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"16. Seminario Angela Vinay"
bibliotECONOMIA
attività e passività culturali

Tavola rotonda
Ricchi e stupidi per quante generazioni?

Domenico Luciani, Direttore della Fondazione Benetton Studi e Ricerche


Avevo immaginato di partire, per una rapida riflessione, dalla domanda di Clara Sereni (l'Unità, 2 agosto 2006, trasmesso tra i materiali preparatori di questo incontro): "Quando è successo che la cultura ha smesso di essere identificata col potere?". Alla quale viene voglia di rispondere con un'altra domanda: "Ma quand'è che la cultura è stata identificata col potere?".
Se intendiamo per cultura il patrimonio di testimonianze e di conoscenze accumulate, la sua tutela e la sua trasmissione alle generazioni future, il rapporto tra potere, cultura e società ci appare storicamente come un sistema triangolare di vasi comunicanti ma sempre distinti.
Ed è così ancora oggi, anche nelle esperienze politiche di democrazia matura che pure assumono la tutela e la trasmissione di quel patrimonio come compito pubblico e responsabilità di governo.
Sistema triangolare a geometria variabile. Anche in ambiti territoriali e antropologici molto vicini tra loro, tra geografie contigue. Ci sono, ad esempio, pezzi di società veneta per i quali la distanza tra cultura e società è ancora più grande della distanza tra potere e società. Tanto che una delle convinzioni persistenti nell'antropologia del mondo (ex)contadino veneto è la diffidenza verso la cultura, vista come terreno di privilegio e di spreco. E ci sono altri pezzi (minoritari) di società veneta nei quali i lati del triangolo si fanno molto più brevi. Anche da questo punto di vista, Venezia e il Veneto sono due realtà profondamente diverse. Il ponte costruito in laguna a metà del XIX secolo non ha congiunto le due antropologie. L'una resta aperta anche nelle difficoltà attuali, l'altra resta sospettosa e stretta anche quando il suo mondo di povertà si trasforma in un mondo di ricchezza materiale, come è avvenuto nell'ultimo mezzo secolo.
Dunque non solo è data una società ricca e lontana dalle ragioni della cultura, perfino diffidente, ma questa condizione può non essere destinata a rapida modificazione, perché, come sempre, la metamorfosi della sfera delle idee è più lenta della trasformazione della sfera delle cose.

Vorrei insistere sulla geometria del triangolo potere-cultura-società e sulla sua accentuata variabilità storica, per cercare di mettere a fuoco la sua condizione attuale e, come si dice, delinearne qualche tendenza. Le domande che dovremmo farci sono pertinenti ai modi e agli esiti di quella che appare come una dilatazione della domanda culturale in una società connotata da quella che appare come una alfabetizzazione di massa. É una questione che coinvolge vari aspetti della trasformazione della società, dell'economia e della mentalità nell'ultimo secolo, in particolare il lavoro, l'istruzione e la mobilità. Nel passaggio dal lavoro artigianale al lavoro seriale industriale, dall'istruzione di pochi alla scuola di base per tutti, dal viaggio d'élite alla mobilità di massa, verifichiamo come la risposta a un imprescindibile diritto conquistato non sia accompagnata dal mantenimento di adeguate soglie qualitative. In particolare, per quanto attiene a questa nostra discussione, la società dell'alfabetizzazione di massa mostra, sotto i riflettori di varie indagini (De Mauro e altri) vasti comparti di neo-analfabetismo. Così, quella che avrebbe potuto presentarsi come una dilatazione della domanda di cultura non ha i caratteri di un allargamento delle conoscenze e di una partecipazione alla loro diffusione, quanto piuttosto di un vago bisogno di occasioni e di "eventi" per il consumo del tempo libero. Inoltre, le istituzioni pubbliche, in particolare gli Enti Locali, in una deriva di populismo culturale, hanno via via assunto questo bisogno all'interno delle proprie responsabilità. Ne è nata una prassi (che appare in declino se non altro per ristrettezze dei bilanci) di organizzazione pubblica di spettacoli e di feste su modelli che, dalla Roma imperiale fino alla Venezia del Settecento, si erano variamente ripresentati nel corso della storia. Fino al paradosso del carnevale istituzionale. Gli stessi Enti Locali, e non per caso, sono andati contemporaneamente perdendo l'attenzione e, di conseguenza, diminuendo l'investimento verso i luoghi strutturali della cultura: gli archivi, i musei e le biblioteche. Non solo, ma la moltiplicazione dei costi di quelle iniziative effimere ha provocato la ricerca di investimenti privati e il loro drenaggio in un campo pseudo-culturale, con una sostanziale casualità di iniziative e con conseguenze nefaste di carattere fiscale.

Dovremmo perciò invertire la tendenza in atto e costruire un ciclo virtuoso che inizia dal riconoscimento del fatto che non solo la sanità, non solo la casa, non solo la scuola, l'università e la ricerca, ma anche la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale costituiscono un costo pubblico connotante un paese di democrazia matura, parte integrante e decisiva dello "stato sociale". Dovremmo insomma partire dall'idea che i costi per la cultura stanno dentro il quadro dei costi primari inelimininabili; e che è del tutto insensato tentare di comprimerli, del tutto illusorio sostituire un corretto scambio tasse-servizi con marchingegni che prendono la forma di sponsorship. Avete visto i dati riportati dall'associazione "Economia della Cultura". Tra l'altro mettendo insieme sponsorizzazione e mecenatismo si da vita a un ulteriore pasticcio nel quale non si distinguono le furbizie fiscali dalle pratiche pubblicitarie dai tentativi di dar vita a iniziative culturali private di pubblica utilità e di verificabile finalità scientifica. É, ad esempio, curioso il fatto che la grande maggioranza delle fondazioni italiane non possieda una biblioteca. La Fondazione Agnelli ha fatto a suo tempo un lavoro utile per monitorare l'universo delle fondazioni italiane. Ma sarebbe bene che lo Stato andasse a vedere e a capire meglio dentro questo universo e provvedesse alle necessarie modificazioni normative, a partire dalle fondazioni bancarie.
Si è provato anche in altri modi, col "raschiamento di fondi", cercando di mettere insieme intelligenza, denaro, esigenze pubbliche e interesse/immagine per "fare qualcosa in campo culturale". Ma come e dove si valuta il progetto, il suo contenuto, le sue finalità generali? Chi ne garantisce l'utilità sociale e la lungimiranza culturale? Dove sta insomma, la cultura? Si tratta in realtà di operazioni che avvengono in un terreno totalmente deregolato. Anche quando nascono da una norma pubblica. Anche quando, casualmente, raramente, producono risultati significativi.
Insisto: converrà assumere i costi del lavoro culturale e scientifico (metto insieme ricerca, cultura e servizi culturali) come un dato pubblico, non comprimibile per mezzo di marchingegni "pubblico-privato". Faccio un esempio che mi pare illuminante: gli enti lirici. Si è inventata la loro trasformazione in fondazioni. Conclusione: i privati, forse con l'eccezione della Scala, coprono una quota assai modesta di costi ottenendo in cambio ruoli e riscontri del tutto sproporzionati, fino, in certi casi, all'uso "improprio" di spazi e attrezzature pubbliche.
L'esperienza di questo trentennio (molte novità in questo settore sono venute alla metà degli anni Settanta) ci assicura che l'iniziativa culturale non produce riscontri economici immediati, né sotto forma di immagine, né sotto forma di reddito. E che la cultura è tale se è promossa pensando agli altri e pensando al futuro, non pensando a sé e all'oggi. Alla fine, è sempre questa la discriminante semplice che può guidare l'orientamento.

Assumiamo dunque questi costi come compiti fondamentali, definiti (lo si è sottolineato anche qui) dalla Costituzione, e cerchiamo di distribuirli nei diversi luoghi, come diceva prima il rettore Ghetti: l'università, l'archivio, la biblioteca, il museo (anche le librerie collegate ai musei dovrebbero essere di ragione pubblica).
In questi luoghi c'è un contatto diretto tra le persone che scambiano conoscenze e riflessioni.
La cultura vive come sistema di relazioni, di intelligenze che si confrontano, di costruzioni dialettiche, di libri, documenti, mani, occhi, cervelli che entrano in contatto, e anche in collisione qualche volta. Questo sistema di relazioni non può essere sostituito da pratiche isolanti di connessione telematica, le quali comunque presuppongono uno spessore critico adeguato per distinguere spazzatura da informazione, informazione da ricerca.
É appena il caso di aggiungere che assumendo i costi necessari per dare vita a una grande articolazione di luoghi che producono cultura e formazione e ricerca, bisogna fare delle scelte. Appunto, qualcuno diceva prima, il ponte sullo stretto come elemento simbolico di opzioni necessarie, ma gli esempi possono essere molti, molto diversi tra di loro, riscontrabili anche alla piccola scala di ogni città e nelle piccole cose ravvicinate.

Dunque, a proposito del triangolo potere-società-cultura, due conclusioni provvisorie: a) la biblioteca, l'archivio, il museo appaiono colonne portanti della crescita culturale, mezzi insostituibili di avvicinamento tra cultura e società; b) una sana e robusta tassazione progressiva appare la via maestra per far fronte ai costi della cultura con investimenti adeguati e per avvicinare cultura e potere. Per le proprietà della geometria euclidea anche il terzo lato, la distanza tra potere e società, in casi di similitudine delle figure, si ridurrebbe.
Detto questo e definita così la struttura della politica culturale, possono essere utili anche accordi complementari, trasparenti nelle finalità, tra pubblico e privato per mettere insieme intelligenza e denaro su progetti definiti da comitati scientifici di sicura affidabilità e chiara fama.
Quanto, infine, alla gratuità dei servizi erogati, mi pare necessaria una ulteriore riflessione senza tabù. Per quanto attiene alla biblioteca, non forse il posto di lettura, ma alcuni servizi possono essere non-gratuiti. L'esperienza della Fondazione che dirigo è quella di un centro specializzato di documentazione (5-6 funzionari) frequentato ogni giorno da un numero di studiosi che non supera mediamente la decina, con un orario continuo di 10 ore. I servizi, quasi tutti gratuiti, sono erogati con una modalità che non può esser presa come parametro generalizzabile. Tuttavia, per l'insieme delle esperienze che conosco, mi pare ragionevole e comunque utile limitare gli sprechi, riconoscere e correggere inevitabili storture. Si possono introdurre molti miglioramenti, anche sperimentali, in un settore che non è privo di attitudini conservative, ma l'importante è non alimentare illusioni sul fatto che la non-gratuità dei servizi culturali possa dare risultati significativi per quanto attiene alla riduzione dei loro costi.


Copyright AIB 2006-09, ultimo aggiornamento 2006-10-04 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
URL: http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay16/luciani05.htm


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