[AIB]AIB. Sezione Toscana. Bibelot, n. 1 (2002)

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Intervista a Michael Malinconico

VISTI DA LONTANO: COME CI VEDONO (E CI GIUDICANO) I BIBLIOTECARI STRANIERI

Intervista a cura di Elisabetta Francioni

Michael Malinconico è uno dei maggiori esperti mondiali nel settore delle tecnologie informatiche applicate alle biblioteche. Nato a New York nel 1941 da padre napoletano e madre siciliana, è professore presso la School of Library and Information Studies dell'Università dell'Alabama; precedentemente aveva lavorato come analista alla Nasa, e poi per 18 anni alla New York Public Library come vice-direttore per i servizi tecnici e l'automazione della biblioteca. È iscritto all'AIB dal 1985 e, per i rapporti di amicizia e di scambio professionale che lo legano ad alcuni bibliotecari della nostra regione, ha scelto di associarsi alla Sezione Toscana. È particolarmente conosciuto nell'ambiente professionale italiano per la sua partecipazione, come relatore straniero, ad importanti meeting degli ultimi 15 anni (vedi i congressi nazionali AIB di Sirmione nel 1986 e di Pisa nel 1991, dove ha parlato rispettivamente dell'impatto delle nuove tecnologie e del mercato dell'informazione, e i convegni milanesi delle "Stelline" nel 2000 e nel 2002, dove ha affrontato il tema della qualità e della conservazione delle tecnologie digitali). In questi ultimi anni si è occupato in particolare di "gestione della conoscenza". A Firenze, dove ha partecipato con M.J. Freedman all'incontro "Le biblioteche e i bibliotecari garanti dell'accesso di qualità alla società dell'informazione" svoltosi il 20 marzo presso la BNCF, ha concesso quest'intervista al nostro giornale.

D. Che percezione ha, dall'estero, delle biblioteche italiane? In particolare, cosa pensa dell'organizzazione bibliotecaria italiana e della nostra "cultura del servizio"?

R. Non conosco da vicino i servizi delle biblioteche italiane perché non le ho mai utilizzate come utente, anche se ne ho visitate diverse. Posso dire che quando partecipo ai convegni in Italia mi impressiona sempre molto il supporto governativo che godono le vostre iniziative (per esempio i congressi dell'AIB); in USA siamo abituati a dover fare tutto con le nostre forze, soprattutto dal punto di vista finanziario. La professione da noi non è molto considerata dal governo e i bibliotecari hanno in genere stipendi abbastanza bassi; però, a differenza dell'Italia dove per entrare nella professione basta una generica laurea o diploma superiore, c'è un curriculum di studi specifici da seguire, delle scuole di biblioteconomia riconosciute attraverso cui il bibliotecario si forma e fa il suo training.

D. Dei bibliotecari italiani che cosa pensa? Sono cambiati negli ultimi anni, e in quale direzione?

R. Sono molto colpito dal loro livello di consapevolezza. Vedo che sono anche molto informati su quanto succede fuori dell'Italia e che hanno il desiderio di applicare nuove tecniche e nuove teorie, senza per questo copiarle acriticamente. Negli USA ci sono certamente più risorse per le biblioteche, ma il dibattito biblioteconomico in alcuni casi non è così avanzato; trovo che nel discutere e nell'affrontare le questioni gli italiani sono più "sottili", approfondiscono ed elaborano ad un livello teorico che mi pare notevole, mentre i bibliotecari americani tendono ad essere più tecnici, più pratici.

D. Il suo osservatorio, però, è forse un po' privilegiato perché guarda ad una fetta particolare del mondo bibliotecario italiano ...

R. Questo è sicuramente vero: quando vengo in Italia io incontro i bibliotecari che partecipano ad iniziative professionali di un certo livello. Immagino che non siano tutti così avanzati e che ci siano realtà di regioni, per esempio del Sud, dove la struttura bibliotecaria è sicuramente ancora arretrata. Ma anche in Alabama ci sono le realtà piccole o periferiche, biblioteche che hanno una sola linea telefonica con la quale devono fare tutto, compreso il collegamento ad Internet.

D. Siamo forse noi italiani che, abituati ad una realtà per tanti versi disastrata, tendiamo a mitizzare le biblioteche americane e anglosassoni, peccando in qualche modo di provincialismo?

R. Sì, forse è un po' così; bisogna sfatare questi miti. Anche da noi, come è ovvio, esistono biblioteche non ricche dal punto di vista delle risorse economiche, o di piccole dimensioni, o periferiche rispetto alle grandi realtà bibliotecarie. Quello che è profondamente diverso, però, è che negli Stati Uniti esiste la cooperazione come fatto acquisito, stabile e diffuso: nessuna biblioteca è mai sola ma sempre dentro un circuito informativo organizzato, per cui può arrivare, per via indiretta, a dare comunque una risposta all'utente. Lei mi parla di "cultura del servizio" e capisco che cosa vuole intendere: un qualcosa che vi manca e che state cercando di costruire, mentre per noi non costituisce un "problema", la diamo per scontata perché la facciamo. La "cultura del servizio" in Italia (e ancora in tante parti dell'Europa, se vogliamo allargare il discorso alla nuova realtà politico-economica di cui fate parte) secondo me non è mai nata, o è qualcosa di molto recente che non a caso si cerca di far nascere. Se guardiamo la storia delle biblioteche, comunque, pure in Inghilterra il concetto di servizio è un'idea abbastanza recente, anche se già a metà Ottocento Antonio Panizzi l'aveva di fatto prefigurato, portando avanti le sue proposte innovative per i cataloghi, l'accrescimento delle collezioni, gli spazi architettonici, le esigenze di ricerca degli studiosi all'interno del British Museum.

D. Certo è divertente che il primo a vagheggiare un "servizio bibliotecario" sia stato proprio un italiano! Ma a parte gli scherzi, questo mi dà modo di chiederLe se ritiene che la biblioteconomia italiana abbia un qualche primato da vantare, e se le nostre biblioteche (che, come Lei sa, si trovano in una situazione confusa, perché manca in Italia un chiaro quadro legislativo in merito a compiti e funzioni) abbiano a Suo parere un "valore aggiunto" rispetto a quelle di altri Paesi.

R. L'Italia ha sicuramente un posto di rilievo nella storia bibliotecaria mondiale: penso solo alla Biblioteca Laurenziana, che è stata in fondo la prima biblioteca "pubblica" dell'età moderna. Dietro raccolte librarie come queste c'erano dei nobili appassionati di bibliofilia, ma comunque illuminati perché si ponevano il problema di andare oltre il loro collezionismo privato ... La vostra storia costituisce gran parte delle discipline che insegnamo nei nostri corsi universitari di biblioteconomia, e se il "valore aggiunto" delle biblioteche italiane forse non si esprime ancora del tutto in qualcosa che va verso l'esterno (intendo i servizi), c'è comunque un interno che è il patrimonio prezioso e unico di libri e di documenti che voi possedete. È da qui, da questo grande valore per la cultura dell'umanità, che bisogna partire.

D. Lei è socio dell'Associazione Italiana Biblioteche: come giudica la politica e l'azione dell'AIB, paragonandola anche alle associazioni professionali di altri Paesi?

R. Devo dire che sono sempre ben impressionato dalla qualità dei convegni che l'AIB organizza. Leggo naturalmente il "Bollettino AIB": lo trovo un ottimo periodico, con un'impronta più teorica rispetto per esempio ad alcune riviste professionali che fanno capo all'ALA. Ma, come ho già detto, tutto deriva probabilmente da questo essere più "sottili", da questa tradizione più filosofica, più astratta, meno tecnicistica, che hanno i bibliotecari italiani. Il che può essere un pregio, ma anche un difetto.

D. Da qualche anno a questa parte Lei si occupa prevalentemente di knowledge management, "gestione della conoscenza". Ce ne vuole dare una definizione e spiegarci perché è così importante per le biblioteche?

R. In termini semplici, la gestione della conoscenza è il mezzo per far crescere il sapere in un'organizzazione: il sapere serve a far funzionare quell'organizzazione per raggiungere l'obiettivo che si è prefissata. Per far questo bisogna innanzitutto raccogliere le informazioni, i dati, le esperienze: è quello che possono fare e che fanno, oggi, gli specialisti dell'informazione tra cui ci sono anche (e direi soprattutto) i bibliotecari. Affinché queste informazioni acquistino un senso, cioè siano utilizzate per intraprendere delle azioni efficaci, c'è bisogno del management, cioè della gestione (e in questo caso parlo di gestione "alta", cioè di responsabilità, di direzione). Nelle biblioteche gestire la conoscenza significa, per fare solo un esempio, disegnare ogni tipo di procedure e di transazioni per renderle chiare, per standardizzarle e quindi per ottimizzare il lavoro dei vari settori. In ogni organizzazione complessa bisogna mettersi il problema dei costi e quindi della produttività: se ogni settore lavora condividendo e scambiando le informazioni con gli altri settori e partecipando come segmento ad un'unica linea comune, si risparmiano tempo e soldi perché ognuno sa cosa deve fare e anche cosa fa l'altro, evitando inutili e dannose sovrapposizioni. Naturalmente, il momento della raccolta delle informazioni deve essere seguito da quello della conservazione e dell'archiviazione: per andare avanti in maniera coerente ed efficace l'archivio deve essere mantenuto, si deve tenere memoria di ciò che si è già fatto per non ricominciare ogni volta daccapo. La Intranet è oggi uno strumento molto importante per la gestione della conoscenza: il sapere cresce se c'è l'informazione e la comunicazione interna. La differenza tra informazione, comunicazione e sapere (o conoscenza) credo sia chiara: è la differenza che passa tra usare un computer e riuscire a risolvere dei problemi particolari che esso può pormi. Mentre nel primo caso ho l'informazione su come si usa un certo programma e posso quindi svolgere il mio lavoro, nel secondo può capitare che io mi blocchi perché non mi era mai capitata una certa situazione (per esempio un virus, o altro) e non so cosa fare. Se un collega del mio ufficio mi spiega come risolvere quel problema, che a lui è già capitato (o meglio: se posso attingere ad un archivio in cui sono stati memorizzati i problemi più frequenti e le relative soluzioni), io ho acquisito conoscenza, ho un sapere in più e l'ho raggiunto risparmiando tempo e fatica attraverso la comunicazione di esperienze precedenti. La comunicazione è quindi importantissima per la gestione della conoscenza.

D. Mentre La ascolto parlare penso a tante nostre biblioteche, grandi e piccole, in cui spesso si lavora in un settore senza conoscere quasi niente dell'attività degli altri, o addirittura ci si ritrova a svolgere un lavoro senza sapere che un altro l'ha già fatto. È come un cerchio che non si chiude mai in direzione dell'obiettivo, sono tante forze disperse che invece di convergere verso un unico punto vanno verso direzioni addirittura discordanti. Che ne pensa?

R. Sono d'accordo. La mia impressione è che nelle biblioteche italiane (ma direi anche europee) ci siano degli esperti spesso eccellenti nei singoli comparti, che però non comunicano tra loro; non c'è attenzione all'intera organizzazione, manca appunto il momento manageriale di gestione della conoscenza. Questo è un errore gravissimo, e alla fine porta ad un solo risultato: che il servizio erogato non è buono, che la finalità o l'obiettivo della biblioteca non è raggiunto. Sulla non-gestione della conoscenza esiste una vasta aneddotica. Mi viene in mente l'episodio di una grossa società inglese che negli anni Settanta perse fior di capitali, investiti nella creazione di pozzi petroliferi in una determinata area: non aveva parlato con chi forniva i tubi per la trivellazione, e alla fine le caratteristiche di questi si rivelarono assolutamente incompatibili con quei pozzi. La gestione della conoscenza riguarda, voglio sottolinearlo, non solo soggetti che hanno come in questo caso fini di profitto e di lucro, ma qualunque organizzazione (l'università, per esempio), perché al fondo c'è sempre un discorso economico di investimento e di ritorno, di risorse finanziarie e umane, che vengono messe in campo perché devono mirare a qualcosa in favore della collettività. In Italia, come in tutti i Paesi sviluppati, la gestione della conoscenza è un problema cruciale: la società contemporanea non può fare a meno di certi prodotti e servizi, ma questi ultimi per esistere hanno alle spalle necessariamente un sapere, una conoscenza. È questo che rende stabili e competitive aziende come la Coca Cola o la Microsoft che, sulla base della conoscenza dei mercati, sviluppano in un certo modo piuttosto che in un altro la loro produzione e distribuzione.

D. Questo significa, però, che i Paesi industrializzati sono gli unici ad avere risorse da investire nella conoscenza, dunque in un certo tipo di "produzione" (culturale, alimentare, ecc.). che poi rivendono o impongono, in qualche modo, ai Paesi in via di sviluppo. Quelli che Lei ha chiamato gli "esperti dell'informazione", i bibliotecari nel nostro caso, sarebbero dunque gli operatori culturali "neutri", le vestali di questa globalizzazione nel campo della conoscenza?

R. Questo pericolo della globalizzazione esiste, è un problema mondiale che investe tutti i settori e quindi gli stili di vita che ci vengono dai paesi più sviluppati e industrializzati. Attualmente nel campo della gestione della conoscenza si sta cominciando a dibattere anche questo, e cioè il fatto che essa ha un lato positivo e di progresso (uno dei principali utenti della gestione della conoscenza è la Banca Mondiale, che utilizza le informazioni per sostenere la crescita dei Paesi sottosviluppati...), ma anche quello che io chiamo un "lato nero". Dal punto di vista degli operatori nel campo dell'informazione, poi, c'è da dire che l'archiviazione di dati e esperienze in un data-base può significare che una persona può essere sostituita da un'altra in qualunque momento, e quindi c'è un livellamento che non tiene più conto delle individualità.

D. Già, anche da noi si parla sempre più spesso di "flessibilità" del lavoro, con tutto ciò che di negativo può comportare. Ma il discorso ci porterebbe lontano e dovrei spiegarLe tante cose troppo italiane ... [tra cui l'articolo 18!, ndr]. Qual è la Sua prossima tappa, dopo Firenze?

R. Andrò al congresso internazionale " Info 2002: información, conocimiento y societad: retos de una nuova era " promosso dall'Instituto de Información Científica y Tecnológica (IDICT) del Ministerio de Ciencia, Tecnología y Medio Ambiente de la República de Cuba, che si terrà a La Habana dal 22 al 26 aprile. È stato scelto un Paese in via di sviluppo per discutere, appunto, del cosiddetto "lato nero" del knowledge management: uno dei temi della tavola rotonda in cui presenterò un mio intervento sarà "Del ciberpoder individual al ciberpoder sociocultural, premisa de una verdadera y justa informatización".

Allora non ci resta che augurarLe buon viaggio e ... buena vista, Mister Malinconico!


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Copyright AIB 2002-06-10, ultimo aggiornamento 2002-06-15 a cura di Vanni Bertini
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