Tale situazione appare tanto più spiacevole quanto più entriamo in contatto con le tecnologie dell'informazione: queste ultime infatti non solo sono state immediatamente accolte nella compagine delle biblioteche, ma sono state rielaborate, modificate e per certi versi migliorate, sia per andare incontro a specifici obiettivi e finalità, sia per soddisfare in modo ampio le esigenze degli utenti. Ed anche in questo caso non sembra che – almeno nel nostro paese – il consistente know-how fin qui acquisito sia diventato un patrimonio condiviso, e in quanto tale esportabile in altri ambienti, in ciò scontando ancora una volta un ritardo di immagine e di credibilità sociale.
Ed anche il dibattito – per tanti versi così vivace – che ha luogo nella comunità bibliotecaria, potrebbe avere una connotazione più ampia, se è vero che le analisi e le riflessioni che esso propone appaiono di notevole interesse per una vasta serie di categorie: non pensiamo soltanto alle professioni "cugine", come quella degli archivisti, ma a tutti coloro che si occupano, ad esempio, di conservazione degli oggetti digitali, di software libero, di data mining, oltre che di teoria dell'organizzazione e di management.
Un piccolo esempio di questa maniera di portare "le biblioteche fuori di sé" può venire dal presente numero di Bibliotime, nel sono presenti una serie di contributi che dal possono essere facilmente "esportati" anche in altri ambienti culturali. Pensiamo infatti all'interessante analisi di Claudia Possenti sui criteri con cui le nuove norme ISO forniscono a tutte le organizzazioni (e quindi anche alle biblioteche) una serie di strumenti volti a una gestione oculata e ad un successo sostenibile; ma pensiamo anche all'accurata indagine sui criteri di trascrizione e traslitterazione di caratteri non latini ai fini di catalogazione realizzata da Federico Alpi. E se gli articoli di Gustavo Filippucci sui criteri di utilizzo del sistema Nilde, e di Arianna Buson su un innovativo servizio di quick reference mediante chat riportano il discorso a un ambito più strettamente bibliotecario, l'excursus sull'odierna dimensione del libro elettronico consente ancora una volta di spingere la biblioteca – e i suoi strumenti – decisamente fuori di sé.
Michele Santoro
«Bibliotime», anno XIII, numero 2 (luglio 2010)