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"16. Seminario Angela Vinay"
bibliotECONOMIA
attività e passività culturali

Presentazione del seminario

Chiara Rabitti, Direttore della Fondazione Querini Stampalia


Ancora una volta prendo la parola per prima per dare il benvenuto a tutti, ringraziare quanti hanno consentito e promosso la realizzazione del Seminario e presentare brevemente le linee di lavoro di queste giornate. Condividono con la Fondazione Querini Stampalia la titolarità del sedicesimo Seminario Angela Vinay la Giunta Regionale del Veneto, la Provincia di Venezia, il Comune di Venezia, l'Istituto Centrale del Catalogo Unico, l'Università Ca' Foscari, l'Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale, la sezione Veneto dell'AIB e la Fondazione di Venezia; a questi Enti e Istituti va il mio ringraziamento per l'attenzione e la fiducia riservate alla nostra iniziativa.

Come sempre negli ultimi anni, il percorso di riflessione che ha portato a questo Seminario è tracciato nell'invito-programma che oggi avete in mano: lo stesso testo era stato mandato a tutti i relatori invitati a intervenire, e su di esso si è lavorato insieme in questi mesi. Altri materiali di riferimento e corredo sono disponibili presso la segreteria.

Ma da dove nasce il titolo di questa edizione: Attività e passività culturali?
Voi sapete che questa serie dei Seminari Angela Vinay è dedicata da alcuni anni ai problemi del rapporto tra l'economia, in particolare l'economia delle biblioteche, e la cultura.
L'idea delle "attività e passività culturali" deriva da una mia annosa avversione personale a classificare più o meno rigidamente il lavoro degli istituti culturali, e nello specifico di questa Fondazione dove opero ormai da quindici anni, in tre sezioni o comparti: Biblioteca, Museo, Attività culturali. Io coltivo una persistente e testarda resistenza nei confronti di questa classificazione, che può anche essere immediatamente utile e funzionale, ma che ritengo avvilente e riduttiva sia per la Biblioteca e il Museo che per le cosiddette Attività culturali.

A mio avviso infatti Biblioteca e Museo sono, e così devono essere, attività culturali già in se stesse: aprire la porta della Biblioteca alle 10.00 di ogni mattina e chiuderla a mezzanotte è un'attività culturale di non poco conto; ugalmente lo è la gestione di un Museo di qualità, e quelle che chiamiamo correntemente Attività culturali hanno secondo me ragion d'essere solo come diverse forme di espressione e fruizione di un patrimonio che comunque deve essere messo in attività, cioè in produzione, e che appartiene alle collezioni della Biblioteca e del Museo.
Di qui la riflessione su che cosa significhi la parola "attività", da un lato in senso culturale, intellettuale e formativo, dall'altro in termini finanziari e, in una più lunga prospettiva, in termini economici; e come naturale conseguenza, su cosa possa significare passività culturale, finanziaria, economica.

In questo quadro il percorso si è ricollegato al titolo del Seminario dell'anno scorso, Dal costo al valore, ed è venuto spontaneo considerare il patrimonio culturale - i beni culturali in senso lato - come un grande capitale, capace tuttavia di produrre il valore finale della cultura solo attraverso il costo dell'investimento in servizi culturali. Nasce peraltro tutta una serie di domande forse banali, ma necessarie e mai abbastanza consapevolmente poste: cosa intendiamo oggi per beni culturali? quali caratteristiche devono avere i servizi culturali? come si qualificano le attività culturali? e che cosa può legittimamanete rientrare nell'ambito della cultura? Ha ragione o torto il ministro Tremonti quando ne esclude la sagra del rospo? Quali rapporti quindi si vanno a definire, o vengono correntemente percepiti, tra i beni culturali, i servizi culturali, le attività culturali e infine la cultura e lo sviluppo che ne deriva?

Le biblioteche rappresentano i servizi culturali per eccellenza, veri e propri laboratori per la trasformazione del patrimonio culturale, materiale e immateriale, in cultura; una reale produzione di cultura potrà esserci tuttavia solo se c'è un alto livello di qualità scientifica dei servizi culturali, e quindi delle biblioteche. Ma le biblioteche svolgono davvero oggi un servizio culturale? Mutatis mutandis, forse le biblioteche sono come le chiese: tutti le rispettano, non molti le frequentano, pochissimi sono disposti a sostenerle concretamente. Ma questo avviene (per le biblioteche, fuori di una metafora troppo impegnativa) perché non c'è domanda di cultura o perché - proviamo a interrogarci seriamente su questo - ci sono altre risposte migliori?

Queste attività, questi servizi culturali, intesi dinamicamente come produttori, promotori, distributori di cultura, a breve termine si traducono spesso in passività finanziaria, e bene lo sa chi gestisce un istituto culturale; più immediatamente attive invece, appaiono quelle che potrebbero essere definite delle passività dal punto di vista intellettuale, a volte basate puramente sul mero sfruttamento turistico o commerciale dei famigerati giacimenti culturali.

Quindi, considerando i diversi punti di vista intellettuale, culturale, finanziario o economico, ci ritroviamo spesso davanti ad attività passive e a passività attive. Come già osservato in altre occasioni, siamo disposti a pagare per visitare (e a volte subire passivamente) i musei e le mostre nel nostro tempo libero; in biblioteca e in archivio invece si lavora, si fa ricerca, si studia, si fatica insomma attivamente, e di solito non si paga.
Se è dunque un rapporto difficile, un equilibrio instabile quello che si instaura tra patrimonio culturale e cultura attraverso la mediazione dei servizi culturali, ancora più critico è il nesso tra cultura ed economia: economia a servizio della cultura o cultura a servizio dell'economia? L'affermazione del fund raising, del turismo e del marketing culturali non ci esonera da precise responsabilità politiche, amministratore, professionali. Il fund raising è uno strumento di libertà o di condizionamento culturale? E il turismo culturale è un'occasione di valorizzazione o di sfruttamento? Il marketing è uno strumento di promozione o di mercificazione della cultura?

Si pone poi l'attualissima questione della patologia degli investimenti, il problema della continua diminuzione delle risorse ordinarie, progressivamente sostituite da finanziamenti che si pretendono straordinari. Ciò comporta l'inevitabile distrazione di fondi teoricamente destinati all'innovazione, spesso a malapena capaci di garantire la gestione corrente; oppure una forzata tensione verso la progettualità straordinaria, a scapito del regolare funzionamento dei servizi ordinari, indispensabili mediatori di cultura.
Sappiamo bene che sarebbero necessari investimenti a lungo termine per l'adeguamento del personale in quantità e qualità, per lo sviluppo di servizi mirati alla formazione dell'infanzia e dei giovani, per la promozione di un'editoria di qualità; ma chi è disposto a investire a lungo termine? Chi può permetterselo? Chi dovrebbe farlo e perché dovrebbe farlo? E chi in realtà lo fa?

Sono necessarie strategie a livello nazionale relative al sistema delle infrastrutture, alla scuola, alle politiche fiscali; in questo campo forse qualcosa si è fatto, eppure proprio ieri un imprenditore, mentre contribuiva al finanziamento di un progetto di restauro, mi faceva osservare come preferisse sostenerci a puro titolo personale e senza usufruire dei possibili sgravi fiscali, in quanto la generosità nei confronti della cultura poteva comunque generare sospetti sull'entità dei suoi redditi.
Il fatto che non si ritenga verosimile che un privato possa onestamente investire nel nostro settore deve certo farci riflettere sulla debolezza culturale del contesto di riferimento.

Necessitano dunque interventi coerenti, anche a difesa degli investimenti fatti e a garanzia dei servizi offerti e già messi in essere. Oggi le biblioteche si trovano a fronteggiare due criticità particolarmente forti: la prima, più generale, deriva da una prevedibile ulteriore riduzione delle risorse, collegata alla difficile situazione finanziaria del paese; la seconda, più specifica, viene dalle altrettanto prevedibili ricadute dell'applicazione del decreto antiterrorismo sull'offerta dei servizi in rete, quindi sull'uso delle tecnologie e sulle aspettative create e coltivate nel pubblico. Negli ultimi anni infatti molto si è investito da parte di tutti per immettere dati nella rete, per promuoverne l'uso da parte dei nostri utenti, per metterla a disposizione di un pubblico sempre più vasto; eppure, se non verranno individuate soluzioni adeguate, tutti questi investimenti rischiano di essere frustrati - se non vanificati - e comunque resi molto meno produttivi anche dal punto di vista culturale.

Queste due criticità richiederebbero ancora una volta lo sviluppo di un robusto ambiente di cooperazione, ma in realtà temo possano trascinarci nella direzione opposta: l'una verso la guerra tra poveri (proprio quando più sarebbe necessaria la condivisione di risorse e di competenze), l'altra verso la frammentazione delle soluzioni, la disparità di servizio e la disomogeneità dei comportamenti.
Di tutto questo parleremo qui con bibliotecari, archivisti, economisti, docenti, amministratori, ma anche con editori e librai, diversi attori che lungo diversi percorsi convergono intorno al libro, alle biblioteche e alla cultura.
Ringrazio dunque i relatori presenti, e traggo per concludere qualche spunto da alcuni relatori assenti, che pur se non hanno potuto intervenire personalmente ai nostri lavori hanno saputo comunque aiutarmi nel definirne la traccia.
Uno di questi è Tullio De Mauro, che nel volume La cultura degli italiani lancia un allarme preoccupato sottolineando quanto in Italia la classe dirigente abbia sottovalutato l'importanza strategica del sapere nella costruzione del concetto stesso di comunità nazionale e invoca investimenti urgenti nell'istruzione, per la qualità degli insegnanti, delle biblioteche pubbliche, dell'educazione permanente. Facciamo i conti oggi con una diffusa incultura di massa, innestata su uno zoccolo duro di analfabetismo ereditato dalla storia del passato: a due milioni di analfabeti totali si aggiungono così quindici milioni di semianalfabeti e ad altri quindici milioni di soggetti adulti che non sono in grado di decifrare e acquisire il significato di una frase composta di venti parole. Si parla quindi di trentadue milioni di adulti, pari ad oltre la metà degli abitanti di un paese pervicacemente e allegramente convinto di essere la culla della creatività e dell'innovazione...

Tullio De Mauro avrebbe dovuto e voluto essere con noi e si rammarica di non poter essere presente, come dice nel suo messaggio: "Mi dispiace molto mancare l'occasione veneziana, tanto più che per me è ancora viva la cara immagine di Angela nelle biblioteche in cui dapprima l'ho incontrata e conosciuta." E ci scrive ancora: "Vedo con gioia che il mondo delle biblioteche è sempre più consapevole del ruolo che ha e dovrebbe avere nello sviluppo della nostra società. E sarei davvero felice di potere essere con voi a parlare di questo il 7 e 8 ottobre prossimi. Purtroppo esattamente negli stessi giorni dovrò essere a Tirana per un incontro con i colleghi linguisti albanesi alle prese con problemi perfino peggiori dei nostri - ma con più speranze!" Confesso che quest'ultima affermazione mi ha turbato non poco.

Avevo invitato anche Chiara Sereni, ma anche lei purtroppo non ha potuto intervenire: leggo peraltro alcune frasi da un suo recente articolo, che contribuisce alla nostra riflessione rispondendo in qualche modo a lla denuncia di De Mauro sullo stato della cultura nel nostro paese, in particolare per quanto riguarda i giovani e la loro formazione culturale: "Ma il mondo della cultura è in grado di fornire indicazioni in questa direzione? E' capace di assumersi la responsabilità di una proposta e non soltanto di richieste e lamentele? [... ] Per tornare a mescolare fecondamente cultura 'alta' e cultura 'bassa', occorre ritrovare la capacità di pensare, non solo in grande, ma anche in 'largo'. Non parlare solo delle leggi per l'editoria o del conflitto di interessi, del Fondo unico per lo spettacolo o delle risorse per la scuola, o di altri elementi settoriali tutti necessari e nessuno sufficiente: bisogna ricominciare a pensare il mondo tutto intero, dall'urbanistica delle periferie urbane produttrici di disagio anche culturale, alla questione della sicurezza, alle possibilità che possiamo conquistare di vivere bene, cioè realmente in salute. Tante connessioni, tante correlazioni, tante contraddizioni per pensare il nuovo, il nuovo nella cultura che è poi il nuovo senza aggettivi".

Quindi la prospettiva si allarga ancora di più: forse sono davvero tante, e saranno sempre di più, le cose di cui dobbiamo tenere conto nel nostro lavoro.
Ma proprio in questa prospettiva del nuovo della cultura, nuovo senza aggettivi, voglio intravvedere una luce di speranza; e forse anche per questo abbiamo colorato di verde il nostro programma negli ultimi anni sempre fedele all'arancione, colore della comunicazione della Biblioteca della Fondazione, dove il verde appartiene alle attività sull'arte contemporanea.
Verde dunque, e non solo per evocare l'ormai cronica indigenza della cultura italiana: verde anche per sottolineare la contemporaneità dei problemi affrontati, ma verde soprattutto in segno della testarda speranza che insieme li possiamo risolvere.

Con queste domande, queste considerazioni e questo auspicio passo quindi la parola a Marco Paoli, direttore dell'Istituto Centrale per il Catalogo Unico, che secondo la tradizione di sempre e in omaggio al ruolo che fu di Angela Vinay presiederà i lavori del nostro Seminario.


Copyright AIB 2006-09, ultimo aggiornamento 2006-10-03 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
URL: http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay16/rabitti05.htm


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