AIB.
Sezione Toscana. Bibelot, n. 1 (2010)
È nell'anonimato del nonluogo che si prova in solitudine la comunanza dei destini umani (Non-lieux, Marc Augè)
L'esperienza di IFLA 2009 a Milano è stata per me un'esperienza appassionante, sia sul piano umano, sia su quello professionale. Come new comer, ho tratto il massimo divertimento, oltre che dalla visita agli stands degli espositori professionali, dalla partecipazione ad alcune delle iniziative collaterali in programma, inclusa la partecipazione alla serata al Teatro alla Scala. Per quanto attiene agli incontri di approfondimento tematici, ovviamente (e dolorosamente) ho dovuto operare delle decisioni, tralasciando purtroppo incontri, seminari e workshop pur interessanti, ma paralleli. Complimenti a tutte le associazioni e operatori professionali, la cui sinergia ha reso possibile l'organizzazione del congresso, fortemente voluto dal Presidente AIB Guerrini sin dallo scorso anno, e anche grazie all'abnegazione dei colleghi volontari, provenienti da ogni parte d'Italia. La biblioteconomia (si sa) è scienza composita e dalle molte sfaccettature, e la partecipazione al Congresso Internazionale IFLA 2009 di Milano, mi ha permesso di sintetizzare e "rappresentare", innanzitutto a me stesso e poi, auspicabilmente, attraverso questo articolo, "comunicare" ai colleghi interessati, i miei principali profili di interesse riguardo a questa disciplina. La mia partecipazione ai lavori del Congresso IFLA 2009, resa possibile grazie al finanziamento della Regione Toscana, mi ha pure inserito nel gruppo qualificato e composito dei colleghi toscani, provenienti da differenti realtà e tipologie di biblioteca, che ringrazio per la simpatia e che spero di rincontrare presto.
Le riflessioni che seguono scaturiscono dalla partecipazione come uditore alla sessione del giorno 26 agosto n. 158 "Library services to multicultural populations".
Sia come cittadino-lettore sia come bibliotecario professionista, ho sperimentato più volte, nel tempo e nelle differenti realtà dove ho lavorato, una difficile se non impossibile integrazione, tra la popolazione italiana "locale" e la popolazione immigrata, in sensibile aumento negli ultimi tempi, anche a causa forse di una politica di contrasto all'immigrazione clandestina piuttosto debole. La proposta di riflessione rappresentata dai differenti interventi nell'ambito della sessione di lavoro congressuale citata, e soprattutto in "Memory, Authenticity and Cultural Identity: The Role of Library Programs, Services and Collections in Creating Community", mi ha offerto lo spunto per alcune riflessioni su biblioteche pubbliche / città / popolazioni immigrate / identità culturale, che vado a proporre. La biblioteca pubblica, organismo in costante crescita, è e si fa strumento emozionale e informativo-documentale, oltre che -com'è ovvio- strumento di democrazia, ad ogni nuovo approccio delle popolazioni multiculturali alle proprie raccolte, ad ogni transazione di reference più o meno riuscita.
Non sono proprio sicurissimo che (soltanto) le biblioteche "create futures", tuttavia ho per certo che le informazioni, veicolate dai libri e ormai da ogni tipologia di documento, stanno alla base della comunicazione multi- anzi, meglio: inter-culturale, e la public library (e il suo personale) si pone al centro della società trasparente, democratica e multietnica; la biblioteca pubblica è sito e archetipo di ogni ipertesto possibile e immaginabile, reale e immaginario.
In un'epoca in cui la centralità, le certezze, il "pensiero forte" lasciano il posto a una precarietà lavorativa (ed esistenziale) drammatica, occorre capire se questa tensione sia sintomo di disponibilità all'incontro, allo scambio, ad una relazionalità senza barriere e, quindi, segno di una "forza" sostanziale, o sia invece solo indice di fragilità, inconsistenza, pallore. Lasceremmo volentieri questo dilemma al suo destino; non fosse che a richiamare la necessità dell'Assoluto sono oggi soprattutto spinte reazionarie, movimenti teocon e fondamentalismi di varia natura, e allora siamo obbligati come bibliotecari a compiere una scelta di campo tra un'idea di società, e di biblioteca pubblica, univoca e intoccabile, quale che essa sia, oppure assumere un "relativismo culturale" disprezzato da alcuni in quanto innaturale, foriero di confusione e disordine. Per quanto refrattario alle scelte definitive -anzi, proprio per questo- come bibliotecario chi scrive opta spontaneamente per la seconda. Con tutto il corollario di "propensione all'insaturo" che ne consegue, che si riflette poi nella mia vita, e nel mio lavoro quotidiano. Quanto possa confondere la predilezione per la marginalità si può comprendere, ma perché sia anche "innaturale", è difficile dire. La nostra avventura di uomini e cittadini nasce e si organizza primariamente intorno alla periferia, alla pelle, per usare una metafora, piuttosto che al cervello, o al cuore. L' "Io-pelle" (D. Anzieu), involucro permeabile, contenitore di organi vitali, dell'anima, e anche luogo di passaggio e di incontro, filtro, barriera, frontiera accogliente o inespugnabile, ricettacolo di sensazioni, area del piacere, ricevuto e donato, sede del contatto primario, illusorio onnipotente, ma pure varco della realtà, dell'oggettività mortificante e frustrante. Perché la pelle non è un sensore passivo, la pelle vive, impone la sua autonomia funzionale e fa sistema col restante mente-corpo. La pelle si trasforma, si sgretola, muore. La pelle ci interpreta, così è in natura. Ma lasciamo la filosofia, e passiamo alle biblioteche pubbliche.
Le nostre città sono disseminate di cartelli segnaletici recanti l'indicazione "centro", simboleggiata da cerchi concentrici (esistono più centri? scontato, siamo nell'epoca dei quanta). Non si trovano invece simboli della periferia (cerchi dis-centrici?): la periferia non esiste? La periferia non interessa a nessuno? Vere, forse, entrambe le cose. In fondo, è proprio la non-esistenza una delle molle che spinge a indagare il non-luogo per eccellenza (M. Augè), un non-luogo per giunta dimenticato. La periferia non esiste perché è indefinibile, magma fluido in continua espansione, materia brulicante di vita. Paradossalmente, "non esiste" perché "è" viva. Quale strumento meglio della lettura è capace di mostrare quel che non c'è (forse l'unica "realtà" possibile)? Essendo la periferia luogo di contaminazione e di possibili infezioni, è facile cedere ad un uso "difensivo" della cultura, del libro, e della biblioteca. La biblioteca come trincea: e storie, personaggi pagine diventano camere sterili, incontaminabili, refrattarie all'incontro con l'imprevisto, l'altro da sé, l'ignoto. Con il "lettore"... Un approccio "debole" presuppone la lettura (e quindi l'uso della biblioteca) come appendice di sé, preconscio ausiliario, generatore di sogni. L'insaturo non offre risposte ma apre scenari, avvia derive, sprigiona mondi possibili. Il mio sguardo di lettore che era fuori ritorna dentro, curioso, e poi riparte. Cortocircuiti emozionali ingolfano il mio spinterogeno mentale costringendolo a tossire, a ... pensare. Sempre che ci sia disponibilità all'incontro. Altrimenti, il libro diventa una camera sterile, un feticcio.
Alla fine, può succedere che la periferia, come la biblioteca, diventi un luogo intimo e profondo. Osservare la periferia, usare la biblioteca, è scrutare all'interno di sé stessi: un centro in movimento, non ingabbiato da cerchi concentrici ma libero di interagire con essi e di venirne fuori, fino ai confini più estremi. Ritornare pelle
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AIB 2011-01-22, ultimo aggiornamento 2011-01-29 a cura di Paolo Baldi e Carlo Ghilli
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