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"16. Seminario Angela Vinay"
bibliotECONOMIA
attività e passività culturali

Tavola rotonda
Ricchi e stupidi per quante generazioni?

Cesare De Michelis, Docente presso l'Università degli studi di Padova


Il tema dell'economia dei beni culturali è attuale in questi giorni perché diventa sempre più drammaticamente evidente che la coperta è corta, mentre l'assenza di qualsiasi iniziativa riformatrice - che da molti, troppi anni tocca molti campi del sapere - testimonia che il modello che abbiamo ereditato, e che continuiamo affannosamente a governare e gestire, ormai mostra davvero la corda.
Ogni volta che ci si trova di fronte a questi problemi si riparla dei soliti ricchi e ignoranti; io comincio a pensare che si possa essere benissimo ricchi e ignoranti, anzi che probabilmente è più facile essere ricchi se si è ignoranti, a meno che non si voglia attribuire alla ricchezza un valore metaforico, e allora le cose ovviamente cambiano.
Soprattutto credo che il punto più delicato, su cui in questi decenni ci stiamo dolorosamente confrontando, sia il fatto che l'immagine dell'organizzazione pubblica dei servizi è ormai esplosa rispetto alla domanda e alla capacità di dare risposte adeguate alla domanda stessa: è esplosa nel sistema educativo, è esplosa nel sistema bibliotecario, è esplosa nei sistemi museali, è esplosa in quasi tutti i momenti fondamentali dell'organizzazione della società.
La domanda invece è fortemente cresciuta, come tutti noi ci rendiamo conto, e i tipi di risposta con cui immaginiamo di risolvere il problema della crescita della domanda sono la ripetizione meccanica di modelli culturali e organizzativi ottocenteschi, molto burocratici, fondati su valori populisti che ignorano e trascurano il profondo cambiamento complessivo che il mondo ha avuto di fronte alla crescita della domanda, all'innovazione tecnologica, e anche ai modelli di organizzazione politica e burocratica che gli Stati si sono dati.

Per quanto riguarda il pubblico e il privato l'amico Paolo Baratta, quando era Presidente della Biennale di Venezia, spiegava secondo me molto bene e con grande chiarezza la differenza esistente tra il momento funzionale e il momento economico. Osservava infatti come alcune funzioni eminentemente pubbliche restavano tali anche se svolte dai privati, e come invece alcune funzioni appartenenti alla dimensione del privato, e quindi anche del mercato, rimanevano private anche se svolte dallo Stato attraverso i suoi funzionari. La natura del servizio e della funzione non nasce dunque da chi li sostiene economicamente, ma deriva dal ruolo che questo servizio svolge nella comunità: ed è evidente che, mentre tutela e conservazione sono valori eminentemente pubblici perché corrispondono a un interesse del pubblico e della comunità, fruizione e uso sono degli interessi eminentemente privati, coincidendo con le diverse articolazioni ed esigenze della domanda.
Mi spiego con un esempio che è chiaro agli occhi di tutti: noi abbiamo ereditato dalla tradizione culturale di tipo organizzativo il modello museale, un modello peraltro ricco di fascino ed interesse anche se, analizzando i numeri, la gente va a vedere le mostre e tende ad andare a vedere poco i musei. Ci si può offendere, ci si può risentire, si può soffrire perché il modello culturale a cui siamo fortemente legati sta di fatto perdendo terreno, ma credo sia interessante prendere atto che così è, e così è non solo in Italia ma in tutto il mondo civile e organizzato.
I musei americani fanno le mostre, i musei italiani continuano a non farle; i musei italiani hanno pochi visitatori, i musei americani hanno tanti visitatori. Utilizzo questo esempio in modo un po' paradossale, per spiegare qual è la natura complessa di una forma di fedeltà quasi amorosa. Io sono tra coloro che guardano indietro con sempre crescente nostalgia, e guardano avanti con sempre crescente titubanza e perplessità: forse è un effetto dell'età, perché quando ero più giovane avevo un atteggiamento tendenzialmente diverso; o forse è un effetto dei tempi, del momento storico che stiamo attraversando.

Quello che è certo è che il modello della cultura umanistica, che è stato alla base del sistema scolastico e culturale di questo paese e del quale il libro è uno dei grandi interpreti in termini specifici - anche nella coincidenza temporale della crescita e dello sviluppo del libro con la crescita e lo sviluppo dell'Umanesimo -, è entrato totalmente in crisi.
Nelle Facoltà di Lettere, non dico nelle Facoltà di Ingegneria ma nelle Facoltà di Lettere, non si insegna più la cultura umanistica. E' stata una scelta operata qualche anno fa per iniziativa del Ministro Berlinguer ed è irreversibile, né vedo in che modo si possa recuperare questa dimensione.
E' possibile salvare la funzione del libro e delle biblioteche in seno ad una civiltà che rinuncia al primato dell'UNESCO?
Il problema non è così irrilevante, e tocca alcune questioni sulle quali credo sarebbe necessario un intervento di rinnovamento più coraggioso da parte dei bibliotecari e dei gestori delle istituzioni.
Nella nostra cultura le biblioteche devono essere strutture di servizio aperte al pubblico, di uso gratuito: la gratuità è anzi una delle loro caratteristiche eminenti.
Ma è davvero così importante oggi questo concetto come lo era nell'Ottocento? E' davvero, nell'era di Internet, l'elemento fondamentale che qualifica il lavoro di una biblioteca, consentendo di redigere in tutta Italia delle leggi regionali che escludono da qualsiasi forma di sostegno pubblico le biblioteche che vendono servizi? E che dire dell'era della fotocopia? Per anni abbiamo visto le biblioteche che vendevano fotocopie sotto banco, tramite cooperative, società private, al fine di non tradire la loro vocazione alla gratuità.
Meglio sarebbe invece sviluppare servizi a pagamento all'interno delle biblioteche: il che vuol dire, ad esempio, far pagare il posto a sedere, visto che le biblioteche svolgono in larga parte supplenza ad un servizio che le università non riescono più a seguire.

Se una persona viene qui in Querini scoprirà che tutti i pomeriggi, e anche per qualche ora della mattina visto che ormai si apre alle 10.00, ci sono decine e decine di studenti che, senza nessun bisogno, o pochissimo bisogno, dell'apporto del bibliotecario (perché il libro se lo portano da casa), utilizzano le sale della biblioteca come sale studio. Avrebbe dovuto essere l'università, che aveva tempo, risorse, denaro, a fornire i propri spazi: non lo ha fatto, e non lo ha fatto per quarant'anni ormai - perché è dal '65 che non lo sta più facendo in modo effettivo-, e strutture come questa hanno supplito a questa esigenza.
Il sabato pomeriggio alle 15 qui in Querini non si entra, se non per raccomandazione: ma non solo qui, in quasi tutte le biblioteche, perfino nelle biblioteche universitarie; e quelle poche sale studio che ancora sopravvivono all'interno delle università testimoniano la loro inadeguatezza più o meno tutti i pomeriggi.
Credo quindi che la questione sia sempre la stessa: uno Stato che non ha mai risolto il problema dell'unità del paese né attraverso l'integrazione dei sistemi regionali precedenti, né attraverso un sistema federale, organizzazione che mi lascia perplesso anche se ammetto che forse il mio è un pregiudizio. Resta il fatto che noi abbiamo un numero di Biblioteche Nazionali che neanche gli Stati Uniti d'America si permettono di avere.
Non possiamo pensare di essere il paese che ha più musei, più biblioteche, più enti lirici e di riuscire poi ad avere le risorse per sostenerli tutti: non si capisce infatti dove queste risorse si possano trovare in un sistema tendenzialmente solo, o prevalentemente, pubblico.

Qui siamo per fortuna in una struttura che pubblica non è, ma che sempre di più tende a diventarlo, perché l'affanno storico dell'autosufficienza della Querini è ormai noto a molti, se non a tutti.
E' su questo che dobbiamo riflettere: il modello organizzativo ottocentesco, o del primo Novecento, sul quale abbiamo organizzato musei, università, scuole, biblioteche, enti lirici, teatri stabili e chi più ne ha più ne metta, è esploso. Ed è così palesemente, così contraddittoriamente esploso, che un Ministro dell'Economia - nonostante sia un collega accademico, nonostante sia una persona provvidenzialmente sapiente più che ignorante - ha deciso di tagliare il 40% delle risorse dello spettacolo e tutto il tagliabile ovunque. Ricordiamo peraltro che non si tratta solo della malizia del governo di centro destra, perché non sono state fatte delle riforme tali da consentire una corretta impostazione del bilancio: questa è la vera responsabilità del governo di centro destra, non quella del taglio conclusivo di un bilancio, che come sempre si può fare all'inizio o alla fine. Quello che abbiamo oggi è un bilancio alla fine di un crack istituzionale che dura da troppo tempo, e quindi non si tratta altro che di fare le somme: a questo punto le variabili di bilancio mi paiono veramente modeste.
O noi - con tutti gli operatori di questo settore - ci impegniamo non a resistere alle riforme, come fanno oggi nelle università, ma semmai a migliorarle, a contribuire a renderle più efficienti, oppure, se continuiamo a difendere come diritti acquisiti i privilegi conquistati nel corso di una secolare e ormai disastrosa gestione della cosa pubblica, non ci sarà via d'uscita.
Come diceva Massimo Cacciari l'altro giorno, l'Italia è uno dei pochi paesi sovietici sopravvissuti al crollo del muro di Berlino: noi forniamo servizi sociali, welfare, esattamente come nell'immaginario i partiti dei paesi sovietici avrebbero dovuto fare. Loro non lo hanno mai fatto e sono crollati, figuriamoci se non crolleremo noi. O tagliamo dei servizi e li qualifichiamo riconvertendo le forme di spesa, oppure non c'è spazio di uscita.

Aggiungo un'ultima considerazione, come imprenditore e non come professore: dobbiamo reimparare dal mercato la logica di un conflitto che il mercato in qualche modo sottintende, e nel quale i soggetti devono imparare a reagire e a vincere.
Non possiamo certo sperare di essere protetti dalle regole ferree e violente del mercato dalla bontà paterna o materna dello Stato; possiamo tuttavia cercare, come tutti, di attenuarne qualche effetto. Ma in una economia mondiale che ormai è dominata da una forte dose di competizione, all'interno della competizione dobbiamo stare: come quando si gioca a calcio, o si perde o si vince. E credo che dobbiamo imparare quest'etica, che è analoga a quella di dover essere tutori di valori di democrazia e di libertà che non basta difendere in astratto: dobbiamo difenderli nel concreto di una competizione, riuscendo a dimostrare coi fatti che la libertà è migliore nella competizione, che è strumento più efficace della tirannia e che l'ignoranza è davvero un handicap, perché il sapere è pronto ad emergere sul mercato.
Credo che abbiamo realizzato oggi una cosa che nell'Ottocento non era possibile, cioè vendiamo i libri a dei prezzi vergognosamente bassi, e quando dico vergognosamente è dal punto di vista della logica di mercato. Mi sono più volte domandato perché in Germania non li vendono a dei prezzi così bassi. Perché noi possiamo vendere i libri al 40% di sconto rispetto ai francesi? E non parlo dei libri in edicola che sono venduti con l'80% di sconto: i francesi non vendono libri in edicola, i tedeschi nemmeno, e non vendono i libri a 4 euro e 90 centesimi, ma li continuano a vendere a 42 euro. Allora, perché? Perché 42 euro consentono ricerca, informazione, promozione; noi invece facciamo i libri non pensando alla ricerca, all'informazione e alla promozione, dato che li vendiamo a un prezzo molto vicino al prezzo di costo. In tutte le società evolute parte delle risorse investite nell'editoria hanno delle giustificazioni intese a favorire la diffusione del libro davvero; noi vendiamo i libri a chilometro, unico vero sistema con cui si vende; non vendiamo libri che si leggono, e abbiamo anche costruito etiche ottocentesche, come quella che i libri non si buttano. In Giappone le persone gettano via il 96% dei libri che compra, esattamente come in Italia si elimina il 96% dei quotidiani che ogni giorno vengono venduti. Immaginate se qualcuno volesse conservare 7 milioni di copie di quotidiani per 100 testate, 70 milioni di copie al giorno di quotidiani: sarebbe un inferno. Noi invece li conserviamo: c'è il "Corriere della Sera" in quasi tutte le biblioteche pubbliche, e anche in quelle di famiglia. Gli avvocati, ad esempio, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento avevano l'abitudine di conservare il "Corriere della Sera" in soffitta; se provate a cercare una collezione completa di "Bolero Film" o di "Sogni" a fatica ne troverete qualche numero, anche se in trent'anni ne hanno venduto due milioni di copie, mentre siamo costretti a leggere il "Corriere della Sera" ovunque andiamo.
Da parte mia credo invece in una politica che insegni alla gente che i libri si possono benissimo buttare via dopo averli letti, e che in questo non c'è niente di vergognoso; che anzi molti dei libracci che oggi si stampano dovrebbero avere per necessità questo destino, e che sarebbe vergognoso che non l'avessero; che non tutte le istituzioni bibliotecarie sono tenute alla conservazione, e che questo però vuol dire organizzare sistemi bibliotecari che tengano conto della diversità della domanda e della diversità dell'offerta valorizzando, per quanto possibile, non solo il fund raising - che mi pare fondamentale - ma anche la possibilità di coinvolgere gli utenti nella gestione economica dei servizi.
Grazie.


Copyright AIB 2006-09, ultimo aggiornamento 2006-10-03 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
URL: http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay16/demichelis05.htm


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