Anche sull'onda della recensione di Maurizio Zani [1], credo sia utile riprendere la discussione intorno a La coda lunga, di Chris Anderson. Tento una sintesi fantasiosa perché il libro, avendo esattamente il pregio di essere trasversale e fantasioso, lo merita davvero.
I temi trattati sono economia delle reti, distribuzione e logistica. Tutti argomenti solo apparentemente lontani dal mondo dell'informazione per un paio di motivi sostanziali: 1) attraverso le reti passa una gran mole di contenuti culturali e 2) la logistica e le sue limitazioni fisiche hanno molto a che fare con le biblioteche.
Il principio della coda lunga è ormai noto: l'abbattimento dei costi della distribuzione via rete fa sì che anche nicchie di mercato piccolissime risultino produttive. Ma soprattutto svela il fatto che tali nicchie esistono davvero.
Perché al bar è difficile trovare il Chinotto e ci viene sempre propinata la Coca Cola? Non perché i gusti della gente siano così livellati come siamo abituati a pensare, ma semplicemente perché la distribuzione fisica delle merci in uno spazio ristretto (trasporto dei beni e stivaggio nei magazzini dei rivenditori finali) rende improduttivo portare nei bar sia il Chinotto sia la Coca Cola.
E' dunque vero che i gusti si sono omogeneizzati, ma solo perché lo imponevano le condizioni di un determinato modello economico [2]? Secondo Anderson, esiste un'enorme domanda presente nella nostra cultura, che fino ad ora è rimasta schiacciata dietro una forma di "economia della scarsità" dovuta al modello dominante nel mondo della distribuzione del ventesimo secolo. Insomma, era proprio la scarsità dell'offerta a nascondere la ricchezza potenziale della domanda:
oggi, la nostra cultura è una crescente commistione di testa e coda, hit e nicchia, istituzioni e individui, professionisti e amatori. La cultura di massa non sparirà, semplicemente sarà meno di massa. E la cultura di nicchia sarà meno di nicchia" (p. 181). Con un'altra espressione: "stiamo assistendo a un passaggio dalla cultura di massa a una cultura massicciamente parallela" (p. 184).
Per fare un esempio singolo di tipologia di consumo culturale, possiamo considerare la discussa possibilità del trasferimento di file musicali peer to peer: prima che fosse così semplice scaricare musica dalla rete, i potenziali utenti spendevano tutti i loro soldi nei negozi di cd? Io non credo assolutamente, credo piuttosto che si consumasse meno musica e con minori possibilità di scelta [3].
Quello che si va delineando è quindi un processo di trasformazione che va molto oltre la mera questione della distribuzione delle merci, e finisce per rivelare una richiesta inevasa di informazione e forse, contemporaneamente, per influire positivamente su di essa. D'altra parte, per citare un caso italiano, è evidente da fenomeni come l'enorme partecipazione ai festival culturali quanto sia forte la richiesta in questo senso. La difficoltà sta piuttosto nel crearci un nuovo modello mentale, in cui coesistano con un senso compiuto le file per assistere all'incontro con l'autore e i bassissimi tassi medi di lettura degli italiani!
Tornando ad Anderson, bisogna però chiedersi quali nuovi problemi si aprano davanti agli enormi mercati (ma potremmo anche dire richiesta di cultura) che si spalancano. In sintesi, un problema che come bibliotecari possiamo ben comprendere è il fatto che diventa più difficile orientarsi perché l'offerta è più ampia e complessa (il problema del filtro).
Quelle che il testo di anderson descrive sono alcune delle forme di filtro tipiche del Web 2.0, in particolare quelle più direttamente "umane", cioè che sfruttano direttamente i consigli che gli utenti di un servizio si danno fra loro o i loro comportamenti di consumo. Anderson li definisce "servizi di raccomandazione". Un esempio alla portata anche dei meno tecnofili: su praticamente qualunque sito che vende file mp3, di fianco al vostro gruppo preferito troverete anche una selezione del tipo "se ti piace X, potrebbe piacerti anche Y". Ma anche uno strumento vecchio come la classifica dei più venduti/ascoltati/scaricati può funzionare in questo senso, a patto che sia la classifica di un sotto-sotto-genere iperspecializzato, e non la top ten delle vendite in assoluto che, livellando i gusti di tutti in un unico contenitore, non dà indicazioni sensate per i singoli.
E per quanto riguarda direttamente le biblioteche? Le biblioteche hanno preservato per secoli materiali per mercati di nicchia. Le biblioteche pubbliche, ad esempio, lo fanno oggi acquistando sia il bestseller del momento, sia il testo pubblicato dal piccolo editore che in libreria è completamente invisibile. Lo scaffale della biblioteca rappresenta veramente una splendida democrazia delle idee: tutti in fila, tutti alla pari, e metadati per tutti.
Mi sembra che ci siano però due possibilità che non abbiamo indagato. La prima è una questione di logistica. Non abbiamo mai fatto alcun calcolo relativo alla visibilità sullo scaffale, ad esempio a seconda del livello dello sguardo umano, quando tutti conosciamo il fenomeno della relativa "invisibilità" dei libri collocati, ad esempio, sullo scaffale più in basso. Eppure i gestori di supermercati studiano da sempre come posizionare su ogni centimetro di scaffale le merci (e conseguentemente quanto farsi pagare dai fornitori).
Una dimenticanza che forse si può spiegare con il persistente convincimento che la Cultura sia davvero una cosa con la C maiuscola? La biblioteca non è paragonabile ad un supermercato [4]? E invece la biblioteca (almeno quella a scaffale aperto) è esattamente un supermercato, più molte altre cose. E' per questo che dovremmo applicarci al problema della gestione degli scaffali di più, e non di meno rispetto a quanto fa il negoziante sotto casa.
Un bell'esempio tratto da Anderson di come il supermercato cortocircuiti sulla biblioteca nell'organizzazione semantica degli scaffali:
una scatoletta di tonno non può esistere simultaneamente in plurime categorie, anche se gli interessi e i percorsi di ricerca di ciascun cliente potrebbero suggerirne molte: "pesce", "cibo in scatola", "farcitura per panini", "alimenti magri", "in promozione", "molto venduto", "sotto i 2 dollari" e via dicendo" (p. 152).
Ma Anderson arriva a citare anche la Dewey come sistema di collocazione del materiale a scaffale poco efficiente. In compenso, cita una biblioteca come esempio positivo (ma quanto?):
nella biblioteca pubblica di Seattle i numeri di Dewey sono segnati a terra, su mattonelle di gomma che interrompono il cemento. Quando le file di libri si estendono e si spostano in base alle priorità d'informazione del mondo, si spostano anche le mattonelle di gomma. E se, un giorno, Dewey avrà fatto il suo tempo, queste mattonelle di gomma potranno essere ribaltate e diventare un ottimo zerbino su cui pulirsi i piedi. Una biblioteca a prova di futuro non formula ipotesi sul panorama dell'informazione di domani (p. 159).
La seconda questione attiene al problema dei filtri. Paul Sturges del Committee on Free Access to Information and Freedom of Expression dell'IFLA, parlando della catalogazione come strumento del diritto d'accesso, afferma che
lo sviluppo di sistemi sempre più sofisticati di recupero dell'informazione ha occupato i pensieri delle menti migliori della biblioteconomia per gran parte del ventesimo secolo... Questo magnifico progetto è stato per certi versi efficace e produttivo, e tuttavia la grande produzione di cataloghi online, di basi dati e di sistemi computerizzati di recupero non ha risposto in maniera chiara a tutte le necessità di chi cerca informazioni e degli utenti della biblioteca. In effetti, l'attenzione posta prevalentemente sulla logica dei sistemi di metadati per il raggiungimento dell'obiettivo del recupero automatico ha trascurato la banale realtà degli stili di apprendimento umano e delle strategie di ricerca [5].
Nei termini di Anderson, "un unico filtro non va bene per tutti" (p. 106). Forse l'enfasi messa sulle possibilità dell'indicizzazione "sociale" è eccessiva, ma consideriamo in compenso un paio di cose: la qualità della catalogazione semantica tradizionale è ancora la stessa di una volta? E non si levano di continuo voci concordi sull'eccessiva rigidità dei nostri opac [6]?
E' necessario almeno trovare degli strumenti che possano nel momento attuale compensare il vuoto esistente fra utenti e materiali informativi. La prima strada da percorrere è il reference, inteso come attività pervasiva della biblioteca. Il reference è già il filtro umano che vediamo descritto come una incredibile novità in rete [7]!
In secondo luogo, i tempi sono maturi per utilizzare con poco sforzo alcuni degli strumenti del Web 2.0, senza bisogno di particolari competenze tecniche e investimenti economici. Ad esempio con una piattaforma blog di base è già possibile pubblicare rapidamente le novità, promuovere temi e materiali (l'evento della settimana linkato alle news online che ne parlano e ai saggi di approfondimento presenti in biblioteca), e cominciare a praticare una forma di interazione con gli utenti.
Oppure penso alle tante presentazioni di libri e incontri con gli autori che si perdono nel nulla appena terminati. Non è uno spreco di lavoro? Quanto pubblico potenziale è andato perso? Si potrebbe mettere sui siti delle biblioteche l'audio di questi eventi scaricabile in mp3. Si tratterebbe di trasformare l'evanescenza dell'evento in una forma di conoscenza registrata e archiviata, cosa che difficilmente possiamo percepire come lontana dalla tradizione del nostro lavoro.
Virginia Gentilini, Biblioteca Sala Borsa - Comune di Bologna, e-mail: virginia.gentilini@comune.bologna.it
* Questa nota nasce da un post da me dedicato all'argomento su <http://nonbibliofili.splinder.com/post/13794030/La+legge+del+Chinotto>.
[1] Maurizio Zani, Su e giù per la lunga coda. "Bibliotime", 10 (2007), 2, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-x-2/zani.htm>.
[2] Va in questa stessa direzione anche l'analisi contenuta in Yochai Benkler, La ricchezza della rete: la produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Milano, EGEA, 2007, che descrive le condizioni di mercato tipiche dell'industria dei mass media novecenteschi e le limitazioni che esse tentano di imporre oggi in una mutata situazione economica.
[3] Un esempio di come la netta contrapposizione fra rispetto del copyright e pirateria sia in realtà legata ad un modello economico che non ha niente di "naturale" è costituito dall'uscita, molto discussa in rete, dell'ultimo album del gruppo rock Radiohead. In sostanza, promesso l'album, permesso il download. Il prezzo viene interamente deciso dall'utente finale. Cfr. il post di Bonaria Biancu <http://bonariabiancu.wordpress.com/2007/10/14/no-really-its-up-to-you-firmato-radiohead/> e il resoconto di Punto Informatico <http://punto-informatico.it/p.aspx?i=2078077>.
[4] Riprendo il tema dall'intervento di Elena Boretti, Un grande servizio bibliotecario pubblico per tutti, "Bollettino AIB", 4 (2006), p. 383-397, <http://www.aib.it/aib/boll/2006/0604383.htm>.
[5] Paul Sturges, L'accesso come principio etico e pratico per la biblioteconomia, "Bibliotime", 10 (2007), 1, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-x-1/sturges.htm#nota>.
[6] "Of course the situation with library software is complicated by the fact that it is meant for use by librarians *and* normal people. Too bad that one interface for both groups leads more often to the worst of both worlds rather than the best" (Aaron Schmidt in un post su <http://www.walkingpaper.org/503>).
[7] Interessante è la proposta di predatory reference avanzata da Bill Pardue in occasione della campagna Slam the boards, che vede i bibliotecari statunitensi impegnati a rispondere alle domande che gli utenti della rete mandano ai servizi di reference non bibliotecari. Cfr. l'intervista su <http://librarygarden.blogspot.com/2007/10/preditory-reference-interview-with-bill.html#links>.