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"16. Seminario Angela Vinay"
bibliotECONOMIA
attività e passività culturali

Tavola rotonda
Ricchi e stupidi per quante generazioni?

Celestino Spada, Docente presso l'Università La Sapienza e redattore di "Economia della Cultura"


Naturalmente mi sono preparato un intervento e sono tentato di dire qualcosa su quanto finora è stato detto. Un'osservazione molto rapida: mi sembra che per quello che riguarda lo sviluppo strategico del nostro paese, i dati sull'analfabetismo, semi analfabetismo ecc, che ha evidenziato Tullio De Mauro e che sono stati qui ricordati, si riferiscono ad un periodo nel quale da circa 20-30 anni abbiamo una scuola dell'obbligo portata a otto anni, con i relativi investimenti dello Stato e delle famiglie. Questi investimenti, soprattutto quelli delle famiglie, si basavano, e si basano tuttora, sull'idea, confermata nei secoli, che un maggiore grado di istruzione fa accedere ad una condizione sociale migliore. È venuto meno questo nesso e mi pare non si vada oltre i dubbi sulla razionalità di questi investimenti nell'opinione pubblica ma anche nelle famiglie. C'è una rimozione di questo problema non marginale, anzi centralissimo. Noi continuiamo ad andare avanti chiudendo gli occhi, oppure - ed è di questo che volevo parlare - pensando che la modernizzazione dei processi culturali, in particolare lo sviluppo delle industrie culturali o dei beni di consumo culturali, non solo il libro, ma il disco, il video, la televisione, il cinema, il DVD, l'iPod, ecc. ecc., compensino a livello individuale e dell'intero Paese le gravissime carenze, che si riscontrano nei caratteri e negli esiti dei tradizionali processi di socializzazione istruita. In breve, c'è l'idea che l'industria culturale e i suoi mercati finiscano per dare una risposta migliore, più adeguata ai bisogni e alle esigenze della modernità, di quella che hanno dato - che stanno dando - lo Stato e/o le famiglie con la scuola e l'università.

I dati di cui disponiamo - relativi all'andamento dell'economia della cultura in Italia fra il 1980 e il 2000 - inducono a considerare per molti versi illusoria questa idea: non solo si tratta di strutture e processi culturali distinti che non possono essere l'uno il sostituto o la compensazione dell'altro, ma anche per lo scarso sviluppo nel nostro paese, delle strutture della modernità, delle imprese e dei mercati culturali, sia in assoluto sia rispetto agli altri maggiori paesi europei. Le nostre ricerche [1] hanno riguardato sia i beni culturali e lo spettacolo dal vivo - nei quali tradizionalmente le istituzioni della Repubblica, cioè Stato, Regioni, Province e Comuni, sono maggiormente impegnati - sia i comparti dell'industria culturale, cioè gli audiovisivi e l'editoria libraria e giornalistica. Da esse emergono cose interessanti che ho pensato di proporvi, anche utilizzando qualche tabella.
La Tabella 1 espone i dati della spesa pubblica e privata per la cultura tra il 1990 e il 2000 evidenziata per soggetti erogatori nella spesa pubblica e per fonti di risorse nella spesa privata. Va ricordato che i dati si riferiscono a un decennio caratterizzato da una grande retorica del privato anche perché sono stati gli anni del deficit pubblico da contenere, dei tagli da apportare al bilancio pubblico a tutti i livelli per rispettare i parametri di convergenza europei. Ebbene, come si può vedere, in questi 10 anni la spesa pubblica è aumentata del 40%, più della spesa privata che rispetto al 1990 registra solo un +30%.
Le aspettative (spesso presentate come previsioni) che dalle imprese e dai consumi privati venissero maggiori risorse a compensare le minori disponibilità dello Stato non corrispondono, evidentemente, alla realtà. In particolare, i consumi delle famiglie sono cresciuti molto meno delle risorse provenienti dalla pubblicità. Le sponsorizzazioni hanno avuto un cospicuo aumento, ma hanno inciso pochissimo.

La tabella 2 mostra la misura della distribuzione della spesa statale e della spesa privata nei vari comparti della cultura. Qui vediamo che nel decennio la gran parte della spesa statale per la cultura continua ad essere destinata ai beni e alle attività culturali, mentre gran parte della spesa privata si dirige verso i beni e i servizi offerti dall'industria culturale. Si registrano tuttavia alcuni caratteri della spesa privata che vale la pena di evidenziare. Per esempio, nei settori dei beni e delle attività culturali, le risorse crescono in assoluto certo per il ruolo che vi ha lo Stato, ma anche per la maggiore incidenza della spesa privata sul totale. Sono aumentati gli introiti da biglietti venduti da musei, teatri e altri spettacoli dal vivo: i cittadini-consumatori sono stati più disposti a pagare direttamente i servizi di cui godono. Anche nel comparto dell'editoria libraria, che può contare solo sui consumi privati (né risorse statali, né risorse pubblicitarie) questi nel decennio sono aumentati, mentre nell'editoria giornalistica si deve constatare un vero e proprio crollo degli introiti da vendita fra il 1990 e il 2000, crollo a mala pena compensato dall'aumento degli introiti pubblicitari e anche dei contributi dello Stato (che assumono nell'equilibrio di bilancio delle imprese un ruolo che non ha equivalenti in Europa). Nella radio-televisione stenta ad affermarsi la spesa privata nella Tv a pagamento, mentre continua ad aumentare l'incidenza della risorsa pubblicitaria sull'offerta dei relativi prodotti.

Questi dati si riferiscono a un andamento della spesa nel decennio che non è omogenea su tutto il territorio nazionale. Nella figura 1 il dato della spesa pubblica di Regioni, Province e Comuni, aggregata regione per regione, mostra uno squilibrio territoriale notevole, che il colore evidenzia. Un dato quantitativo indicativo è che regioni alpine a statuto speciale, quali Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige, destinano alla cultura, pro capite, 20 volte quello che la regione Campania destina a ogni suo abitante.
Lo squilibrio territoriale della spesa della cultura non riguarda solo la spesa pubblica a tutti i livelli. Sarebbe complicato elaborare una tabella complessiva, ma se si considerano le strutture dell'offerta dei beni e dei servizi dell'industria culturale - cioè, librerie, cinematografi, negozi di dischi o di video, la rete distributiva di giornali e periodici - si possono rilevare gli stessi squilibri territoriali. Ci sono meno cinema nel Meridione, non ci sono le multisale o sono pochissime - lo sviluppo delle strutture di offerta che abbiamo avuto nel Centro Nord negli anni 1990, non è stato accompagnato da un analogo fenomeno nel Meridione - le librerie vi sono molto più scarse, mentre, in termini di copie vendute di quotidiani per 1000 abitanti, nel 2000 la media nazionale di 105 risulta dalle 134 copie al Nord, dalle 123 al Centro e dalle 59 al Sud. In sostanza, non solo la spesa pubblica ma anche quella privata per la cultura concorre a determinare queste sperequazioni territoriali.
Qui, in questa caratteristica dell'offerta e della domanda di cultura sul versante privato, viene in primo piano un elemento che riguarda la società italiana: essa è squilibrata, ha esigenze diverse, si dota di strutture meno articolate, offre e chiede minori opportunità - sia in termini di beni e attività culturali, sia di spettacolo dal vivo, sia di beni e servizi dell'industria culturale - man mano che si scende lungo la penisola. Sicché la spesa pubblica (di Stato, Regioni, Province e Comuni), che dovrebbe tendere a riequilibrare queste sperequazioni fra i cittadini, concorre a ribadire, se non a rafforzare, questi squilibri.

Ulteriori motivi di interesse presentano i dati sintetizzati nelle torte esposte dalle Figure 2 e 3. Esse sono abbastanza indicative di come la spesa pubblica si sia venuta distribuendo, relativamente ai soggetti eroganti, nei due comparti dei beni culturali e dello spettacolo dal vivo.
Nei beni culturali (biblioteche, archivi, musei, aree archeologiche, ecc.), nel decennio la quota dello Stato è aumentata rispetto all'intervento dei Comuni e delle Regioni: non sappiamo - il nostro Rapporto non è in grado di rispondere a questa domanda - se sono stati i Comuni a ritirarsi dalla tutela dei beni culturali o se è stato lo Stato a pretendere di farlo. Se pensiamo a tutta la discussione che c'è stata negli anni '90 sul decentramento, il federalismo, le tante esigenze enunciate anche in questo campo, questi dati ci raccontano un'altra storia: si può dire che noi viviamo molto spesso nell'immaginario anche nel nostro dibattito pubblico; ce ne accorgiamo quando andiamo a tirare le somme (se siamo ancora interessati a saperlo...).

Invece, per quello che riguarda gli interventi per lo spettacolo dal vivo, è andata avanti una tendenza esattamente opposta: i Comuni hanno ampliato il loro intervento nel finanziamento del teatro, della danza e anche delle manifestazioni culturali le più diverse e lo Stato invece si è ritirato. Qui hanno pesato, sulla spesa statale, i tagli apportati dalle varie leggi finanziarie a tutto lo "spettacolo" compreso il cinema, che nelle voci di spesa degli altri enti pubblici, a rigore, non c'è.
Uno dei motivi di interesse di questi dati sta nel fatto che è probabile che le leggi finanziarie degli anni successivi al 2000 (cui si riferiscono i nostri dati più recenti) hanno imposto anche ai Comuni tagli di bilancio che sono andati a incidere soprattutto sul loro intervento nel campo dello spettacolo, che nel decennio 1990-2000 è venuto a surrogare una certa ritirata dello Stato.

Termino questo intervento, con i dati esposti nelle ultime due tabelle che ho preparato e che riguardano la ripartizione delle risorse pubbliche (contributi statali e locali) e private (spesa delle famiglie, pubblicità, sponsorizzazioni) nei vari comparti dell'industria culturale. Come si può vedere nella tabella 3, la televisione esplode negli anni '90, con incrementi notevoli (anche se inferiori a quelli degli anni '80) soprattutto della pubblicità; anche la radio ha un certo sviluppo, mentre il cinema, il video-DVD e il disco-CD registrano una contrazione notevole (dall'11,2% al 7,8% del totale delle risorse il primo, dal 9,6% al 7,3% il secondo, dall'11,2% al 6,6% l'ultimo). Naturalmente, nella contrazione in assoluto del mercato del disco (-6,5% rispetto al 1990) incide anche l'avvento di Internet, e lo scambio di file musicali sulla rete.
La Tabella 4, infine, espone i dati relativi alle risorse affluite all'editoria giornalistica messi accanto a quelli dell'editoria libraria per il comune riferimento al retroterra di competenze e di disponibilità del consumatore in termini di lettura e di tempo dedicato alla parola scritta: a quelle pratiche culturali che in Italia sono problematiche, come sappiamo dai dati più recenti relativi agli indici di lettura che sono in discesa. Qui ci sono delle cose piuttosto clamorose: per esempio, in termini di consumi privati l'editoria giornalistica perde un quinto del suo mercato di lettori (meno per i quotidiani, di più per i periodici). Questa diminuzione di risorse da vendite è compensata dall'aumento della pubblicità, ma alla fine del decennio la quota della torta pubblicitaria complessiva che affluisce ai giornali è inferiore a quella del 1990. In sostanza, il prodotto giornalistico è stato orientato, nel decennio, a captare più la risorsa pubblicitaria che le scelte di consumo dei lettori, mentre il fatturato complessivo dell'intera industria diminuisce.
Diverso, come già detto, l'andamento dell'editoria libraria, che non conta sulla pubblicità e neppure sui contributi dello Stato e che aumenta nel decennio, in modo abbastanza cospicuo, dal 25% al 29,5%, la sua incidenza sul totale delle risorse che pervengono a tutta l'industria culturale.

In conclusione (e in estrema sintesi) nel 2000, e tuttora, i mercati italiani del cinema, del video, del disco, dei quotidiani e dei periodici, del libro e anche della pubblicità televisiva, risultano essere sottodimensionati per valore complessivo e per volume delle transazioni rispetto a quelli degli altri grandi paesi europei confrontabili per popolazione e valore del prodotto nazionale lordo. L'andamento di tutto il settore negli ultimi decenni registra una contrazione del mercato e della spesa delle famiglie (consumi) e, insieme, il consolidamento degli squilibri territoriali fra Centro-Nord e Sud e Isole. A questi caratteri strutturali, bisogna aggiungere l'indebolimento, nel corso degli ultimi quindici anni, del tessuto produttivo nazionale. L'Italia non ha più imprese di produzione nazionali nel disco, nel video e nel cinema che non siano espressione dei gruppi del duopolio televisivo, Rai e Mediaset. Anche nei nuovi settori della televisione a pagamento, dei videogiochi e della multimedialità il mercato italiano si presenta come un mercato di consumi più che di imprese nazionali e di prodotti originali. I gruppi editoriali librari e giornalistici arrancano, hanno scarse proiezioni internazionali e multimediali e realizzano piccole integrazioni con altri comparti dell'industria nazionale (per esempio, con la radiofonia e con i nuovi servizi realizzabili sulla rete Internet), spesso con obbiettivi di carattere finanziario (per captare l'offerta di inserzioni pubblicitarie sui vari mezzi, cui sono interessati gli inserzionisti per raggiungere i pubblici dei mezzi stessi), più che con strategie industriali di diversificazione di prodotti e servizi volti alla creazione e allo sviluppo di nuovi pubblici e di nuovi mercati.
Riscontriamo qui i tratti caratteristici di una modernizzazione passiva o, come anche si dice, di una "modernizzazione senza sviluppo".

[1] Associazione per l'Economia della Cultura, Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1980-1990, a cura di Carla Bodo, 1994, Roma: Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria; Id, Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1990-2000, a cura di Carla Bodo e Celestino Spada, 2004, Bologna: Il Mulino.


Copyright AIB 2006-09, ultimo aggiornamento 2006-10-06 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
URL: http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay16/spada05.htm


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