In seguito all'iniziativa di Bibelot di aprire uno spazio per pubblicare le opinioni sull'albo professionale, riportiamo questo primo intervento, che verrą pubblicato anche sul prossimo numero del bollettino


Dal bibliotecario invisibile alla biblioteca che non c'è: alcune note a margine sulla proposta di albo professionale

di Elisabetta Di Benedetto



Mi è capitato di recente di ragionare sui tanti aspetti problematici della nostra professione e ora che l'ipotesi di un albo professionale inizia a stagliarsi più nitidamente, mi sembra opportuno buttare sul tappeto qualche riflessione in ordine sparso.
Diversamente da quanto avviene nei paesi anglosassoni, dove la figura del bibliotecario è tradizionalmente consolidata, in Italia il panorama è assai frastagliato, tanto che non è facile attribuirle una chiara identità professionale. Al di là delle inevitabili differenze di settore che contraddistinguono la nostra professione (ma che a ben vedere sono forse meno profonde di quanto si creda), esiste nel mondo anglosassone un comune denominatore che garantisce una base uniforme su cui costruire le varie peculiarità specialistiche: così il bibliotecario della public library avrà in comune con il suo collega universitario o della British Library un corso di studi specifico senza il quale non è possibile accedere alla professione. Sappiamo tutti che in Italia il personale delle biblioteche garantisce un campionario completo dei titoli di studio del nostro sistema educativo e, cosa ancor peggiore, difficilmente questo fatto riesce a turbare gli animi, direi anzi che passa all'esterno quasi del tutto inosservato. Ho precisato all'esterno perchè tra coloro che sono impegnati in questa professione sembra serpeggiare un certo malessere e soprattutto un forte desiderio di aggiornamento, formazione e informazione.
Ricordo che dall'analisi al secondo questionario inviato agli iscritti ad AIB-CUR e presentata al Convegno nazionale di Napoli è emerso come più di 1/3 considerava la funzione informativa e di aggiornamento professionale uno degli aspetti più positivi della lista e circa 1/5 apprezzava la possibilità di spezzare l'isolamento e sentirsi parte di una comunità. Sempre su questo tema, in una recente assemblea dei soci della Sezione Toscana ho avuto modo di ascoltare l'accorato appello di una collega di una biblioteca pubblica, affinchè la Sezione si impegnasse a sostenere e tutelare tutti quei bibliotecari che si trovano ad operare in situazioni di disagio, spesso in strutture piccole e decentrate.
Questa dell'isolamento sembra dunque una condizione ricorrente e non occorre certo sottolineare che accanto all'isolamento fisico di chi soffre di emarginazione territoriale (un'emarginazione oggi fortemente attenuata da Internet), esiste il più drammatico isolamento di chi è impossibilitato a comunicare con dei superiori che spesso ignorano anche i più elementari principi della biblioteconomia, perché, sebbene responsabili di biblioteche, svolgono nella vita tutt'altra professione. E' il caso dei tanti docenti che dirigono biblioteche universitarie senza avere alcun tipo di preparazione specifica; oppure di quegli amministratori pubblici con i quali si scontrano quotidianamente tanti colleghi degli enti locali.
A tutt'oggi mi sembra di poter asserire che a fronte dei numerosi doveri che ricadono (peraltro giustamente) sulla nostra professione, non è possibile individuare altrettanti diritti.
Questo è il quadro di riferimento a partire dal quale ci si avvia ad un dibattito sulla proposta di istituire un albo professionale. Qual è, dunque, la portata dell'iniziativa? Che senso ha proporre un albo proprio nel momento in cui stanno per essere aboliti quelli delle altre categorie professionali?
La prima caratteristica di quest'albo è quella di non proporsi come uno sbarramento all'esercizio della professione, ma piuttosto come un organo interno di certificazione dei requisiti professionali dei suoi membri.
La seconda caratteristica è che la richiesta di ammissione deve partire dai diretti interessati e non si traduce in alcun tipo di vantaggio se non quello del riconoscimento professionale: rappresenta così un momento di responsabilizzazione e impegno personale.
La terza caratteristica è che la valutazione dei requisiti prescinde dal tipo di struttura in cui si opera (è l'albo dei bibliotecari non delle biblioteche, che pure, forse, sarebbe auspicabile!). Ciò mi sembra particolarmente significativo in tempi in cui, ad esempio, si sta avviando nelle università una sperimentazione ( ex art. 50 del CCNL) che rischia di penalizzare il personale che opera nelle piccole strutture. Non dimentichiamo che la polverizzazione in tante biblioteche di dipartimento o istituto è stata consentita dalle amministrazioni per gratificare i personalismi di questo o quel docente, a scapito dell'utenza complessiva e del personale che è stato assegnato alle strutture. In particolare questo sarebbe penalizzato due volte: la prima perché destinato a lavorare in ristrettezza di mezzi e risorse, la seconda perché l'amministrazione potrebbe non riconoscergli quelle condizioni minime di professionalità tali da consentirgli una giusta progressione di carriera.
La quarta caratteristica è che si scinde la professionalità dalla complessità della struttura in cui si opera, eppure tale parametro sembra tra quelli presi in considerazione sempre nella succitata sperimentazione. Secondo quest'ottica forse chi lavora in una biblioteca scolastica andrebbe direttamente licenziato, mentre la piccola struttura a volte può richiedere competenze addirittura maggiori rispetto alla grande biblioteca, perché obbliga ad un ripensamento sui modi in cui si esplicano le funzioni classiche della biblioteca in considerazione delle esigenze di un utenza molto specialistica o fortemente connotata.
La quinta caratteristica è che si fa della formazione il punto nodale tra chi è dentro e chi è fuori. Le implicazioni sono evidenti: riconoscimento della propria crescita professionale, incentivo all'aggiornamento permanente (tra l'altro sono previste revisioni quinquennali degli iscritti), ma anche un punto di forza per pretendere da istituzioni e responsabili, solitamente restii a favorire le occasioni di aggiornamento, una più ampia disponibilità.
Allora che cos'è l'albo? E' un'occasione e una sfida: un'occasione per veder affermata la propria professionalità a dispetto dell'emarginazione e dei soprusi, ma anche una sfida all'Associazione affinchè, forte di una nuova e più vasta rappresentatività, riesca ad assumere un ruolo di maggior rilievo rispetto alle scelte politiche e legislative che si andranno delineando. Ci si chiede in particolare quale sarà l'atteggiamento dell'Associazione e in che senso andrà l'opera del legislatore di fronte alle situazioni (e non saranno poche!) in cui un bibliotecario regolarmente iscritto all'albo ha come responsabile qualcuno che non può esserlo per l'assoluta mancanza dei requisiti richiesti?
E' una sfida che l'Associazione potrà vincere solo impegnandosi a tutelare i diritti dei suoi membri, primi fra tutti "gli invisibili", costretti ad operare in condizioni di emarginazione e disagio o in strutture fantasma (è il caso delle tante bibliotechine universitarie cui si accennava sopra, ma anche della tante biblioteche riassorbite nei vari "servizi culturali" degli enti locali) che, per quanto ufficialmente inesistenti, richiedono comunque il loro quotidiano impegno professionale.



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Copyright AIB, ultimo aggiornamento 2002-07-07 a cura di Vanni Bertini