Antonella Agnoli, Le piazze del sapere: biblioteche e libertà, Roma-Bari, Laterza, 2009.
Tra i libri che con un certo grado di precisione si occupano di biblioteche, di bibliografia e di bibliotecari, occorrerebbe distinguere nettamente almeno due ampie categorie: quelli propriamente professionali, che si rivolgono in forma quasi esclusiva agli addetti ai lavori, per così dire, e quelli che rappresentano, invece, uno scaffale più fluido, che si presta ad essere scorso da lettori molto diversi, provenienti dai più vari interessi di ricerca. L'ultimo volume di Antonella Agnoli si colloca proprio su quest'ultimo palchetto, perché, come scrive l'autrice sin dalle sue prime battute, esso nasce con l'intento di porsi in rapporto con una plurivocità di esperienze intorno alla biblioteca pubblica ("molti viaggi, molte letture, molti incontri"), lavorative e conoscitive, esperienze di cui si dà nel volume una personale lettura complessiva.
Il particolare tema affrontato, quello delle biblioteche di pubblica lettura, è scomposto in due parti: ciò che è e ciò che dovrebbe essere. La prima, descrittiva e con intarsi di scrittura persino narrativa, serve a mettere a fuoco alcuni dei grandi problemi, forse non tutti quelli nodali, ma certo quelli che hanno goduto di maggior risonanza nel dibattito culturale odierno intorno alle "teche del Duemila". L'autrice indaga in queste pagine il rapporto tra biblioteca pubblica e società urbana contemporanea: La biblioteca e la città è il suo ambizioso titolo. Qui si raccolgono le riflessioni sia sul passato prossimo, concentrato negli ultimi tre decenni, ossia dagli anni ottanta del Novecento sino ai primi dieci anni del secolo successivo, sia sul futuro della biblioteca pubblica. Almeno per l'Italia è assai difficile stendere un bilancio credibile, con a metro solo l'ultimo trentennio. Senza tenere in conto almeno degli anni sessanta e settanta che hanno contribuito fortemente a definire il contesto bibliotecario contemporaneo, sul fronte editoriale e su quello politico, si rischia di assumere una prospettiva storica troppo ridotta. Dapprima con la "révolution culturelle" dei tascabili, per la Francia indagata in anni lontani da Yvonne Johannot, rivoluzione copernicana che ha contribuito a rendere il libro sempre più simile a una merce come tante altre, portando nelle tasche di molti lettori biblioteche complete, acquistate a poco prezzo, via via sempre più affidabili anche dal punto di vista testuale. Poi con la lenta affermazione dei sistemi bibliotecari, in particolar modo di quelli urbani, articolati in centri e periferie definiti sulla base di criteri nuovi, per smantellare le mappe tradizionali dei luoghi del leggere. Poi ancora con lo strumento giuridico delle convenzioni, che hanno immesso ingenti patrimoni librari (e specifiche comunità di lettori, prima isolate) entro il quadro complesso della pubblica lettura cittadina: si pensi soltanto alle biblioteche di scuole, e poi, di università. Allora si sono diffuse le prime indagini su quelli che Anton Francesco Doni, in un noto avviso della sua Libraria, aveva già battezzato i "lettori che non leggono", moltissimi in ogni secolo; negli anni settanta questo esercito di lettori aveva già assunto il nome di "utenza potenziale", ribattezzata dalla Agnoli utenza dei "non frequentatori". I motivi che, allora come ora, distolgono il pubblico dalle biblioteche sono di diverso ordine, tutti assai noti in Svizzera come in Inghilterra, negli Stati Uniti come in Italia. Dalla difficile affermazione della lettura come necessità sociale e come piacere individuale, alla mancanza di progettazione di servizi davvero ritagliati sulle esigenze di porzioni specifiche di pubblico (perché è davvero arduo elaborare proposte per tutti e al contempo per ciascuna parte di cui quel tutto è formato), all'insufficienza delle risorse economico-finanziarie, all'assenza di personale adeguatamente formato (ancora una chimera il reference librarian o il bibliotecario scolastico!), all'inadeguatezza di molti spazi. E la lista, sempre foriera di vertigine, potrebbe continuare.
Proprio lo spazio, inteso soprattutto come organizzazione architettonica e integrazione con funzioni e compiti della biblioteca pubblica, rappresenta un nodo centrale del volume della Agnoli, che a tratti sembra dismettere i panni delle bibliotecaria per farsi attenta osservatrice delle tendenze architettoniche più diffuse nella contemporaneità bibliotecaria. Giusto chiedersi sin da ora per quale pubblico dovranno organizzarsi gli spazi delle biblioteche, dinanzi all'invecchiamento inarrestabile della popolazione occidentale, alla dirompente modificazione dei modi con cui sono prodotte, circolano e sono consumate le informazioni, alla imprevedibile evoluzione dei supporti, caratterizzati da una volatilità che rende difficile, se non impossibile, anche solo immaginare le strutture contenitive idonee a conservarli e a renderli fruibili per le generazioni future. Lo spazio della biblioteca è quindi fortemente in crisi, lo si ricava da molte spie. Non ultima la tesi portante del volume della Agnoli, convinta della necessità di trasformare la biblioteca pubblica in "luogo di incontro", ""piazza coperta" a disposizione di grandi e piccoli, ricchi e poveri, zingari e cardinali". Il richiamo diretto è senza dubbio alla "piazza coperta" più nota della nostra penisola, quella Sala Borsa che ha saputo in pochi anni rivitalizzare la pubblica lettura nella città di Bologna, ponendosi quale biblioteca civica di informazione generale a vocazione multimediale e multiculturale. La metafora della piazza, assunta quale luogo di relazione e di scambio, può ben incarnare il progetto biblioteconomico di molte strutture italiane deputate a svolgere servizi di pubblica lettura, purché si presti molta attenzione a non travalicare il senso di quella relazione. Forse è riduttivo pensare lo spazio della biblioteca soltanto quale quinta ideale dove sentirsi sempre e comunque a proprio agio, sicuri, pronti ad acquistare come in un centro commerciale o, ancor peggio, come in un villaggio turistico. Adottare soluzioni progettuali adeguate alla miglior fruizione possibile delle raccolte e dei servizi, locali e remoti, ideati dalla biblioteca non può sollevare i lettori dal farsi soggetti attivi (e non passivi spettatori) di quel processo di alfabetizzazione che Alberto Salarelli, opportunamente richiamato, ha compreso essere al cuore del problema della pubblica lettura. Solo cittadini consapevoli perché "bene informati", lo ha ribadito anche il Manifesto Unesco, prima ancora che a proprio agio, devono poter accedere a un'informazione libera. Come si coniuga, allora, quella libertà di cui parla anche il sottotitolo del saggio della Agnoli, con lo spazio della biblioteca? Quali limiti, quali censure, quali pregiudizi è in grado di abbattere uno spazio ben progettato?
Sono queste alcune delle domande che rimangono al termine della lettura del volume, che nella seconda parte passa in rassegna alcuni virtuosi esempi in cui si è cercato di restituire alla biblioteca un'immagine credibile, affidandosi (forse eccessivamente) agli strumenti messi a disposizione dal marketing. In tempi di magre risorse di bilancio, e financo di drastiche diete dimagranti, non è inutile volgere lo sguardo agli strumenti aziendali, che non devono tuttavia farci dimenticare che la biblioteca non è un'azienda, neppure una libreria e un centro commerciale. Sicuramente alcune parole chiave del mondo del business fanno riflettere: identità, immagine, valore sono solo alcuni dei termini che aiutano a far riscoprire i concetti di missione, decoro, etica della biblioteca. Un poco può spaventare il fatto che negli Idea Store di Londra la "lingua franca" in grado di "avvicinare irlandesi e vietnamiti, cinesi e giamaicani, immigrati somali e londinesi da sette generazioni" sia "il linguaggio della società dei consumi", alla quale forse il nostro tempo rischia di tributare eccessivi onori. Meno preoccupata è la considerazione di chi ricorda come già negli anni settanta molte biblioteche pubbliche, quali ad esempio quella di Faenza, allora diretta da Maria Gioia Tavoni, fossero scese in piazza, non a caso in giorno di mercato, e anzi avessero coinvolto i propri giovani lettori nell'allestimento di banchetti dove scambiare fumetti, romanzi e altri libri per ragazzi, un incontro che ancora si persegue dall'attuale direzione della biblioteca romagnola. E allora dov'è il confine tra piazza e biblioteca, tra libro e merce? Da un lato si può ammettere che non esista un confine netto tra i due, come aveva capito già Henri-Jean Martin studiando il libro tipografico dalle sue origini. Semmai a cambiare il senso che si attribuisce al contenitore (la piazza-biblioteca) e al suo contenuto (il libro-merce) è ancora una volta il lettore, che si conferma al centro della moderna biblioteconomia. Più ancora che nella soppressione di inutili e antiestetici cartelli, è nella quarta legge di Ranganathan, che si trovano tutte le ragioni per disporre la segnaletica della biblioteca sulla base di criteri di chiarezza, semplicità ed essenzialità. Lo stesso dicasi a proposito degli arredi ingombranti. Leggi e biblioteche per un lettore che alla piazza del sapere si rivolge sempre più per trovare un lavoro, come per inserirsi in una comunità che non coincide con quella di origine; per sfogliare un libro che non conosce e che magari non potrebbe trovare con la stessa facilità sugli scaffali di una libreria e di un centro commerciale, dove ormai è presentato e passa solo il libro che regge la classifica, indipendentemente dalla qualità, dalla completezza, dall'aggiornamento delle informazioni in esso contenute; per la curiosità di aderire a una proposta culturale allettante perché capace di arricchirlo, prima ancora che di distrarlo.
E la piazza reale, come si rapporta con la piazza virtuale, sempre disponibile per chi ha un pc connesso al web e l'elettricità, ricordando che in base all'ultimo rapporto dell'Onu (novembre 2009) circa un quarto della popolazione del globo è priva di quest'ultima? La morte del libro tradizionale è stata ormai troppe volte annunciata per destare allarme. Come la ruota ed altri oggetti non straordinari, scrive Umberto Eco in Non sperate di liberarvi dei libri (ancora di libro e di libertà…), il libro è un'invenzione perfetta, difficilmente superabile. E ancora, se la stampa cessasse per incanto, continueremmo per molti anni ad essere influenzati da tutti i libri che non abbiamo letto. Che le biblioteche debbano comunque imparare ad attrezzarsi, e in fretta, per selezionare, per rendere disponibili, per conservare e per promuovere altri supporti (ad esempio l'ultimo Kindle di Amazon, che dichiara alte prestazioni di lettura, persino "on the beach"), non è certo una novità. In quale misura il libro elettronico modificherà gli spazi della biblioteca pubblica e la libertà dei lettori è una storia ancora tutta da scrivere, così come ancora da scrivere è la storia della lettura di testi dedicati alle biblioteche. Quello della Agnoli svetta nelle classifiche di vendita di libri specialistici a fronte di molti testi, ben documentati e non concepiti solo in forma di divulgazione, che si allineano ahimè unicamente negli scaffali dei remainders. È come dire che il libro, almeno in questa occasione, ha incontrato sulla sua via un canale a nostro avviso in armonia con il tipo di ricezione proprio del più attuale tornante della storia culturale italiana.
Paolo Tinti, Dipartimento di Italianistica - Università di Bologna, e-mail: paolo.tinti@unibo.it