Tutela e valorizzazione nella Cultura alla luce della riforma MiBACT in comparazione con lo spirito costituente del 1948
The essays meant to discuss the risks to Libraries and Culture posed by the D.P.C.M. 171/2014, the reform Act of the Italian MiBACT (Ministry of Cultural Heritage and Activities and Tourism). The present paper shows the reasons and principles that inspired the Italian Constituent Assembly in 1948 on Culture and the originality and consistency of the Constitutional Law, now cracked by the 'Titolo V' Reform. The essay also gives attention to the Protection and Promotion of Cultural Heritage, by comparing the original intention of the Constituent Assembly with the present age.
La Costituzione italiana del 1948 è stata la prima ad avere posto la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico fra i propri principi fondamentali. Si trattava allora di concepire un assetto per la Repubblica, sui temi della scuola e della cultura, di assoluto rilievo per l'emancipazione dei cittadini di un Paese appena uscito dalla guerra e dal ventennio di dittatura fascista, ancora a forte vocazione rurale e con un elevato tasso di analfabetismo.
L'impulso primario alla costituzionalizzazione della tutela si deve, tra gli altri, a costituenti come Concetto Marchesi. [1] Le spinte regionalistiche, in particolare provenienti dalla Sicilia e dalla Valle d'Aosta, che con i loro statuti rivendicavano una potestà legislativa (esclusiva per lo statuto siciliano) anche in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche, nonché in materia di musei e biblioteche, vennero inizialmente avallate dalla sottocommissione per le autonomie regionali (la II) della Costituente, che attribuì in un primo momento a tutte le Regioni la competenza sulla protezione e la manutenzione dei monumenti che costituivano il 'patrimonio nazionale'.
La prospettiva di una competenza regionale sulla tutela del patrimonio artistico e storico destò notevoli preoccupazioni, non solo all'interno dell'Assemblea costituente, dove Marchesi dichiarò di non poter accettare questo principio e di "ritenere opportuno introdurre nella Costituzione un articolo che ponesse sotto la protezione dello Stato i monumenti artistici, storici e naturali a chiunque [appartenessero] ed in qualsiasi parte del territorio della Repubblica" [2], ma anche tra quelle personalità che, pur non facendo parte dell'Assemblea, assursero al ruolo di veri e propri "costituenti ombra", di creatori di diritto e punti di riferimento in quella temperie culturale e in quel fervore costruttivo, che animò di dibattiti e suggestioni la collettività italiana degli anni quaranta del 1900. [3]
Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo e Direttore generale delle Antichità e Belle Arti per il ministero della Pubblica Istruzione, esplicitò le sue preoccupazioni all'allora ministro della Pubblica Istruzione, Guido Gonella, affermando come di fronte a tale prospettiva "la tutela monumentale verrebbe messa continuamente in pericolo da interessi locali e personali e che in fatto di restauro si ritornerebbe a quei criteri empirici e di fantasia il cui superamento è un merito della Amministrazione italiana delle Belle Arti riconosciuto anche all'estero." [4]
Già allora si temeva che, spostando la competenza a livello locale, la tutela sarebbe risultata più fragile, dinanzi a eventuali attacchi da parte di interessi locali. Già allora il patrimonio artistico e paesaggistico era messo in serio pericolo non soltanto dalle devastazioni della guerra e dell'occupazione di gran parte del territorio ad opera di eserciti stranieri in conflitto, ma anche da interessi particolaristici e di puro sfruttamento economico. Si propugnava in risposta la necessità di un controllo centrale sulla tutela di antichità e belle arti, con una competenza regionale in veste integrativa, volta all'adattamento delle leggi statali ai contesti locali.
Per la materia urbanistica, di fronte alla quale un controllo centrale risultava assai complicato, qualora fosse rimasta slegata e diversamente regolata dalla tutela del paesaggio, alla quale è (ed era) invece profondamente connessa (cosa che poi avvenne effettivamente nella Carta), la separazione avrebbe costituito il classico cavallo di Troia per coloro che, ora come allora, intendevano mettere a profitto privato le immense ricchezze storico-artistiche dell'Italia. Sarà lo stesso Bianchi Bandinelli a sostenere, nella relazione al ministro Gonella, l'impossibilità di separare la tutela del paesaggio da quella dei beni artistici e storici, perché "la tutela delle bellezze naturali non può in alcun modo essere disgiunta da quella delle antichità e belle arti e deve essere sottoposta alla medesima regolamentazione legislativa." [5]
Affidare la tutela e il controllo del nostro patrimonio nazionale ad un organo centrale permetteva di provvedere alla conservazione e al restauro con i criteri più idonei ai singoli oggetti del patrimonio artistico e storico, mentre se la tutela fosse stata affidata alle regioni sarebbe stato necessario stabilire dei principi generali e introdurre dei vincoli rigidi, inadatti per azioni mirate e poco efficaci per l'opera di tutela.
Una forma di decentramento, peraltro, era ben contemplata attraverso l'esistenza e il lavoro delle Soprintendenze generali delle Belle Arti, giornalmente in lotta con spinte locali tendenti a restauri illogici e/o a demolizioni non necessarie. Anche costituenti fortemente autonomisti come Emilio Lussu sostennero la necessità di una tutela fatta dal centro e con criteri unitari, sottolineando come non vi fosse alcun autentico autonomista che concepisse l'autonomia come sovranità assoluta e che, nell'affidare i compiti di tutela alla "Repubblica", si sarebbe lasciata impregiudicata la questione dell'autonomia regionale [6].
La nostra Costituzione, proprio con il richiamo al termine "Repubblica", delineerà una forma quasi armonica di tutela, che consentiva allo Stato e alle regioni di esercitare il comune compito della tutela.
I successivi decenni dimostreranno come tale prospettata armonia, per diverse ragioni, non verrà perseguita se non a strappi, anche a causa delle grandi resistenze interne al sistema che, secondo alcuni autori, non potranno che condurre allo smantellamento dello stesso concetto di tutela: grazie a parole private del loro reale contenuto, come "la 'valorizzazione', la 'fruizione' e la 'gestione' sono state abbattute le mura del plurisecolare istituto della tutela pubblica, per appaltarne le spoglie a diverse amministrazioni […]. L'incostituzionalità è stata per così dire costituzionalizzata: con la riforma del Titolo V approvata nel 2001 sotto la pressione dell'assedio secessionista della Lega." [7]
A completare il quadro costituzionale innovativo disegnato con l'art. 9, intervenne anche la disposizione che individuava nello sviluppo tecnico il fondamento della civiltà contemporanea e che impegnava la Repubblica a "promuovere la ricerca scientifica e la sperimentazione tecnica, incoraggiandone lo sviluppo". Il progresso tecnico-scientifico necessita, infatti, di una complessa organizzazione di indagini e di mezzi economici ingenti, che non sono nella disponibilità degli studiosi, né come singoli, né come componenti dei vari istituti scientifici.
La Repubblica tutela il patrimonio attraverso la conoscenza, la cultura e la ricerca scientifica e tecnica; e lo tutela proprio in quanto generatore di cittadinanza, attraverso conoscenza, cultura e ricerca.
Il patrimonio, come declinato dai costituenti, è profondamente connesso al paesaggio: "non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è una guaina continua che aderisce al paesaggio – cioè al territorio "della Nazione" – come la pelle alla carne di un corpo vivo […]; è la forma dei nostri luoghi, è un'indivisibile fusione tra arte e ambiente, è un tessuto continuo di chiese, palazzi, strade, paesaggio, piazze. Non una specie di contenitore per 'capolavori assoluti', ma proprio il contrario, e cioè la rete che congiunge tante opere squisitamente relative, e che hanno davvero un significato (artistico, storico, etico, civile) solo se rimangono inserite in quella rete. Il paesaggio e il patrimonio sono dunque un'unica cosa: e sono l'Italia, della quale costituiscono, inscindibilmente, il territorio e l'identità culturale". [8]
Il patrimonio storico e artistico dei Costituenti, attraverso l'articolo 9, "menziona e collega tre entità, fra le quali la meno emergente è senz'altro il patrimonio storico, fatto dalle biblioteche, dagli archivi, dai singoli documenti, dalle epigrafi e da 'tutte le testimonianze materiali aventi valore di civiltà' (così il Codice [dei Beni Culturali, del 2004, ndr.]). E la triplice stratificazione di paesaggio, patrimonio storico e patrimonio artistico è esattamente ciò che la Repubblica tutela [e/o dovrebbe tutelare], e lo fa proprio nella sua dimensione contestuale, tutelando i nessi che uniscono tutte queste 'cose' non meno delle cose stesse: perché […] è la dimensione 'contestuale', in cui 'l'insieme è maggiore della somma delle parti' (Settis) a costituire l'Italia, e a renderla unica." [9]
Salvaguardare l'unità della tutela sul piano nazionale del paesaggio e del patrimonio artistico e storico rappresentò l'intento dei costituenti del 1948. La nostra Costituzione repubblicana fu la prima a individuare tale tutela fra i propri principi fondamentali, testimoniando il particolare valore del patrimonio culturale italiano e la sua funzione costitutiva di una identità nazionale aperta.
La decisione di non affidare tale competenza alle regioni, ma di lasciarla in capo allo Stato confermava la consapevolezza dei costituenti di trovarsi di fronte a una materia assai delicata e d'importanza fondamentale per il nostro Paese, da inserire non in un preambolo di belle intenzioni, ma in un programma ambizioso da perseguire con tenacia e, allo stesso tempo, dalla immediata forza precettiva.
Il progressivo deteriorarsi della cultura civica, istituzionale e giuridica della tutela in Italia si ricava anche dalla riforma del titolo V della Costituzione, compiuta nel 2001, che riserva allo Stato la responsabilità della tutela del patrimonio culturale, però dichiara "materie di legislazione concorrente" fra Stato e Regioni non solo il "governo del territorio", ma anche la "valorizzazione dei beni culturali e ambientali". Si giunge così a frazionare in modo difficilmente attuabile e gestibile un processo unico, composto da conoscenza-tutela-gestione-valorizzazione dei beni culturali, assegnandolo ad attori diversi e confondendo competenze e responsabilità.
Tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale sono momenti intimamente connessi di un processo unico, e hanno senso solo se ispirati da un'istanza unificante, la ricerca conoscitiva sui beni da tutelare e gestire. Per esempio, la catalogazione non è da intendersi come tutela, come valorizzazione o come gestione, ma è l'interfaccia indispensabile fra tutte e tre. "La loro distinzione è speciosa e dannosa, contraria a ogni principio di buona amministrazione in quanto produce il frazionamento dell'azione amministrativa e la dispersione delle responsabilità. La funzione di tutela resta allo Stato, ma viene impoverita e svuotata di funzionalità e di contenuti, dunque anche della necessaria progettualità, inerte se non guidata da una visione d'insieme e sorretta da piena assunzione di responsabilità e dalla capacità di controllare la qualità dei progetti e della loro implementazione." [10]
La Repubblica, con il nuovo art. 114 Cost. (del 2001), risulta non più "ripartita", bensì "costituita" oltre che dallo Stato, dalle regioni e dai vari enti locali, senza che possa ravvisarsi negli organi centrali una posizione sovra ordinata rispetto anche al più piccolo dei comuni, in tema di tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. Tale decisiva funzione spettante a livello centrale, infatti, viene costantemente revocata in dubbio e insidiata dall'assegnazione alla legislazione concorrente Stato-regioni della "valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali" (art. 117, terzo comma, Cost.).
E' stato osservato come "le misure prese a salvaguardia del patrimonio storico ed artistico limitano e delimitano la proprietà privata, e insomma non creano consensi ma piuttosto offendono interessi. Ecco perché difficilmente l'azione di tutela può venire perseguita con il rigore necessario dalle amministrazioni locali, che sono poi le più vicine a chi subisce il vincolo. Al di là dell'esperienza quasi mai esaltante che è venuta maturando quando invece tale competenza è rimasta in mano alle regioni." [11]
Gli esempi di insipiente tutela e salvaguardia del patrimonio culturale a livello centrale, che si sono moltiplicati negli ultimi vent'anni, e hanno evidenziato una trasversale incuria politico-gestionale, quando non anche l'abbandono di importanti siti archeologici, con conseguenti crolli, rovine, sottrazioni e perdite in parte non più recuperabili, non autorizzano a confondere le cause con gli effetti. Le responsabilità dovute all'incapacità e alle cialtronerie politiche, alla scarsità dei mezzi economici destinati a funzioni di tutela non dipendono dalle regole e dai principi costituzionali del nostro ordinamento, o soltanto dalla mancanza di professionalità e procedure idonee.
Il Titolo V della Costituzione, ridisegnato nel 2001, conferendo dignità costituzionale alla "valorizzazione" (art. 117), ha legittimato e accelerato la tendenza alla scissione tra tutela e gestione del patrimonio culturale: "una schizofrenia paralizzante e gravida di rischi." [12]
Dopo quasi un quindicennio di vigenza del nuovo Titolo V, si inverano e si legittimano, in parte "costituzionalizzandoli", quei timori espressi da Concetto Marchesi e condivisi da gran parte dell'Assemblea costituente con vivi applausi: "la raffica regionalistica (avrebbe investito) [e investe, ndr] anche questo campo delicato del nostro patrimonio nazionale", permettendo che "interessi e irresponsabilità locali [vadano] a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale" [13].
Le raffiche di ordine giudiziario che da anni coinvolgono quasi tutti i sistemi di potere regionale e molti enti locali, al di là di garantismi dovuti ma spesso di maniera, impongono una seria analisi almeno sulla pervasività della corruttela e di quanto sta accadendo, senza lasciare il pallino in mano esclusivamente ai giudici, che agiscono necessariamente a posteriori ponendo l'attenzione sui comportamenti patologici, o allo scandalismo ad orologeria dei mass-media.
La Repubblica tutela, non protegge soltanto, come ebbe ad affermare con decisione un altro costituente, Tristano Codignola. Mentre la "protezione" allude ad un intervento pubblico episodico e puntuale, come avviene anche oggi durante e dopo i dissesti idrogeologici, che ciclicamente percorrono e dilaniano il nostro Paese, e vengono affrontati secondo logiche puramente emergenziali, la "tutela" implica invece un'azione non emergenziale, ma sistematica e preventiva, che tenti di raggiungere l'obiettivo di preservare il patrimonio e di consegnarlo inalterato alle generazioni future.
L'affiancamento alla tutela della equivoca categoria della "valorizzazione" del patrimonio culturale, avvenuto de facto a partire dalla metà degli anni '60 del secolo scorso, ad opera del ministro della Pubblica Istruzione Gui, connoterà i compiti del nuovo Ministero per i beni culturali e ambientali, istituito nel 1974 e volto a favorire con gli interventi più vari il pubblico godimento del bene culturale.
Dieci anni dopo l'istituzione del Ministero, nel 1985, la valorizzazione del bene culturale verrà concepita dai socialisti allora al governo "come convenienza economica", come bene capace di garantire le risorse necessarie "alla sua conservazione". Si avviava, così, ai più alti livelli istituzionali, un apparentemente inarrestabile processo di mercificazione dei beni culturali, come già allora sottolinearono diversi rappresentanti delle stesse istituzioni.
La consapevolezza degli italiani di essere custodi di un patrimonio culturale unitario che non ha eguali al mondo ha originato i dibatti e l'attuale contenuto dell'articolo 9 della nostra Costituzione repubblicana, per molti il più originale del testo. La stessa connessione tra i due commi dell'articolo 9 è un tratto peculiare della Carta costituzionale italiana: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile.
Anche la tutela, dunque, andrebbe concepita non soltanto come passiva protezione, ma in senso attivo, cioè in funzione della cultura dei cittadini, e tale da rendere questo patrimonio fruibile da tutti, oggi e per le generazioni a venire. L'inserimento dell'articolo 9 tra i "principi fondamentali" della nostra comunità offre una indicazione importante sul ruolo che la Costituzione assegna ai pubblici poteri, per garantire azioni positive nell'interesse pubblico della cittadinanza, intesa nel senso a-tecnico.
La doverosa economicità e l'efficacia nella gestione dei beni culturali non sono l'obiettivo della promozione della cultura, ma uno strumento utile per la loro conservazione e diffusione. Rappresentano un mezzo per alimentare il plusvalore della conoscenza e lo spirito della cittadinanza.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 151 del 1986, ha rilevato come l'art. 9 sancisca "la primarietà del valore estetico-culturale" e non possa essere "subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici"; esso deve, pertanto, essere "capace di influire profondamente sull'ordine economico-sociale".
La promozione della conoscenza e la tutela del patrimonio artistico non sono attività fra altre per la Repubblica, ma tra suoi compiti più propri, pubblici e inalienabili per dettato costituzionale e per volontà di una identità millenaria.
Parlare di unità d'intenti fra imprese e Stato nella tutela del patrimonio non può indurci ad accettare l'idea un po' facilona secondo cui il turismo sarebbe la massima "industria" del Paese, e i beni culturali il suo "prodotto". I beni culturali e il paesaggio devono essere tutelati di per sé, non per offrirli ai turisti: non sono un "prodotto", sono la nostra storia, la nostra anima. Il turismo di massa produce usura del patrimonio, dunque richiede maggiore tutela.
La stessa Consulta, in un'altra sentenza (n. 269/1995) ha affermato: "Il regime giuridico, fissato per le cose di interesse storico artistico, trovando nell'art. 9 della Costituzione il suo fondamento, si giustifica nella sua specificità in relazione all'esigenza di salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del paese. L'esigenza di conservare, di garantire la fruizione da parte della collettività delle cose di interesse storico artistico, giustifica l'adozione di particolari misure di tutela da parte dell'amministrazione".
Il principio costituzionale contenuto nell'art. 9 presuppone, in sostanza, che la Repubblica abbia proprie norme di tutela (che quando la Costituzione fu approvata e promulgata erano le leggi Bottai, dalle quali deriva ancora buona parte del Codice dei Beni Culturali in vigore) e che tali norme siano salvaguardate e applicate a cura di apposite strutture pubbliche (le Soprintendenze); il sistema della tutela è, pertanto, organicamente connesso al dettato della Costituzione, ne costituisce il necessario presupposto e un indispensabile meccanismo attuativo.
La tutela prescritta dall'art. 9 non è un mero programma né un principio astratto, ma si incarna in disposizioni e in strutture dello Stato. La funzionalità della pubblica amministrazione della tutela deve essere garantita a livello statale, perché così prescrive la Costituzione. Se non garantiamo la piena funzionalità delle Soprintendenze (come non si è fatto, ad esempio, con il reiterato blocco delle assunzioni e dei concorsi), si viola la Costituzione.
Vi sono alcuni settori nei quali si può e si deve fare di più; è contro ogni logica intervenire con sempre minori risorse e precarie professionalità, seguendo come unico imperativo la riduzione della spesa. "L'Italia degli 8000 comuni dovrebbe essere anche l'Italia delle 8000 biblioteche, luoghi che i giovani si abituino a frequentare con spontanea consuetudine. Vi sono già molte iniziative a favore dei piccoli comuni […]; in esse dovrebbe sempre trovare spazio la difesa o la nascita di una istituzione - la biblioteca - che può davvero rappresentare un "presidio" per la lettura, e una espressione forte di qualità della vita." [14]
I nuovi interventi normativi del governo, succedutesi a spron battuto negli ultimi anni, e spesso imposti a colpi di fiducia o, più semplicemente, sottoposti alla visione delle camere 'rappresentative' in qualità di regolamenti di attuazione (come nel caso del recentissimo DPCM n. 171 del 29 agosto 2014), stanno inverando, rectius istituzionalizzando, una ulteriore fase di mutamento nell'approccio con il paesaggio e il patrimonio storico e artistico italiano, che perverte la logica costituente.
Decenni di propaganda mostrano un'ideale appartenenza dei beni alla Nazione e rimandano a una visione del concetto costituzionale di patrimonio paesaggistico, storico e artistico di carattere puramente evocativo. Oggi si è passati a una nuova fase, nella quale il rischio di intendere il "patrimonio" nelle sue accezioni giuridico-privatistica ed economica è sotto gli occhi di chi vuol tenerli ben aperti.
Sono i cittadini a possedere il patrimonio paesaggistico, storico e artistico a titolo di sovranità, nelle forme di una proprietà collettiva, che trova il suo fondamento nel costituirsi stesso della forma repubblicana e costituzionale, e prima ancora nel costituirsi stesso dello Stato unitario, a vocazione autonomistico-cooperativa [15]. Spetta anche, e soprattutto, ai cittadini rivendicare i propri diritti e vigilare sull'attuazione dei valori costituzionali.
In questa dimensione va inserito il nesso, peraltro rilevato dalla stessa Corte costituzionale già nel 1990, tra gli articoli 9 e 42 della Costituzione: " L'art. 9 della Costituzione [...] impegna la Repubblica ad assicurare, tra l'altro, la promozione e lo sviluppo della cultura nonché la tutela del patrimonio storico ed artistico della Nazione, quale testimonianza materiale della civiltà e della cultura del Paese. Anche per quanto si desume da altri precetti costituzionali, lo Stato deve curare la formazione culturale dei consociati, alla quale concorre ogni valore idoneo a sollecitare e ad arricchire la loro sensibilità come persone, nonché il perfezionamento della loro personalità ed il progresso anche spirituale oltre che materiale. In particolare, lo Stato, nel porsi gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della cultura, deve provvedere alla tutela dei beni che sono testimonianza materiale di essa ed assumono rilievo strumentale per il raggiungimento dei suddetti obiettivi sia per il loro valore culturale intrinseco sia per il riferimento alla storia della civiltà e del costume anche locale; deve, inoltre, assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali espressi da essa." [16]
In altre parole, per il patrimonio storico e artistico non è solo la "funzione sociale" a costituire "un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene", ma la sua stessa natura e la sua indissolubile unità con il paesaggio, con il territorio su cui insiste la sovranità e va ben oltre il temporaneo regime proprietario: "la proprietà privata che si estende su una porzione rilevantissima del patrimonio storico e artistico […] non limita la proprietà dei cittadini sovrani: anzi, è da quest'ultima limitata, perché la prima è fondata sulla legge e riconosciuta dalla Costituzione, mentre la seconda è fondata nella Costituzione, anzi è a essa preesistente" [17].
Con l'entrata in vigore della Costituzione del 1948, il patrimonio paesaggistico, storico e artistico italiano si è arricchito del significato "repubblicano": il nuovo carattere repubblicano, civile e democratico assunto dal patrimonio lo conduce fuori dal recinto privatistico e dal circuito economico e lo trasforma, assieme alla scuola, in una sorta di organo costituzionale materiale, capace di riempire di quei contenuti e di quei valori l'azione del Ministero di riferimento e la politica di governo in generale.
Queste politiche, al di là di annunci propagandistici, dovrebbero rendere manifesta e più partecipata la sovranità popolare, anche attraverso la gestione e la tutela pubblica del patrimonio, dovrebbero rappresentare l'unità nazionale senza frustrare lo spirito autonomistico (da non confondere con impulsi localistici, egoistici o di campanile), dovrebbero mirare alla costruzione di condizioni idonee a inverare l'eguaglianza sostanziale dell'art. 3, secondo comma, della Costituzione e il pieno sviluppo della dignità e della persona umana richiesto dall'art. 2, anche attraverso la conoscenza, la ricerca e la creazione, che sono alimento dello spirito, come l'acqua e il cibo lo sono per il corpo.
Il buon funzionamento dell'amministrazione pubblica della tutela è un obbligo costituzionale per la Repubblica, che implica necessariamente un numero sufficiente di tecnici di alta qualificazione professionale, selezionati sulla sola base della qualità e del merito e messi in condizione di lavorare con piena indipendenza di giudizio e risorse adeguate, in stretta connessione con le altre amministrazioni pubbliche e al servizio dei cittadini.
Questi valori costituzionali sono stati tutti, in varia misura, contraddetti nel cammino pubblico degli ultimi decenni. Le nuove assunzioni sono drasticamente calate, rendendo costante la vacanza di molti ruoli a seguito dei pensionamenti ed elevando sempre più l'età media dei funzionari tecnici delle Soprintendenze. Ai rigorosi concorsi di un tempo si sono più volte sostituiti meccanismi di assunzione trasversali, e un utilizzo massiccio di ridicoli e squalificanti quiz.
Il legame fra museo e territorio è stato scalzato con la creazione dei "poli museali", allo scopo di trasformare i musei principali in altrettante fondazioni, e questo proprio mentre la confusa devoluzione della "valorizzazione" alle Regioni depotenziava ulteriormente le strutture dello Stato. Si è accresciuta in questi anni, grazie a due successive riforme della fine del secolo scorso, la burocratizzazione delle strutture ministeriali e la moltiplicazione delle direzioni generali, e si sono create delle Soprintendenze (poi Direzioni) regionali che, segmentano ulteriormente ogni processo decisionale, allontanano i funzionari dal concreto contatto col territorio.
La riorganizzazione ministeriale di oggi prosegue in questa direzione moltiplicativa di ruoli dirigenziali e frazionamento di funzioni e competenze. Sta ormai prendendo piede, al centro come in periferia, uno strisciante spoil system, che a volte sembra prefigurare forme di devoluzione anche della tutela, peraltro richieste da varie regioni (come la Toscana), senza la minima consapevolezza di cosa abbia significato, ad esempio, la devoluzione della tutela dei beni culturali alla Regione Sicilia, a partire dal 1975 [18].
La tendenza sembrerebbe quella di svuotare le Soprintendenze delle loro funzioni di ricerca e della loro indipendenza di giudizio tecnico. Questo processo mortifica le conoscenze tecniche in nome di esigenze politiche sempre più pressanti e non pare destinato a interrompersi; quanto più l'amministrazione della tutela, anziché essere garantita dalla qualità e autorità scientifica dei suoi addetti e dalla loro piena indipendenza di giudizio e capacità di agire con incisività, sarà affidata a un potere politico incalzante (quello delle regioni), e quanto più saranno instabili e soggette a capricciosi rinnovi (o revoche) le posizioni dei Soprintendenti, tanto più tale processo di abdicazione dal perseguimento dell'interesse e del benessere pubblico tenderà ad accentuarsi.
Si vanno in tal modo disperdendo non solo le competenze, ma l'etica professionale che per oltre un secolo ha accompagnato le battaglie per la tutela nel nostro Paese. L'amministrazione, consapevolmente depotenziata, funziona sempre peggio e viene ulteriormente delegittimata e scalzata ogni giorno che passa, in favore di logiche non sempre limpide e democratiche. I principi della tutela rischiano in tal modo di trasformarsi in una vuota retorica [19].
Il Ministero dei beni culturali, con tutte le sue articolazioni periferiche, soprintendenze incluse, andrebbe forse inteso come un organo istituzionale volto primariamente alla tutela dei diritti della persona, né più né meno dei ministeri della salute e dell'istruzione, del quale ultimo peraltro faceva parte; andrebbe liberato da istanze predatorie o anche semplicemente da logiche di asservimento a paradigmi economici, che influenzano inevitabilmente le attività economiche (come quella turistica: un'attività certamente da salvaguardare e alimentare, ma all'interno di altre amministrazioni dello Stato).
In una lettera a Ruggero Grieco (membro della Costituente), Bianchi Bandinelli insisteva sulla necessità di assicurare un identico livello di tutela dei paesaggi e delle opere d'archeologia e d'arte in tutto il territorio nazionale. "La tutela delle bellezze naturali non può in alcun modo esser disgiunta da quella delle antichità e belle arti e deve essere sottoposta alla medesima regolamentazione legislativa", reagendo ai tentativi di cancellare il paesaggio dall'articolo della Costituzione allora in fieri.
Se poi, come alcuni volevano, la tutela fosse stata assegnata alla competenza delle Regioni, "ciò equivarrebbe alla rovina rapidissima e irreparabile del nostro patrimonio artistico, che non ha per noi solo un valore morale, storico, ma un altissimo valore economico [...]. Dunque non si distrugga il regime centrale della tutela del nostro patrimonio artistico. Esso rappresenta ancora una delle cose meno difettose tra le nostre istituzioni, tanto che altre nazioni, come […] la Francia, hanno fatto delle riforme accostandosi al sistema italiano, considerato come un modello". [20]
Per non tradire lo spirito della Costituzione, non bisogna dare per scontato il braccio di ferro fra Stato e Regioni, ma interrogarci sulle sue cause, partendo non dai conflitti di competenza e di potere, ma dall'oggetto di tale conflitto: il suolo del nostro Paese, la nostra casa comune. La Costituzione non è altro che "un sapiente mosaico in cui ogni tessera è legata alle altre, e perde senso se ne viene separata" [21].
L'art. 9 si innesta in una trama essenziale di diritti, di cui fa parte il nesso strettissimo cultura-ricerca-tutela: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione"; è semplice leggervi una sintonia con altri diritti costituzionalmente garantiti: la libertà di pensiero (art. 21), la libertà di insegnamento ed esercizio delle arti (art. 33), l'autonomia delle università, la centralità della scuola pubblica statale, il diritto allo studio (art. 34). Vi è un vero e proprio "diritto alla cultura" inscritto nella nostra Costituzione, mirante al "progresso spirituale della società" (art. 4), allo sviluppo della personalità individuale e alla rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale (art. 3), e perciò consustanziale alla sovranità popolare, alla cittadinanza, all'eguaglianza, alla stessa democrazia.
Per avvicinarsi alla realizzazione delle alte istanze costituzionali, la conoscenza e la cultura dovrebbero rappresentare degli strumenti tra i più rilevanti per favorire l'emancipazione e l'eguaglianza di cittadini liberi dal soddisfacimento di bisogni primari, e non possono tuttavia essere guidate da un'azione politica piegata troppo spesso alla caccia del consenso: conoscenza, cultura e ricerca, con i loro organi istituzionali di riferimento, dovrebbero restare spazi della sfera pubblica aperti il più possibile alla comunità della conoscenza, luoghi dove si privilegino le professionalità e le articolazioni non meramente burocratiche, per esempio delle stesse Soprintendenze.
Anche gli ultimi interventi governativi sembrano invece inserirsi nella logica dei decenni trascorsi di una "pianificata distruzione del sistema della tutela: il mancato turnover, il taglio esponenziale dei fondi, la delegittimazione culturale, sociale e politica hanno messo in ginocchio, emarginato o corrotto una buona parte delle soprintendenze italiane. Così facendo, si sono dolosamente umiliate le ragioni della conoscenza e si è asservito il patrimonio ad altri fini: quelli della politica nazionale, del potere degli enti locali, e ancora più spesso quelli del mercato nelle sue forme più varie." [22]
Il patrimonio non è "il petrolio d'Italia", come voleva Ronchey (Ministro dei beni culturali tra il 1992 e il 1994), che dovrebbe produrre reddito di per sé stesso e mantenersi da solo, né tantomeno è una "religione del privato con l'annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il ministero di Walter Veltroni) lo slittamento "televisivo" per cui […] non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un gran lunapark per il divertimento e il tempo libero." [23]
In tale contesto, il rischio che parole e concetti di per sé positivi come "integrazione", "valorizzazione", "riforma" diventino una effimera e a volte smodata manifestazione di intenti politici, dietro cui nascondere logiche meramente speculative, indubbiamente c'è. La difesa della Cultura e dei luoghi della cultura passa anche attraverso una riappropriazione delle finalità pubbliche che le discipline economiche e gestionali hanno, come dimostrano esperienze internazionali (Idea Store [24]) e nazionali (Multiplo [25]).
E' mancato un condiviso senso del coraggio e di prospettive di lungo respiro eticamente accettabili. Hannah Arendt ha rilevato come "solo l'esistenza di una sfera pubblica e la susseguente trasformazione del mondo in una comunità di cose che raduna gli uomini e li pone in relazione gli uni con gli altri si fonda interamente sulla permanenza. Se il mondo deve contenere uno spazio pubblico, non può essere costruito per una generazione e pianificato per una sola vita; deve trascendere l'arco della vita degli uomini mortali." [26] Salvatore Settis afferma:
La miopia istituzionale che ha scardinato il sistema valoriale costruito con la Costituzione intorno al patrimonio, con la sua funzione civile, sociale e repubblicana, rischia di tradursi in un sistema a-meritorio, dove la frammentazione dei saperi e il misconoscimento delle competenze fungano da facilitatori per un ingresso deregolamentato e, soprattutto, poco meditato del privato nella gestione dei Beni Culturali.
Occorre peraltro evitare che le stesse lacune normative, più o meno consapevolmente, penalizzino gli interventi pubblici e privati finalizzati ad una
gestione anche di quei beni nell'interesse della collettività, favorendo per converso quelli più marcatamente speculativi e tendenti a trasformare la
Cultura in un bene di fatto esclusivo [28].
Il delitto sarà perfetto quando anche un altro luogo inclusivo per eccellenza, come la scuola, compirà il cammino inverso rispetto alla sua essenza: la celebrazione dell'inutilità del merito e del disprezzo del sapere. E allora sarà sufficientemente inutile parlare retoricamente di democrazia, se non nel senso di una forma pervertita di essa, che vive la sua fase patologica, e forse finale, nella quale prevalgono gli elementi occulti, non più controllabili dalla sovranità popolare e dai suoi organi di rappresentanza diffusa.
Conservare la memoria del passato può consentire di dischiudere più agevolmente le porte del futuro: pertanto a chiusura di questo lavoro valgano le parole scritte sessanta anni fa nella Dichiarazione di Principio della Commissione Franceschini, secondo la quale occorreva
Da ciò consegue: in ordine ai doveri dello Stato, un impegno incondizionato di provvedere con tutti i mezzi necessari alla sua salvaguardia e alla sua valorizzazione; in ordine al possesso e al godimento, una concreta applicazione del concetto di bene comune, attraverso il controllo delle pubbliche autorità e la subordinazione dei diritti e degli interessi privati alle esigenze della sua conservazione, del suo incremento, del suo libero studio e del suo generale godimento; in ordine al metodo e alla struttura degli strumenti di tutela e di valorizzazione, una chiara delimitazione dei fini e dei mezzi, e pertanto una decisa priorità degli aspetti scientifici e culturali.
La coscienza dei valori supremi ed insostituibili del patrimonio storico, archeologico, artistico e paesistico deve essere presente a ciascun cittadino, come elemento della sua educazione civica e come dovere umano, costituendo un impegno di condotta che è condizione essenziale perché le leggi di tutela e, in generale, l'azione pubblica in materia conseguano efficacemente il loro fine [29].
Andrea Colelli, e-mail: colelli.andrea@gmail.com
[1] Marchesi, ispirandosi anche all'esperienza della Costituzione di Weimar del 1919, nella redazione della proposta di articolo sottolineò in un primo momento la necessità di "affermare il diritto all'istruzione nel titolo [della Carta costituzionale] che determini le libertà politiche e i diritti del cittadino: ma che il complesso dei temi particolari riguardanti lo sviluppo della cultura nazionale e l'ordinamento della scuola spettasse alla competenza di Altra Assemblea [quella legislativa futura, ndr.], e dovesse perciò essere contemplato in sede di normale attività legislativa e risoluto per legge.": Commissione per la Costituzione, I Sottocommissione, relazione del deputato Concetto Marchesi sui principi costituzionali riguardanti la cultura e la scuola, Avvertenza, p. 35. Il testo della prima proposta di Marchesi così recitava: "I monumenti artistici, storici e naturali del Paese costituiscono un tesoro nazionale e sono posti sotto la vigilanza dello Stato." Il concetto di vigilanza evolverà, nel corso del dibattito costituente, dapprima in protezione, successivamente in tutela, ricerca, sviluppo e protezione.
[2] Commissione per la Costituzione, I Sottocommissione, seduta dell'11 dicembre 1946.
[3] A. Buratti-M. Fioravanti, Costituenti ombra. Altri luoghi e altre figure della cultura politica italiana (1943-48), Roma, Carocci, 2012.
[4] R. Bianchi Bandinelli, Appunto per il signor Ministro, 30 novembre 1946, Fondazione Gramsci, Archivio Ruggero Grieco, fasc. 36-14.
[5] Direzione Generale Antichità e Belle Arti, Relazione al Ministro della Pubblica Istruzione sugli articoli 109, 110, e 111 del Progetto di Costituzione relativo ai rapporti tra l'Ente Regione e l'amministrazione delle Antichità e Belle Arti , Roma 1947, Assi, fondo personale di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Busta 27, ins. 121. "Si creò in tal modo", scrive Settis, "nella delicatissima sutura fra città e campagna, una sorta di 'zona grigia', in contrasto con la tradizione italiana, il cui punto di forza fu per secoli il trapasso lento e armonioso da campagna a città, una mutua integrazione codificata da un diffuso costume civile. L'insufficiente attenzione per questa 'zona di trapasso' ha finito con il trasformarla in una sorta di res nullius dove si sono insediate le nostre orribili periferie. Si è così perpetuato quel che Cederna deprecava quarant'anni fa: «un sistema che rifiuta ogni coordinamento di interesse superiore e che consiste nella pura e semplice sommatoria di tanti piani (si fa per dire) comunali, ognuno indifferente a quanto fa il Comune vicino: nei quali l'autonomia locale viene degradata ad arbitrio e autarchia». Il più prezioso dei nostri beni comuni, il suolo in cui viviamo, anziché esser gestito unitariamente a beneficio della comunità dei cittadini, viene segmentato ad arbitrio in funzione dell'esercizio del potere locale, della distribuzione di favori e benefici, del voto di scambio, dell'esazione di gabelle, del trasferimento della ricchezza dalla comunità dei cittadini a chi già dispone di abbondanti liquidità (incluse le mafie). Trionfa una logica che contrasta con lo spirito della Costituzione, antepone la rendita fondiaria (dei pochi) all'interesse generale, calpesta ogni principio di utilità sociale, sostituisce allo sguardo lungimirante della Carta la miope ingordigia di un guadagno immediato. Trasforma la viva carne del nostro paesaggio in una carcassa da spolpare. E intanto sparisce dall'orizzonte dei cittadini, dall'etica quotidiana, perfino dalle nostre speranze, ogni traccia di senso civico, di quell'amor loci che fu asse portante della civiltà urbana".
[6] Per un commento giuridico all'art. 9 della Costituzione, si veda in particolare F. Merusi, Articolo 9, in Commentario alla Costituzione. Principi fondamentali, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli - Società Editrice del Foro italiano, 1975, p. 434-60.
[7] T. Montanari, L'articolo 9: una rivoluzione (promessa) per la storia dell'arte, in A. Leone - P. Maddalena - T. Montanari - S. Settis, Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi, Torino 2013, p. 26 ss.
[8] Ibid., p. 38.
[9] Ibid., p. 39.
[10] S. Settis, Intervento al Convegno Nazionale Fai, Roma, 10 novembre 2006.
[11] M. Ainis, Il decentramento possibile, Aedon, 1998, n. 1: http://www.aedon.mulino.it/archivio/1998/1/ainis.htm
[12] T. Montanari, L'articolo 9: una rivoluzione (promessa) per la storia dell'arte, cit., p. 34
[13] C. Marchesi, Atti dell'Assemblea costituente, seduta 30 aprile 1947.
[14] Intervento del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione della Consegna delle Medaglie d'Oro ai Benemeriti della Cultura e dell'Arte, Palazzo del Quirinale, 5 maggio 2003: http://www.quirinale.it/qrnw/statico/ex-presidenti/Ciampi/dinamico/discorso.asp?id=22144
[15] Si veda, tra gli altri, P. Maddalena, Ambiente, bene comune, in A. Leone - P. Maddalena - T. Montanari - S. Settis, cit., p. 95-149, e l'ampia bibliografia ivi riportata.
[16] Così, ancora, la Consulta nella sentenza 118/1990: " … L'esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42 della Costituzione). Il vincolo non può assolutamente riguardare l'attività culturale in sé e per sé, cioè, considerata separatamente dal bene, la quale attività, invece, deve essere libera secondo i precetti costituzionali (artt. 2, 9 e 33). La stessa iniziativa economica è libera, salvo il suo indirizzo e coordinamento a fini sociali a mezzo leggi (art. 41 della Costituzione). Vi sono certamente attività culturali (c.d. beni-attività) che lo Stato tutela con incentivi vari, specie di natura finanziaria, disposti con leggi apposite, distinte da quella in esame. Anche i centri storici […] hanno una protezione particolare e peculiare. Consultabile all'url: < http://www.giurcost.org/decisioni/1990/0118s-90.html>.
[17] T. Montanari, cit., p. 39.
[18] Si tratta di conseguenze in gran parte negative, tra le quali le nomine politiche dei Soprintendenti, assoggettati agli assessori regionali, la separazione di musei e territorio, il prevalere delle istanze politiche su quelle tecniche.
[19] Si vedano gli scritti di S. Settis, in particolare A titolo di sovranità, in A. Leone - P. Maddalena - T. Montanari - S. Settis, Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, cit., p. 57-94.
[20] R. Bianchi Bandinelli, Lettera a Ruggero Grieco, pubblicata sulla prima pagina de l'Unità, il 15 gennaio 1947, in Fondazione Gramsci, Archivio Ruggero Grieco. Liberali come Einaudi, comunisti come Marchesi e Bianchi Bandinelli, democristiani come Moro, La Pira, Dossetti, autonomisti come Lussu e Codignola, socialisti come Basso concordarono allora su alcuni punti essenziali: convergenza dei valori storici, morali ed economici entro l'alveo dell'interesse nazionale; predominio dell'interesse generale sugli interessi locali e particolari; necessità di un sistema unitario di tutela del patrimonio artistico e del paesaggio; affinità di oggetto fra urbanistica e tutela dei paesaggi; ruolo-guida della storia dell'arte nell'intendere i valori della bellezza e quelli della storia; infine, l'ambizione di fare del regime italiano della tutela un modello per tutto il mondo. Gli stessi temi ricorrevano nella Costituente, e ne nacque l'art. 9, che pose la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio in capo allo Stato. Non fu invece evitata la separazione del paesaggio dalla materia urbanistica, competenza assegnata alle Regioni dall'art. 117. L'art. 9 riprende la legge Bottai del 1939, a sua volta elaborazione della legge Croce (1922) sulla tutela del paesaggio, mentre l'art. 117 presuppone la legge urbanistica del 1942. Ma il raccordo fra tutela dei paesaggi e norme urbanistiche non fu mai fatto, e questo errore fatale si trascinò fin nella Costituzione: "schematizzando, si può dire che il "paesaggio" della legge Bottai si arrestava alla soglia delle città, mentre la legge urbanistica si fermava dentro i perimetri urbani" (Settis).
[21] S. Settis, cit.
[22] T. Montanari, cit., pp.41-42
[23] Ibidem.
[24] Anna Galluzzi, Gli Idea Store dieci anni dopo, "Biblioteche oggi", 1 (2011), p. 7-17, <http://www.bibliotecheoggi.it/content/n20110100701.pdf>;Idea stores: le social libraries del XXI secolo, intervista di Giannandrea Eroli a Sergio Dogliani, Deputy Head di Idea Store (qui il testo integrale); Sergio Dogliani,Idea Store, metti una biblioteca in un centro commerciale, "Il Sole 24 Ore", lunedì 14 maggio 2012 ( qui); Fabio Severino - Giovanni Solimine , Un nuovo modello di biblioteca civica: il caso Idea Store di Londra, in Economia della cultura, 13 (2008), 2, p. 225-234.
[25] Letizia Valli, Alleanza fra pubblico, privati e cittadini nell'esperienza del Multiplo, Convegno Stelline, Milano, 2013.
[26] H. Arendt, Vita activa, Milano, 1964-2011, p. 49. "Che la fase finale della scomparsa della sfera pubblica – prosegue la filosofa – sia accompagnata dalla minaccia di una liquidazione della stessa sfera privata, sembra intrinseco nella natura della relazione tra l'ambito pubblico e quello privato. E non è un caso che tutta la questione si sia trasformata in una discussione sulla desiderabilità o meno della proprietà privata." (p. 53).
[27] S. Settis, "A titolo di sovranità", cit., p.80-1.
[28] Sulla fruibilità non esclusiva dei Beni Culturali si veda Massimo Severo Giannini, "I Beni Culturali" in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 1976, pp. 32 e ss.
[29] Commissione Franceschini, Per la salvezza dei Beni Culturali in Italia. Atti e documenti della Commissione d'indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, Roma, Casa Editrice Colombo, 1967.