«Bibliotime», anno X, numero 2 (luglio 2007)

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Maurizio Zani

Su e giù per la lunga coda



Che cos'è la "lunga coda"? L'immagine della lunga coda è stata proposta già tre anni fa da Chris Anderson, una delle firme più importanti della rivista elettronica Wired, per illustrare un fenomeno di grande interesse, nato in seguito alla diffusione delle tecnologie digitali e dei collegamenti tramite Internet.

Secondo Anderson infatti, se si mette sull'asse delle ascisse la classifica dei prodotti o degli oggetti acquistati e/o scaricati dalla rete, e sull'asse delle ordinate il numero delle vendite o dei download di ciascun oggetto, si ottiene una curva molto particolare. I prodotti acquistati e/o scaricati si distribuiscono a partire (da destra) da un'alta frequenza di acquisto e/o accesso, per discendere velocemente (a sinistra) verso valori sempre più bassi. La parte sinistra della curva assomiglia a una coda sempre più lunga e sottile, il cui valore in termini commerciali sembra essere in costante crescita proprio grazie alla comunicazione telematica.

Attraverso gli strumenti oggi disponibili in rete (cataloghi commerciali, librerie elettroniche, negozi online di musica, motori di ricerca, etc.) è dunque possibile distribuire una quantità sempre maggiore di prodotti, riducendo o quasi annullando i tradizionali costi di produzione, stoccaggio e distribuzione. Gli utenti a loro volta possono facilmente connettersi agli strumenti di ricerca, ed hanno a disposizione un numero di oggetti, articoli o documenti molto maggiore di quanto non accadesse solo qualche anno fa.

In questo modo la rete riduce o elimina i vincoli e i costi della localizzazione fisica, dà agli utenti un accesso facilitato e quasi illimitato a prodotti e servizi, e permette alle aziende di avere un ritorno economico importante per un gran numero di prodotti, anche quelli che tendono a scivolare in fondo alla lunga coda. Anzi, i profitti che le imprese realizzano in tal modo, e le trasformazioni sociali e culturali prodotte da questa curva della distribuzione, sono così importanti che la lunga coda finisce quasi per muovere il cane (secondo il famoso detto "the tail wags dog" [1]).

L'immagine proposta originariamente su Wired [2] ha avuto successo, tanto da convincere l'autore a creare un blog di successo (<http://www.thelongtail.com/>) e a scrivere una monografia sull'argomento, uscita in inglese lo scorso anno e pubblicata di recente in traduzione italiana. [3] Il testo è complessivamente molto agile e scorrevole, senza particolari difficoltà matematico-statistiche (da un certo punto di vista, questo ne costituisce un limite, in quanto Anderson tende a trarre conclusioni molto rilevanti a partire da dati ancora limitati); esso inoltre è di notevole interesse per i diversi casi di mercati e aziende presentati, i quali incarnano il modello di successo descritto per l'appunto dal libro: aziende come eBay, Google, Netflix, Amazon, Alibris e perfino Lego.

In particolare, prosegue Anderson, il mercato dei libri è stato uno dei primi a sfruttare le potenzialità della lunga coda, grazie alla geniale intuizione di Jeff Bezos e alla creazione di Amazon. Un catalogo unificato, magazzini distribuiti, un numero crescente di utenti e clienti, la possibilità di accedere a libri praticamente introvabili anche nei più grandi supermercati dotati di scaffali, la raccolta di recensioni dei lettori, i suggerimenti mirati per gli acquisti: tutte queste caratteristiche hanno modificato profondamente il mercato librario.

Quando poi questo modello è stato applicato non solo ai libri, ai cd e ai dvd, ma a oggetti interamente digitali - e quindi senza supporto - come i brani musicali in formato mp3 o alla pubblicità online, ecco che le potenzialità della lunga coda sono esplose. Gli utenti/clienti infatti possono accedere a un enorme catalogo commerciale, senza particolari vincoli fisici, addirittura acquistando le opere in formato granulare (le canzoni) invece che in pacchetti preconfezionati (i tradizionali album su cd). I produttori e i distributori ricavano utili anche da vendite numericamente molto basse, e la somma di tutti questi utili raggiunge, secondo Anderson, cifre piuttosto rilevanti.

Ma al di là degli aspetti economici, il principale interesse dell'autore è di discutere degli effetti sociali e culturali indotti da questa trasformazione. Il sottotitolo, "da un mercato di massa a una massa di mercati" indica già come il fenomeno della lunga coda abbia consentito l'emergere e l'affermarsi di una serie di nicchie di mercato, che mettono in discussione il gusto standard legato ai grandi successi del mercato cinematografico, musicale o dell'intrattenimento, così come siamo l'abbiamo conosciuto negli ultimi decenni.

Difatti prima all'avvento della rete i costi di produzione e distribuzione erano troppo alti, e ancora più vincolanti erano i limiti della rete fisica di distribuzione (pensiamo ad esempio al numero limitato di scaffali in una libreria, o alla ridotta capienza delle sale cinematografiche). In queste condizioni, chi controllava il mercato aveva la necessità di andare sul sicuro, producendo, promuovendo e distribuendo un prodotto sostanzialmente standardizzato (si direbbe, il corrispettivo del modello T di Ford).

Da qui i grandi successi che andavano bene per tutti e, forse, per nessuno. Oggi, caduti quei vincoli, è possibile produrre, distribuire, vedere, ascoltare e leggere con una grande libertà, e gli utenti/clienti si distribuiscono o scivolano sulla lunga coda, scaricando canzoni conosciute tramite il passaparola degli amici o degli esperti, acquistando libri che vengono stampati praticamente solo per loro, on demand, oppure ricercando – sulla base di gusti sempre più esigenti e raffinati - le più diverse tipologie di prodotti di nicchia (farine, marmellate, etc.).

"Nicchie di mercato" è dunque la parola magica: il consumatore sembra infatti essersi liberato, evoluto e raffinato, al punto che al posto del mercato di massa, si sono creati miriadi di mercati di nicchia, che rafforzano e sostengono questa frammentazione. Le tecnologie consentono questa libertà o, se si vuole, questa frantumazione dei soggetti e delle comunità tradizionali, che finiscono per aggregarsi intorno a propri e molto specifici interessi.

Il libro probabilmente pecca per l'insistente ripetizione dei concetti e della teoria dell'autore, portando a sostegno una quantità tutto sommato modesta di dati, forse difficilmente ottenibili in questo momento dalle aziende interessate. Il suo pregio sta tuttavia nella capacità di rafforzare l'intuizione e l'immagine originale, allargandone l'interesse anche ai lettori che non si occupano esclusivamente di questioni strettamente tecnologiche o economiche. Uno dei limiti della tesi di Anderson consiste peraltro in una fiducia troppo evidente nelle capacità della tecnologia di forgiare in maniera "rivoluzionaria" la cultura, le abitudini e i bisogni delle comunità umane.

Ovviamente le questioni sollevate da Anderson rivestono grande interesse anche per i bibliotecari. Google e Amazon, ad esempio, hanno modificato - e di molto - il panorama informativo degli utenti delle biblioteche, lanciando una sfida epocale che i bibliotecari vivono spesso con grande apprensione, in quanto la ritengono in grado di mettere in dubbio la loro stessa sopravvivenza professionale.

Numerosi commenti alle tesi di Anderson concordano nel sostenere che già da tempo i bibliotecari si occupano della lunga coda, dal momento che cercano di dare accesso a libri e documenti senza guardare alle strategie di mercato che spesso ne sostengono la pubblicazione. Ma i bibliotecari sono davvero attrezzati per affrontare questa realtà in mutamento? Come scrive Anderson,

per creare una fiorente attività di coda lunga, il segreto è in sintesi il seguente:

  1. il mercato deve offrire qualsiasi cosa
  2. aiutate i consumatori a trovarla (p. 219)

E non v'è dubbio che, per creare un mercato in grado di offrire qualsiasi cosa, occorre dar vita a uno strumento (un catalogo) che sia capace di mettere a disposizione il maggior numero possibile di oggetti. Basti leggere nel libro di Anderson quanto sia stato importante la creazione di un catalogo unico per il successo di un'iniziativa come quella di Alibris, che ha reso redditizio e appetibile il difficile mondo dei libri usati. Il fondamento di questo successo sta proprio nella capacità di raccogliere in un unico database i cataloghi frammentati dei rivenditori e degli antiquari: un unico catalogo abbatte drasticamente non solo i costi del venditore, ma anche quelli che deve sostenere un possibile acquirente. Un solo catalogo, una sola ricerca; più cataloghi - di cui l'utente fatica a comprendere le caratteristiche - più ricerche extra, più tempo perso.

Ma il consumatore come si orienta a trovare in un catalogo così vasto ciò che gli è necessario o ciò che potrebbe interessarlo? La coda lunga in effetti "rende", non solo perché ha alle spalle un solo catalogo, ma anche perché gli strumenti automatici che gestiscono i cataloghi sono dotati di "filtri" (così li chiama Anderson) di accesso al proprio posseduto; possono essere strumenti automatici o manuali, ma sono spesso basati sull'attività degli utenti.

Amazon ad esempio offre al cliente l'elenco dei libri scritti dallo stesso autore o relativi allo stesso argomento, ma anche quelli acquistati dagli stessi clienti. Google per parte sua non si limita a trovare tutte le pagine in cui appaiono le parole richieste, bensì le ordina secondo i propri algoritmi, che evidenziano le pagine più linkate, ossia quelle di maggior successo sulla rete. I giovani che caricano video su Youtube o foto su Flickr possono aggiungere parole chiave (folksonomies, tags, metadati, chiamiamoli come vogliamo) per recuperare successivamente gli oggetti in tal modo marcati. Tale attività non costa nulla a chi crea questi cataloghi, consente di arrivare a scoperte estremamente interessanti incrociando indicizzazione "selvaggia" e serendipità, e assume un grande fascino, in quanto, come dice Anderson, si tratta di "post-filtri" e non di "pre-filtri":

i post-filtri trovano il meglio tra quello che già è presente nella loro area di interesse, portando in primo piano ciò che è buono (cioè rilevante, interessante, originale, etc.) e relegando sullo sfondo, o addirittura ignorando, ciò che è cattivo. Quando parlo di buttare tutto là fuori e lasciare che il mercato operi una selezione, questi post-filtri sono la voce del mercato. Comunicano il comportamento del consumatore e lo amplificano, invece che tentare di predirlo […]. Nei mercati a coda lunga - dove la distribuzione costa pochissimo e lo spazio espositivo è sconfinato - potete stare tranquilli che tutto finirà per essere disponibile. In questi mercati il ruolo del filtro non è più quello di guardiano bensì di consulente. Invece di predire il gusto, i post-filtri come Google lo misurano. Invece di raggruppare i consumatori in categorie demografiche e psicografiche prestabilite, i post-filtri come le raccomandazioni dell'utente di Netflix li trattano come individui che comunicano simpatie e antipatie attraverso il proprio comportamento (p. 118-9).

Anderson è inoltre molto critico sui tradizionali sistemi di classificazione - come la Dewey - creati per collocare i libri sugli scaffali. Nella sua ottica, ovviamente, questi sistemi non rivestono più alcun fascino e utilità, soppiantati dall'indicizzazione "sociale" degli utenti della rete. Tralasciamo il fatto che ridurre l'apporto delle biblioteche alla sola collocazione secondo la Classificazione Decimale Dewey è un evidente errore di superficialità, che ignora lo strumento dell'indicizzazione per soggetto [4]. Verrebbe da chiedere ad Anderson se per lui i tradizionali sistemi di classificazione e soggettazione si configurano come pre-filtri, magari simili a quelli degli editori, dei responsabili degli acquisti, degli esperti di marketing (p. 119), che lui ritiene per buona parte superati. Gli scaffali delle biblioteche dunque sono simili a quelli delle librerie, troppo esposte alle politiche di marketing e ai limiti fisici?

La retorica presente nel brano sopra citato esalta eccessivamente il valore "democratico" dei post-filtri, ma se vogliamo comunque utilizzare questa metafora, possiamo sostenere che gli standard faticosamente creati dai bibliotecari ai tempi degli scaffali di legno o di metallo possono essere tranquillamente considerati come post-filtri, ossia come raccomandazioni offerte ai lettori da parte di bibliotecari esperti del settore, sulla base della conoscenza dei documenti stessi e delle esigenze degli utenti.

L'opposizione tra pre-filtri e post-filtri è comunque uno strumento rozzo di discussione. Molto più calzante appare la metafora del catalogatore-giudice creata da Riccardo Ridi [5], proprio evidenziando i limiti dei metadati prodotti dagli stessi autori dei documenti. E' comunque un dato di fatto che la crescita delle realtà digitali abbia modificato in maniera radicale il panorama informativo degli utenti. Se la coda lunga ha segnato l'affermazione delle nicchie di interesse, non sorprende che gli strumenti classici di indicizzazione dei bibliotecari appaiono sempre più "alti", lontani e magari obsoleti, incapaci di arrivare in profondità, e che anche i bibliotecari sentano il fascino dell'indicizzazione "dal basso" [6].

Da tempo si è aperta un'ampia discussione sulla possibilità di integrare approcci tradizionali e strumenti innovativi, allo scopo di personalizzare i servizi della biblioteca rispetto alle esigenze degli utenti [7]. Come sottolinea Anderson, solo la creazione di cataloghi sempre più ampi permette l'emersione e l'identificazione delle "nicchie": e anche in ambito bibliotecario, solo la disponibilità di un catalogo elettronico relativo a una o più reti di biblioteche costituisce uno strumento in grado di dare a ciascun utente il suo libro e viceversa. Sappiamo però che, malgrado i notevoli progressi ottenuti negli ultimi decenni, i risultati in questo campo sono ancora insoddisfacenti, o comunque non ancora all'altezza della situazione e delle necessità.

Il lavoro di catalogazione e di messa disposizione del proprio patrimonio sembra essere, per molti anni ancora, uno dei principali compiti dei bibliotecari. Questo lavoro acquisirà sempre più senso se e quando produrrà cataloghi in grado in unire il locale (il posseduto, la conservazione, il servizio di prestito e lettura) al globale della ricerca nazionale ed internazionale, tanto meglio se in un rapporto di dialogo creativo con i grandi cataloghi delle librerie online e/o di esperienze come Google books, Worldcat, l'opac da un miliardo di libri di OCLC, a dimostrazione che l'implementazione di servizi innovativi consente di rendere più fluido, adattabile e personalizzabile il catalogo tradizionale. La frammentazione dei cataloghi su base territoriale o istituzionale costituisce, oggi come oggi, un limite pesantissimo e probabilmente incomprensibile agli occhi degli utenti, oltre che una zavorra economica sui già risicati bilanci delle biblioteche.

Maurizio Zani, Biblioteca Centrale "G.P. Dore" della Facoltà di Ingegneria - Università di Bologna, e-mail: mailto:zani@opac.cib.unibo.it


Note

[1] The long tail wags the dog, all'url <http://www.techsource.ala.org/blog/2006/07/the-long-tail-wags-the-dog.html>, dove si riflette proprio sui rapporti tra lunga coda e biblioteche. Su quest'ultimo aspetto si veda almeno Lorcan Dempsey, Libraries and the long tail. Some thoughts about libraries in a network age, "D-Lib Magazine", 12 (2006), 4, <http://www.dlib.org/dlib/april06/dempsey/04dempsey.html>.

[2] L'articolo originale è disponibile all'url <http://www.wired.com/wired/archive/12.10/tail.html>. In realtà la prima ricerca sull'argomento sembra sia stata quella di E. Brynjolfsson - Yu Jeffrey Yu - M. D. Smith, Consumer surplus in the digital economy: estimating the value of increased product variety at online booksellers, MIT Sloan Working Paper n. 4305-03, 2003, <http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=400940#PaperDownload>. La ricerca è poi confluita in E. Brynjolfsson - Yu Jeffrey Hu - M. D. Smith, From niches to riches: anatomy of the long tail, "MIT Sloan Management Review", 47 (2006), 4, p.67-71. Per questa e altre indicazioni si rinvia alla voce The long tail su Wikipedia, <http://en.wikipedia.org/wiki/The_Long_Tail>.

[3] Chris Anderson, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Torino, Codice, 2007.

[4] E per un altro verso, ignora anche l'esistenza dei thesauri disciplinari elaborati dalle comunità degli scienziati per l'interrogazione delle basi dati bibliografiche, oltre che l'idea di classificazione a faccette, su cui si è sviluppata negli ultimi anni un'importante riflessione tra bibliotecari e "architetti dell'informazione"; si veda in particolare Claudio Gnoli - Vittorio Marino - Luca Rosati, Organizzare la conoscenza. Dalle biblioteche all'architettura dell'informazione per il Web, Milano, Hops Tecniche nuove, 2006.

[5] "Oltre alla dimensione tecnica dell'indicizzazione ne esiste anche una etica, deontologica. La terzietà dell'indicizzatore rispetto ad autore e lettore non è solo una ottimizzazione per consentirgli di specializzarsi e di salvare il tempo del lettore, ma costituisce anche una garanzia che chi predispone i metadata abbia interesse solo a farlo nel modo tecnicamente migliore e non sia direttamente avvantaggiato - economicamente o da altri punti di vista - dal recupero di certi data piuttosto che di altri. Così come in un processo equo il giudice deve essere imparziale e "terzo" fra la difesa e l'accusa, così, per una indicizzazione "equa" l'indicizzatore dovrebbe essere "terzo" fra autore e lettore e non coincidere con una di tali figure. Altrimenti si rischia di ascoltare una arringa convinti che si tratti di una sentenza" (R. Ridi, Metadata e metatag: l'indicizzatore a metà strada fra l'autore e il lettore, in The Digital Library. Challenges and solutions for the new millenium, Bologna, June 17-18, 1999, <http://www.aib.it/aib/commiss/cnur/dltridi.htm>.

[6] Cfr. Nicola Benvenuti, Social tagging e biblioteche, "Biblioteche oggi", 25 (2007), 3, p. 35-42, il cui sottotitolo è molto chiaro: Implicazioni e suggestioni di una "classificazione generata dagli utenti che emerge attraverso un consenso dal basso". Sullo stesso argomento si veda l'articolo di Michele Santoro presente su questo numero di Bibliotime.

[7] Un primo bilancio è presente in Paul G. Weston, La gestione elettronica delle biblioteche, in Biblioteconomia: principi e questioni, a cura di G. Solimine e Paul G. Weston, Roma, Carocci, 2007, p. 221-256.




«Bibliotime», anno X, numero 2 (luglio 2007)

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