«Bibliotime», anno XVI, numero 3 (novembre 2013)
L'ingresso di Riccardo Ridi nel comitato scientifico di Bibliotime - ingresso che salutiamo con grande piacere - è accompagnato da un suo rilevante contributo su un tema con cui l'autore si va confrontando da tempo, ossia quello legato agli apetti etici della professione bibliotecaria, ed in particolare ai valori deontologici implicati nell'organizzazione della conoscenza.
Nell'introdurre tali argomenti, per prima cosa Ridi chiarisce la nozione di codice deontologico, definito come un testo "che formalizza una serie di norme cui dovrebbero rivolgersi tutti coloro che lavorano in un determinato ambito per individuare dei principi etici, al tempo stesso sia meditati e autorevoli che ragionevolmente stabili e condivisi, in grado di guidare la loro condotta professionale". Ma, prosegue l'autore, se è vero che "le associazioni professionali dei bibliotecari sono sempre state particolarmente attive sul fronte deontologico", al punto da produrre una quantità di codici nelle diverse realtà nazionali, è altresì vero che "sono estremamente rari i contributi [...] dedicati ai valori che dovrebbero (o, almeno, potrebbero) essere condivisi da tutti gli operatori professionali dell'organizzazione della conoscenza".
E' dunque in questa direzione che si muove la sua indagine, diretta ad effettuare un confronto tra quelli che appaiono i "valori più diffusi in ambito bibliotecario", ed "i possibili valori per tutti i professionisti dell'organizzazione dell'informazione", così come questi vengono discussi in tre recenti pubblicazioni (di cui una prodotta dallo stesso autore), al fine di "verificarne le somiglianze, le differenze e il livello di sovrapposizione". Tale indagine viene sviluppata sulla base di categorie in grado di definire una visione etica dell'informazione e della conoscenza: a partire dall'essenziale requisito della libertà intellettuale, [1] per arrivare agli altrettanto fondamentali principi legati ad una corretta ed efficace organizzazione dell'informazione, nonché ad una sua universale accessibilità ed usabilità, senza peraltro trascurare gli aspetti legati alla responsabilità sociale, alla privacy ed al copyright.
Ed è proprio a quest'ultimo argomento che è dedicata l'analisi di Antonella De Robbio, tesa a evidenziare non soltanto gli aspetti giuridici della legislazione nazionale e internazionale sul diritto d'autore, ma anche le rilevanti implicazioni etiche che discendono da tale discorso.
Non è un caso se l'autrice, ad apertura del suo contributo, sottolinea l'obsolescenza tecnica e giuridica della normativa italiana, dovuta da un lato alla perdurante sordità della nostra classe politica ad accogliere - e a tradurre in articoli di legge - le rilevanti innovazioni tecniche intervenute nell'epoca odierna, dall'altro alla sua incapacità (per non dire indifferenza) a favorire un approccio all'informazione più ampio e democratico, se è vero che il più delle volte, in virtù della forza economica e della capacità di lobbying degli editori, "le ragioni del diritto d'autore prevalgono sul diritto di accesso all'informazione".
Ma allo stesso tempo De Robbio riconosce gli elementi positivi che cominciano a intravvedersi anche su queste problematiche. Un'importanza particolare, ad esempio, viene attribuita al riutilizzo dell'informazione nel settore pubblico: difatti la recente direttiva europera che regolamenta questa materia - indirizzata non a caso a istituzioni quali le biblioteche, gli archivi e i musei - da un lato sancisce "il generale principio di riutizzabilità dei dati, nel rispetto della proprietà intellettuale e della privacy", dall'altro introduce "il principio della disponibilità di dati e documenti in qualsiasi formato o lingua". Entrambi aspetti, ci pare evidente, che rientrano a pieno titolo nel solco tracciato nel precedente articolo di Riccardo Ridi.
Ma anche altre problematiche sono messe sotto la lente da Antonella De Robbio, come ad esempio la complessa questione delle opere orfane, ossia tutte quelle opere "assoggettate al regime di protezione del diritto d'autore, che si presume non siano di pubblico dominio, ma i cui titolari dei diritti sono sconosciuti o introvabili", e per le quali nel 2012 è stata emanata una direttiva europera volta a rendere "più sicura e semplice per le istituzioni pubbliche, come musei e biblioteche, la loro condivisione con il pubblico".
E neppure viene trascurato il quadro normativo che scaturisce dalla diffusione massiccia degli e-book, diffusione accompagnata da regole fortemente restrittive che l'editoria commerciale impone alle biblioteche, in particolare per quanto riguarda il diritto al prestito; difatti, osserva l'autrice, nel campo del libro digitale "troneggia la regola one copy-one user: laddove una copia sia stata presa a prestito nessun altro la può scaricare". Ma anche qui s'intravvedono interessanti spiragli, come mostra la recente sentenza in favore del progetto di digitalizzazione messo in atto da Google, "le cui motivazioni si fondano sulla prevalenza della tutela dell'interesse pubblico rispetto agli interessi editoriali; è una vittoria decisiva del fair use e delle biblioteche accademiche, un piccolo passo verso una visione più innovativa del diritto d'autore, anche se per ora limitato agli Stati Uniti".
Un corollario - tutt'altro che secondario - che discende dal discorso sul diritto d'autore è poi quello relativo all'open access, su cui De Robbio si sofferma ampiamente, richiamando la necessità di creare norme sul copyright volte "a tutelare le attività nelle università e nella ricerca e nei servizi erogati dalle biblioteche accademiche", dando vita a "un quadro normativo specifico per un copyright scientifico" che sia orientato ai due fondamentali versanti della ricerca e della didattica.
E in questo ambito, l'autrice da un lato ricorda che "dallo scorso ottobre 2013 anche in Italia esiste una norma per garantire l'accesso aperto ai risultati della ricerca scientifica finanziata con fondi pubblici", dall'altro cita un documento del Miur con il quale si dispone che le pubblicazioni finanziate con contributi pubblici vanno "rese accessibili secondo una delle due modalità previste dalla Raccomandazione europea", e cioè "immediatamente, da parte dell'editore che li pubblicherà online ('via aurea'), o al più tardi entro 6 mesi - 12 per gli articoli nell'area delle scienze sociali ed umane - dalla pubblicazione ('via verde'), anche tramite l'auto-archiviazione da parte dei ricercatori stessi".
Una digressione, questa sull'accesso aperto, che apre la strada al denso articolo di Michele Chieppi e Piera Bergomi sulle modalità di pubblicazione delle riviste scientifiche biomediche ed infermieristiche. L'indagine di De Robbio tuttavia non si arresta a questo cruciale discorso, ma prosegue analizzando un altro aspetto di grande rilievo dal punto di vista etico, ossia quello dell'accesso alle opere dell'ingegno per persone affette da disabilità; si tratta di un argomento ampio e complesso, che solo di recente ha trovato una sua definizione con la ratifica dell'importante Trattato di Marrakesh. [2]
E - con un altro passaggio di testimone - proprio di questa tematica si occupa l'articolo di Simonetta Vezzoso. L'autrice mette in luce l'importanza di questo trattato, il primo che a livello internazionale ponga eccezioni e limitazioni al diritto d'autore: siamo di fronte a una serie di norme che appaiono decisamente coraggiose e innovative, risultando "in netta controtendenza rispetto al continuo rafforzamento [...] della posizione giuridica dei titolari dei diritti, che ha caratterizzato almeno tutto il secolo scorso, e non solo l'ambito del diritto d'autore". E' peraltro evidente che la ratifica del Trattato da parte dell'Italia richiederebbe una serie di modifiche alla normativa sul diritto d'autore, andando nella direzione di un utilizzo più ampio e diffuso di strumenti e tecnologie capaci di consentire "alle persone beneficiarie di accedere ad un'opera in modo altrettanto praticabile e comodo che per le persone senza disabilità visive od altre difficoltà di accesso al testo a stampa".
Difatti il Trattato di Marrakesh, sottolinea Vezzoso, "introduce delle vere eccezioni a favore delle persone beneficiarie, che non dovranno passare attraverso la ricerca di un spesso difficile consenso con i titolari dei diritti, neppure quando le attività consentite non vengono svolte dai beneficiari stessi, ma da entità autorizzate quali ad esempio biblioteche ed istituti di formazione autorizzati o riconosciuti dal governo".
A concludere la rassegna ospitata dal presente numero di Bibliotime, si pone infine l'articolo sul progetto BRIF (Bioresources research impact factor), nel quale sono esplorati i criteri per far emergere e rendere sempre più fruibili le biorisorse, vale a dire "biobanche, database e strumenti di ricerca bioinformatici": le biorisorse infatti risultano "fondamentali nell'odierno panorama delle biotecnologie e delle scienze della vita, e contribuiscono in maniera significativa alla realizzazione di studi e ricerche altamente innovativi".
Un discorso, al pari degli altri fin qui esaminati, che appare non più trascurabile nella definizione di un approccio propriamente etico all'informazione ed alla conoscenza.
Michele Santoro
[1] Un aspetto, osserva l'autore, che è "effettivamente e unanimamente considerato di maggiore pertinenza e importanza per le biblioteche, ovvero la garanza di accesso universale alle informazione da parte di chiunque".
[2] Per la precisione: Trattato di Marrakesh per facilitare l'accesso alle opere pubblicate delle persone cieche, con disabilità visive o con altre difficoltà di lettura dei testi a stampa.
«Bibliotime», anno XVI, numero 3 (novembre 2013)