The article reports the results of a survey carried out in the spaces of Italian coworking, with the aim of observing the levels of access and use of information and documentation between professionals who recognize themselves in this new way of working. The results show the features, limitations and possible lines of interaction that involve actively librarians.
Queste riflessioni rappresentano i primi risultati di un'indagine commissionata da alcuni professionisti [1], che operano all'interno dello spazio Warehouse Coworking Factory [2], specializzati nel settore della social cognition, dell'informazione documentaria e del coworking management, con l'obiettivo di cominciare ad osservare, sulla base dei dati primari provenienti da un sondaggio online, i livelli di accesso ed uso dell'informazione e della documentazione in Italia, all'interno dei nuovi spazi e delle communities che hanno dato vita al coworking.
Warehouse Coworking Factory è uno spazio di lavoro condiviso, inaugurato nel settembre del 2013 a Marotta, in provincia di Pesaro e Urbino, che si pone come un'alternativa all'ufficio tradizionale, dedicata a freelance, professionisti, creativi, piccoli gruppi di lavoro, start-up per condividere spazi, strumenti di lavoro e costi, ma soprattutto idee, esperienze, know-how e progetti. Lo spazio, allestito con scrivanie personali, affittate a prezzi contenuti, area relax, angolo caffè e sala meeting, si propone di fondere autonomia lavorativa e contaminazione professionale, in un ambiente operativo che favorisce la collaborazione e lo sviluppo di processi creativi di conoscenza.
La scommessa lanciata sin dalle origini dal coworking, oltre alla condivisione fisica degli spazi, è proprio la creazione di una comunità di professionisti che condividono gli stessi valori e spesso gli stessi lavori. I professionisti che da circa un anno si stanno avvicendando in Warehouse sono, tra gli altri, community manager, architetti, designer, psicologi del lavoro, consulenti di marketing, traduttori, programmatori informatici, ingegneri e piccoli artigiani locali. Oltre a un costante confronto con le amministrazioni locali e le associazioni di categoria del mondo delle imprese, i fondatori hanno anche avviato delle proficue collaborazioni con il KTO [3] (Knowledge Transfer Office) dell'Università di Urbino e con altri due spazi di coworking di Berlino: Agora [4] e Supermarkt, [5] con i quali condividono l'ospitalità dell' Erasmus for young entrepreneurs [6], iniziativa promossa dall'Unione Europea.
Questo nuovo stile di lavoro, che ha cominciato a diffondersi negli Stati Uniti e nel Nord Europa a partire dalla metà del decennio scorso, prima dell'esplosione della crisi finanziaria nel 2008, non rappresenta solo una risposta alle difficoltà sopraggiunte, in quanto si ritiene [7] che il coworking, come molti altri fenomeni sociali classificabili come sharing economy [8], sia determinato innanzitutto dalla terziarizzazione del sistema economico, dalle nuove tecnologie e dalle forme di rapporti di lavoro instaurate da freelance, lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti con contratti atipici che si auto-organizzano per autogestire servizi e spazi in risposta a nuovi bisogni professionali e di reddito. La crisi è diventata nel frattempo un elemento di accelerazione di un'esperienza che ha assunto ormai dimensioni mondiali [9].
In Italia sono aperti oltre 200 spazi di coworking [10], diffusi sia nelle grandi città che nelle piccole, ma con una maggiore concentrazione nel centro-nord. Sono spazi principalmente privati [11] ma se ne trovano anche alcuni pubblici come MillePiani [12] a Roma, Multiverso [13] a Foligno, Veglio Coworking Project [14] in provincia di Biella. Circa il 50% tra quelli mappati sono organizzati in network o franchising come le reti Cowo [15], Multiverso [16], Talent Garden [17], Impact Hub [18].
Molto utili per capire in sintesi la filosofia che li accomuna sono i dieci punti del Cowo Manifesto [19]:
Ho cominciato a frequentare il coworking nel febbraio del 2014 chiedendomi quali rapporti reciproci potevano determinarsi tra i bibliotecari, i coworkers e gli spazi condivisi. I bibliotecari da sempre svolgono un lavoro di cura per tutti, incardinati negli apparati del welfare pubblico, insieme agli assistenti sociali, agli insegnanti, ai medici, ma la scommessa di partenza è stata quella di dimostrare che nella società dell'informazione i bibliotecari possono fornire un significativo supporto alla comunità operosa fatta di piccole, medie, grandi imprese e anche di singoli professionisti che necessitano di consulenze esterne.
D'altronde, le più importanti statistiche ufficiali [20] descrivono l'Italia come un paese privo di conoscenze e di competenze, collocato nell'ambito dell'istruzione, della ricerca, dello sviluppo ai livelli più bassi rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Ad esempio, molti indicatori sottolineano la scarsa propensione all'innovazione delle aziende italiane a causa delle loro piccole dimensioni e al basso grado di istruzione della maggior parte degli imprenditori italiani. Molti di essi non sono in grado di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per sviluppare le proprie potenzialità, per raggiungere i propri obiettivi. Lo scenario è tanto più critico se consideriamo che nel capitalismo delle reti e della conoscenza, oltre ai flussi del sistema finanziario, del sistema dei trasporti e della governance, è imprescindibile avere la padronanza del flusso del sistema delle informazioni e della proprietà intellettuale.
A partire da queste premesse ho attivato all'interno di Warehouse una postazione dalla quale fornisco consulenza e servizi informativi a coworkers e aziende del territorio, collaboro come bibliotecario incorporato in progetti di lavoro condivisi, tengo corsi di information literacy per lavoratori e gestisco progetti editoriali cartacei e digitali per conto di enti pubblici e privati [21]. Nel frattempo, a settembre 2014, è stata avviata, in collaborazione con altri professionisti, una lettura delle risorse e delle abitudini informative della comunità dei coworkers italiani tramite un sondaggio online, con l'obiettivo di individuarne gli elementi strutturali e le possibili linee di interazione.
L'ispirazione e il modello per creare un sondaggio sull'uso dell'informazione e della documentazione [22] riprende l'interessante analisi svolta nel Regno Unito dal Publishing Research Consortium [23] sull'accesso delle piccole e medie imprese all'informazione accademica e professionale [24]. Il rapporto finale dell'indagine, pubblicato nel 2009, esplora i temi intorno ai livelli di accesso alla documentazione di ricerca da parte delle PMI, sulla base di tre fonti: la revisione degli studi sul tema, i dati primari di un sondaggio online e il supporto di interviste qualitative.
Nel Regno Unito ci sono circa 4 milioni di piccole e medie imprese che rappresentano il 99,9% del totale. Uno scenario molto simile a quello italiano, dove le PMI [25] dominano il lavoro industriale [26] con una consistente presenza di ditte individuali [27], il cosiddetto popolo delle partite IVA che oggi, attraverso il coworking, sta riconfigurando l'assetto organizzativo del lavoro e le modalità di trasferimento delle conoscenze.
Il sondaggio è stato avviato il 10 settembre 2014, con l'invio di un questionario [28] agli indirizzi e-mail di circa 100 spazi attivi in Italia e si è concluso il 15 ottobre. L'indagine è stata progettata per osservare in dettaglio:
Il questionario è strutturato in tre sezioni principali:
La prima sezione comprende 10 domande relative ai dati personali e al tipo di formazione conseguita; nelle successive 4 domande della seconda sezione si chiede di specificare il tipo di rapporto di lavoro, l'ambito professionale, le dimensioni della community di appartenenza e di indicare alcuni fattori rilevanti per il proprio successo lavorativo. Nella terza sezione, sono state poste le seguenti domande, che si riportano per esteso:
Al questionario hanno risposto 55 lavoratori, divisi equamente tra uomini (53%) e donne (47%), provenienti da tutta Italia [29], in particolare dalle regioni del centro nord dove il coworking è più diffuso.
L'età dei rispondenti nel 74% dei casi si colloca nella fascia da 26 a 45 anni; malgrado le ridotte dimensioni del campione raccolto, risulta interessante anche la presenza di 8 coworkers che dichiarano di avere un'età compresa tra 46 e 55 anni, confermando l'ipotesi che il coworking non sia etichettabile con una categoria giovanilista.
Più dell'80% dei rispondenti è in possesso di una laurea mentre la parte restante dichiara di aver conseguito almeno il diploma. Il tipo di formazione professionale è bilanciato tra l'area tecnico-scientifica e le scienze sociali, ma significativa è anche la presenza nelle scienze umanistiche.
Nel primo caso i coworkers sono informatici, architetti, ingegneri; nell'area sociale sono esperti di scienze politiche, comunicazione ed economia; tra gli umanisti troviamo esperti in lingue, lettere e filosofia, arte e design.
Passando alla seconda sezione, 32 rispondenti, ovvero oltre il 59% del totale, dichiara di svolgere un'attività indipendente di cui il 35% sono lavoratori freelance e il 24% lavoratori autonomi iscritti ad albi professionali. Un consistente 25% del campione è rappresentato da imprenditori, mentre 8 coworkers dichiarano di essere lavoratori dipendenti che usano lo spazio del coworking per svolgere la loro attività lontano dalla sede del datore di lavoro, mescolandosi quindi ad altri professionisti impegnati su altri fronti.
Le principali attività nelle quali i lavoratori sono impegnati riguardano la pubblicità, la comunicazione, l'informatica e l'architettura, ma sono presenti anche altri ambiti disciplinari e professioni ordinistiche come la consulenza commerciale e legale.
Gli spazi di coworking frequentati sono di dimensioni diverse: oltre il 70% delle risposte fa riferimento a luoghi che ospitano fino ad un massimo di 20 lavoratori alla volta, confermando una tendenza tipica italiana al piccolo dimensionamento degli spazi, in particolare nelle aree di provincia [30].
Nelle ultime tre domande relative alla vita lavorativa abbiamo chiesto di esprimere quali sono i fattori più rilevanti per il successo della loro attività, utilizzando la seguente scala di valori - per niente; poco; abbastanza; molto; moltissimo; non so - da applicare a questo elenco di voci:
Fattore di successo |
Rilevanza |
Autoimprenditorialità |
187 |
La qualità dei servizi che offri |
184 |
Indipendenza e autonomia |
183 |
Formazione |
174 |
Tecnologia / Software / Comunicazione |
174 |
Progettazione condivisa e multidisciplinare |
166 |
Qualità delle communities di appartenenza |
164 |
Qualità delle attrezzature |
162 |
Accesso alle informazioni (ad esempio articoli di ricerca, rapporti di ricerca, brevetti, opere di consultazione, informazioni sulle normative ecc.) |
157 |
Accesso alle competenze tramite altri consulenti |
138 |
Burocrazia efficiente |
132 |
Frequentazione di più spazi di coworking |
115 |
Trasporti e logistica |
109 |
Accesso alle competenze e alla ricerca universitaria |
105 |
Servizi bancari |
104 |
Welfare e mutualismo: previdenza, assistenza |
100 |
Che si tratti di freelance, imprenditori, lavoratori autonomi o dipendenti, il risultato ponderato dimostra che informazione e documentazione sono importanti ma in misura molto inferiore rispetto ad altri fattori, come l'autoimprenditorialità, la qualità dei servizi offerti o l'indipendenza professionale. Molto bassi sono anche i valori attribuiti all'accesso alle competenze con il supporto di consulenti esterni oppure tramite la ricerca universitaria, mentre sono ben posizionati gli altri canali per il trasferimento della conoscenza come la formazione, la progettazione condivisa, la tecnologia e la condivisione nelle community.
Ai rispondenti è stato chiesto di descrivere liberamente anche un eventuale fattore particolarmente critico per la propria attività lavorativa, e nella successiva classificazione delle risposte gli elementi ricorrenti sono stati: l'instabilità del mercato, la debolezza delle istituzioni pubbliche, l'arretratezza delle infrastrutture e infine diversi aspetti soggettivi, come la carenza di correttezza, di spirito imprenditoriale e di disponibilità alla condivisione.
Complessivamente però il successo della propria specifica attività lavorativa, in una scala da 1 (basso) a 7 (alto) si posiziona mediamente tra il valore 4 e 5, come si può vedere nel grafico successivo.
Nella terza sezione del questionario è stato chiesto ai rispondenti di indicare l'importanza dell'accesso per la loro attività lavorativa a un certo tipo di fonti informative e documentarie, applicando come scala di valori "per niente; poco; abbastanza; molto; moltissimo; non so".
L'elenco delle fonti proposte comprende:
Tipi di documento |
Rilevanza |
Book/ebook; |
131 |
Articoli di approfondimento su riviste; |
123 |
Informazioni legislativo / normative (ad esempio informazioni fiscali, regole dei dipendenti, disposizioni per l'importazione, ecc.); |
116 |
Atti o abstract di congressi, convegni e seminari (compresi i power point); |
108 |
Informazioni tecniche (ad esempio sulle caratteristiche dei materiali); |
108 |
Opere di consultazione; |
108 |
Pubblicazioni professionali; |
107 |
Standard scientifici e tecnici (ad esempio ANSI, British Standards Institution, IEEE Standard, ISO, ecc.); |
102 |
Articoli di ricerca originali su riviste; |
99 |
Dispense di corsi; |
93 |
Rapporti di ricerca di mercato; |
89 |
Albo dei fornitori; |
86 |
Pubblicazioni interne a organizzazioni, pubbliche o private; |
86 |
Rapporti tecnici; |
84 |
Progetti di ricerca; |
80 |
Tesi di laurea; |
80 |
Tesi di dottorato; |
72 |
Informazioni brevettuali; |
71 |
Linee guida per tecniche di laboratorio e metodi di analisi; |
70 |
Pre-print di articoli destinati successivamente a pubblicazione. |
68 |
Le fonti più importanti indicate nelle risposte ricevute sono nell'ordinamento finale ponderato:
Agli ultimi posti nella scala delle priorità sono risultate le informazioni brevettuali, i pre-print, le tesi di laurea e di dottorato.
Gli altri tipi di informazioni indicate come importanti nelle risposte libere pervenute sono le seguenti:
La domanda successiva prevedeva di specificare il livello di accesso alle stesse tipologie di fonti elencate nel paragrafo precedente; le fonti ritenute più facili da consultare sono state di nuovo:
Mentre le informazioni e i documenti più difficili da reperire sono risultati ancora una volta brevetti e pre-print.
E' stato chiesto poi di spiegare il motivo per cui si ritiene l'accesso particolarmente difficile ad alcune fonti e, a parte coloro che semplicemente ignorano un certo tipo di informazione perché non la usano, altri hanno indicato tra le cause della difficoltà:
Ma quali sono i canali scelti dai rispondenti e quante volte li usano per accedere alle informazioni? L'elenco dei servizi informativi proposti prevedeva:
Le opzioni per indicare la frequenza di accesso invece erano le seguenti:
Canali informativi |
Rilevanza |
Pagina web dell'autore |
302 |
Tramite una rivista ad accesso libero |
272 |
Database pubblici (Open data) |
240 |
Abbonamento personale |
222 |
In una biblioteca pubblica locale |
167 |
Abbonamento Istituto / azienda (ad esempio attraverso l'accesso da desktop, o tramite biblioteca del tuo Istituto) |
164 |
Appartenenza professionale / società |
161 |
Rivolgendosi direttamente all'autore |
161 |
Abbonamento personale dei colleghi |
156 |
Servizio di informazione in-house |
137 |
Banche dati universitarie |
135 |
In una biblioteca accademica locale |
130 |
Banche dati elettroniche a cui l'azienda è abbonata (ad esempio database dei brevetti) |
126 |
Repository istituzionali o server di preprint online |
125 |
Prestito interbibliotecario in biblioteca tramite una biblioteca locale |
114 |
Pay Online Per View (PPV) |
108 |
Dalle risposte ottenute, ordinate ponderatamente, si evince che a livello quotidiano è più rilevante come canale d'accesso la 'pagina web dell'autore' della risorsa cercata, seguita dalle riviste ad accesso libero, dai data base pubblici oppure dall'abbonamento personale. Conta in questo contesto osservare come la biblioteca pubblica, ma ancor di più la biblioteca accademica, le banche dati universitarie e il prestito interbibliotecario siano sostanzialmente al fondo della classifica dei servizi di accesso usati.
Le ultime due domande, infine, ci hanno consentito di constatare una diffusa lettura tra i rispondenti di riviste specializzate o di ricerca che comunque raramente va oltre le 50 testate, cartacee o digitali, all'anno.
In Italia non esistono studi statistici sull'accesso all'informazione e alla documentazione accademica e professionale nel tessuto delle piccole e medie imprese, e d'altronde il breve lavoro presentato non può ritenersi rappresentativo in quanto la realtà del coworking è solo una parte della comunità operosa italiana.
I risultati del questionario ci dicono che l'accesso all'informazione non è considerato una priorità dai coworkers per il loro successo professionale, che le risorse impiegate molto più frequentemente sono libri e riviste ad accesso libero tramite il web, e che i servizi di prestito delle biblioteche pubbliche o accademiche non sono molto utilizzati.
Neanche l'accesso alle competenze e alla ricerca universitaria sembra avere la precedenza nelle preoccupazioni dei coworkers anche se, sempre più spesso, attivano reciproche convenzioni e collaborazioni [31] spinti dall'esigenza di adottare un diverso approccio all'innovazione e al lavoro. L'importanza della ricerca di base per l'economia e per il processo di innovazione nelle imprese è innegabile [32], anche se vale la pena ricordare che la pubblicazione dei risultati sotto forma di informazione e documentazione è solo una delle modalità coinvolte nel processo di produzione e trasferimento delle conoscenze.
Da bibliotecari siamo convinti, d'altronde, che in una società sempre connessa è scontato che il ruolo della documentazione diventi fondamentale, a prescindere dal settore preso in esame. Per questo si ritiene che gli esiti della presente indagine possono essere visti come un primo passo utile ad avviare un'analisi approfondita dei livelli di accesso all'informazione nei coworking e ad allestire delle strategie pubbliche e private per colmarne le lacune, laddove esistano.
Per raggiungere questi obiettivi i bibliotecari potrebbero trovare molto utile effettuare l'analisi preliminare dei livelli di alfabetismo informativo [33] dei lavoratori, verificando la loro padronanza del processo di indagine documentale [34], come raccomandato dall'UNESCO già nel 2008 [35] (cioè saper riconoscere i propri bisogni informativi; localizzare le informazioni e valutarne la qualità; recuperare e immagazzinare le informazioni; fare un uso efficace ed etico delle informazioni; applicare le informazioni per creare e comunicare conoscenza), e come recentemente ribadito dall'IFLA (International Federation of Library Associations and Institutions) nella Dichiarazione di Lione per l'accesso all'Informazione ed allo Sviluppo, in cui si sostiene che "l'accesso all'informazione favorisce lo sviluppo e permette agli individui, ed in modo particolare alle popolazioni più povere e marginalizzate, di:
Si potranno proporre, per la valutazione delle abitudini documentarie [37] dei coworkers, una varietà più ampia di fonti, oltre a quelle accademiche e professionali, comprendendo l'insieme dei contenuti informativi disponibili online e offline, gratuiti o a pagamento, protetti da copyright e brevetti o rilasciati con licenze libere. Un'indagine più avanzata potrebbe disaggregare i dati primari per aree disciplinari di formazione, per ambito lavorativo o in base alla tipologia di rapporto di lavoro e ottenere così una mappa più chiara in funzione di futuri investimenti, pubblici e/o privati, nell'attivazione di servizi di digital library e di assistenza informativa efficaci, in grado di supportare il singolo, i gruppi o le reti di lavoro con opportune collezioni documentarie. Tramite delle adeguate politiche editoriali, infine, si potrebbero studiare e adottare delle apposite convenzioni e licenze d'uso, magari su base nazionale, che garantiscano ai coworkers l'accesso ai dati e ai contenuti a pagamento, allo stesso modo in cui lo fanno gli utenti delle biblioteche accademiche o pubbliche.
Tommaso Paiano, Warehouse Coworking Factory, Marotta (PU), e-mail: tommasopaiano71@gmail.com
[1] Oltre al sottoscritto, hanno supportato la ricerca Patrizio Massi, psicologo del lavoro promotore dell'Associazione Marche studi e sviluppo, Ronnie Garattoni e Laura Sgreccia co-fondatori di Warehouse Coworking Factory.
[2] <www.warehouse.marche.it>.
[3] <http://www.uniurb.it/it/portale/index.php?mist_id=3155&lang=IT&tipo=ZND&page=1926 >.
[4]<http://agoracollective.org/>.
[5] <http://www.supermarkt-berlin.net/en>.
[6] <http://www.erasmus-entrepreneurs.eu/index.php?lan=it#.VFikXvmG8g0 >.
[7] Innovatori visionari e Riccardo Valentino, Coworkinginprogress. Il futuro è arrivato, Busto Arsizio, Nomos, 2013.
[8] <http://en.wikipedia.org/wiki/Sharing_economy>. Per una riflessione approfondita sulle ricadute sociali di questo nuovo fenomeno è fondamentale la lettura di Jeremy Rifkin, La società a costo marginale zero. L'internet delle cose, l'ascesa del «commons» collaborativo e l'eclissi del capitalismo, Milano: Mondadori, 2014.
[9] Oltre alla rivista Deskmag, <http://www.deskmag.com/>, si veda il primo libro sul coworking pubblicato da Todd Sundsted, Drew Jones e Tony Bacigalupo, I'm Outta Here! How coworking is making the office obsolete, Brooklyn, Not an MBA Press, 2009.
[10] Elisa Badiali, WORK TOGETHER - Right Now: Coworking, cooperazione e creatività, a confronto su nuovi modi di lavorare, relazione presentata al Convegno organizzato dalla Fondazione Ivano Barberini il 27 maggio 2014, Bologna, < http://www.fondazionebarberini.it/PDF/eventi/coworking_ivano_barberini_PROGRAMMA.pdf>.
[11] Tra le tante significative esperienze private si riporta qui, per la prossimità con la presente ricerca, la libreria di Milano Open More Than Book, pensata come uno spazio multifunzionale in cui accanto ai libri si possono trovare tablet, spazi di coworking ed eventi, secondo una logica di contaminazione che vuole favorire la creazione di un ecosistema culturale, basato sul valore dell'intelligenza collaborativa, <http://www.openmilano.com/>.
[12] <http://www.millepiani.eu/>.
[13] <http://foligno.multiverso.biz/>.
[14] <http://www.vegliocoworking.it/>.
[15] <http://www.coworkingproject.com/>.
[16] <http://www.multiverso.biz/>.
[17] <http://www.talentgarden.it/>.
[18] <http://www.impacthub.net/>.
[19] <http://www.coworkingproject.com/manifesto/>.
[20] Di grande utilità e ricca di confronti statistici è la recente pubblicazione di Giovanni Solimine, Senza sapere: il costo dell'ignoranza in Italia, Roma, Bari, Laterza, 2014.
[21] Mi permetto di segnalare un mio articolo dal titolo Appunti di un bibliotecario aspirante coworker, pubblicato su "Vedi Anche" il notiziario online e Open access della Sezione Liguria dell'Associazione Italiana Biblioteche, <http://leo.cineca.it/index.php/vedianche/article/view/11022>, in cui esamino il ruolo che i bibliotecari e le biblioteche possono rivestire nei processi di creazione e condivisione della conoscenza che si determinano nei coworking.
[22] Anche se i tipi di documenti che prendiamo in esame in questa ricerca sono limitati al contesto accademico e professionale, assumiamo qui una delle definizioni proposte da Riccardo Ridi: "Qualunque oggetto può essere considerato un documento, purché funga da supporto fisico di informazioni, codificate per mezzo di regole note sotto forma di segni registrati sull'oggetto stesso. Libri, periodici, manifesti, lettere, contratti, certificati, testamenti, film, dischi, quadri, sculture, pagine web, banche dati sono i primi esempi che vengono alla mente, ma anche monete, francobolli, scontrini, etichette, imballaggi, insegne e appunti possono tranquillamente rientrare nella categoria. Anzi, in linea teorica ogni entità fisica, di qualunque forma e materiale, è un documento nella misura in cui vi siano registrate delle informazioni, anche se ovviamente c'è una notevole differenza pratica fra gli scarabocchi fatti da un bambino che gioca sulla sabbia e un trattato di pace sottoscritto da due sovrani su una pergamena ufficiale" (Riccardo Ridi, Il mondo dei documenti: cosa sono, come valutarli e organizzarli, Roma, Bari, Laterza, 2010).
[23] Il Publishing Research Consortium è un gruppo di società editoriali e di singoli editori, che sostiene la ricerca sulla comunicazione scientifica. In generale, mira a promuovere la comprensione del ruolo dell'editoria e il suo impatto sulla ricerca e l'insegnamento; cfr. <http://publishingresearch.net/>.
[24] Publishing Research Consortium, Research report: Access by UK small and medium-sized enterprises to professional and academic information, Bristol: Mark Ware Consulting Ltd, 2009, <http://publishingresearch.net/index.php?view=download&alias=33-sme-access-research-report&option=com_docman&Itemid=816>.
[25] <http://www.istat.it/it/archivio/71106>.
[26] <http://it.wikipedia.org/wiki/Economia_d'Italia>.
[27] <http://www.pmi.it/economia/lavoro/news/9179/istat-litalia-delle-pmi.html>.
[28] Il questionario è visualizzabile all'indirizzo: <https://docs.google.com/forms/d/1Ih04VekJsXbGvjsFxbXkHVjdKq7CnhlXP_YAZFwgI78/viewform>.
[29] Le risposte sono giunte dalle seguenti città: Alessandria, Bologna, Brescia, Fano, Firenze, Fossano, Genova, Jesi, Marotta di Mondolfo, Matera, Milano, Padova, Pesaro, Roma, Santo Stefano Ticino, Torino, Trento, Venezia - Mestre, Verona. Tre coworkers hanno dichiarato di fare la sponda tra Italia, Berlino e New York.
[30] <http://www.comboproject.com/coworking-piccoli-e-belli/>.
[31] Si veda l'Osservatorio Cowo sul Coworking, un laboratorio di ricerca permanente su lavoro, sostenibilità, business condiviso, nel quale è coinvolta una ricercatrice dell'Università Cattolica di Milano, < http://www.coworkingproject.com/2013/11/05/nasce-losservatorio-cowo-sul-coworking-in-tutta-italia-da-oggi/>; <http://blog.talentgarden.it/2013/02/13/coworking-e-universita-listruzione-si-avvicina-finalmente-al-mondo-del-lavoro-2-0/>.
[32] La produzione e la diffusione della conoscenza: ricerca, innovazione e risorse umane, a cura di Giorgio Sirilli, Roma, Fondazione Crui, luglio 2010, <http://www.fondazionecrui.it/pubblicazioni/Documents/volume_sirilli.pdf>.
[33] Vedi Riccardo Ridi, cit., p. 139-151.
[34] Laura Ballestra, Information literacy in biblioteca, Milano, Editrice Bibliografica, 2011.
[35] Towards information literacy indicators, a cura di Ralph Catts e Jesus Lau, Paris, UNESCO, 2008, < http://www.uis.unesco.org/Library/Documents/wp08_InfoLit_en.pdf>.
[36] Lyon Declaration on Access to Information and Development, agosto 2014, < http://www.lyondeclaration.org/>.
[37] Nell'analisi si deve tenere in considerazione anche il fatto che i lavoratori, da consumatori passivi sono diventati sempre di più produttori di informazione e che la competenza informativa non va valutata solo sulle capacità cognitive e sugli obiettivi del singolo individuo ma anche sulla dimensione sociale e comunitaria che caratterizza il processo lavorativo condiviso. Su questi aspetti si sono soffermati Michelle Dunaway,Web 2.0 and critical information literacy, "Public Services Quarterly", 7 (2011), 3-4, p. 149-157; e Robert Schroeder e Ellysa Stern Cahoy, Valuing Information Literacy: Affective Learning and the ACRL Standards, "Libraries and the Academy", 10 (2010), 2, p. 127-146.