[AIB] AIB notizie 19 (2007), n. 3
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Per un’ontologia della biblioteconomia nell’era digitale

Alberto Salarelli

Biblioteconomia o biblioteconomie?
Se, come rileva Michele Santoro [1], nel mondo anglosassone il termine librarianship ha assunto in tempi recenti una pluralità di aggettivi qualificativi volti a differenziare le specificità di ogni ambito operativo della disciplina, c’è da rilevare come resti invece «sostanzialmente unitario il profilo della professione nel nostro Paese (e del suo retroterra formativo e disciplinare)» [2].
Riteniamo, insieme a Giovanni Di Domenico, che questa sia una prospettiva vantaggiosa. Infatti, come del resto è abbastanza ovvio, le sottoclassi sono comprese nell’insieme maggiore rappresentato dalla classe di riferimento e le variabili che le differenziano non sono tali da poter inficiare quelle che sono le caratteristiche fondanti della suddivisione maggiore. Nessuna biblioteconomia medica o giuridica può accampare la pretesa di definire principi e perseguire fini differenti dalla teoria biblioteconomica generale.
Lo stesso non si può dire della biblioteconomia digitale che, a nostro modo di vedere, non è affatto «a subset of traditional librarianship» [3], quanto piuttosto un modo alternativo – icastico, semmai – di definire la biblioteconomia dell’età contemporanea. È un paralogismo, cioè un errore formale, paragonare la biblioteconomia digitale a una qualsiasi altra sottospecie biblioteconomica identificata in base a un criterio organizzativo relativo alla tipologia semantica dei documenti trattati.
La biblioteconomia digitale si occupa del mutamento formale dei documenti nel passaggio dall’analogico al digitale, dei nuovi sistemi di mediazione informativa, delle modalità di erogazione dei servizi tramite le reti telematiche, dunque – in ultima analisi – di quelli che sono gli elementi di base della riflessione biblioteconomia tout-court: documenti, mediazione, pubblico.
La biblioteconomia digitale non esiste [4]; esiste lo studio dei mutamenti introdotti dalle tecnologie digitali nella biblioteconomia della nostra era.
Ci chiediamo dunque per quale motivo il recente Manifesto per le biblioteche digitali [5] affermi nella tesi n. 1 che «le biblioteche digitali sono conversazioni».
Le biblioteche digitali sono biblioteche al pari di tutte le altre (come peraltro afferma la tesi numero 4). Le biblioteche, tantomeno quelle digitali, non sono punti di snodo informativo tra un “docuverso” dai confini impercettibili e un’utenza indifferenziata [6].
Le biblioteche digitali non sono portali (anche se, per alcune funzioni, possono avere un vantaggio nell’assumerne le fattezze); le biblioteche digitali non sono motori di ricerca (anche se si possono giovare di questi potenti mezzi per attività di information retrieval).
Le biblioteche digitali sono raccolte organizzate di documenti [7]. In tutto il Manifesto questo termine – raccolta – non compare mai. Ci pare francamente inaccettabile.

Principi per una biblioteconomia nell’era digitale
Per quanto detto sopra, non siamo convinti che sia giusto parlare di «nuova biblioteconomia» [8]: non mancano certo gli elementi di novità e le rivoluzioni sono realmente tali, non solo sul piano quantitativo. Però ci pare che la portata di esse non sia tale da stravolgere quei principi che la biblioteconomia ha elaborato nel corso della sua storia pluricentenaria.
Principi che, a nostro avviso, distinguono una qualsiasi raccolta di documenti da una biblioteca, anche in ambito digitale. Principi che, a nostro avviso, rappresentano quel «nocciolo duro delle competenze dei bibliotecari [che] resiste al passare del tempo, resiste malgrado siano mutate tante volte le forme e le modalità d’uso dei documenti […]. La continuità è nella funzione e non nell’aspetto che assume [9]». Principi che danno un senso alla biblioteconomia nel contesto della società dell’informazione perché in grado di sottolinearne quelle peculiarità che, peraltro, possono risultare utili anche al di fuori dello stretto ambito della biblioteca.

1. Principio di selettività
(dove si sceglie quali documenti inserire nella “teca”)

La questione del controllo bibliografico e la definizione dei criteri per procedere alla formazione di una raccolta organica percorrono come un basso continuo tutta la storia della biblioteconomia. Da Giovanni Nevizzano a Francesco Marucelli, da Gabriel Naudé a Paul Otlet, il problema rimane il medesimo: quello di selezionare i libri utili per il lettore a fronte di un profluvio incontrollato di prodotti offerti dal mercato editoriale.
Se ci si sposta in ambito digitale la questione di base non muta.
Tanto che si faccia riferimento a documenti digitalizzati, quanto che si considerino documenti digitali nativi, in entrambi i casi selezionare è fondamentale se non altro dal punto di vista dei costi di trattamento e di preservazione.

2. Principio di contestualità
(dove si ordinano nella “teca” i documenti)

Jesse Shera afferma che, nella teoria biblioteconomica, «order is essential, because the human mind can comprehend the intellectual or other aspects of the graphic record only through order and relationship»[10]. È evidente come qualsiasi operazione di mediazione dell’informazione – biblioteconomica o no – preveda una forma di ordinamento.
Ciò che ci riguarda da vicino è invece la qualità dell’ordinamento che, nella citazione, si definisce con il termine relationship e che noi proponiamo di identificare con il termine “contestualità”, ovvero il derivato di una rete di interrelazioni tipica del trattamento documentario proprio della biblioteconomia e non di altri sistemi di descrizione e ordinamento [11].

3. Principio dell’individuazione dell’identità e del soggetto
(dove si redigono i surrogati dei documenti)

Proprio perché «il bibliotecario identifica, registra e fornisce le fonti rilevanti meglio di qualsiasi altro concorrente nel campo delle informazioni» [12], è necessario distinguere la sua attività da quella di chiunque altro operi nell’ambito della gestione dell’informazione.
L’individuazione di identità e di soggetto è il minimo comune denominatore che consente l’allestimento di cataloghi in grado di raccordare descrizioni riferite a documentazione sia di natura analogica sia digitale, offrendo al ricercatore la possibilità di recuperare documentazione potenzialmente importante indipendentemente dal tipo di supporto sul quale essa è registrata.

4. Principio di interoperabilità
(dove i surrogati e i documenti vengono scambiati tra raccolte differenti)

La convergenza tra biblioteconomia e interoperabilità ha origini lontane dal momento che già con la pubblicazione delle Rules of descriptive cataloging di Lubetzky nel 1949 e, successivamente, con la formulazione del programma ISBD, si mettevano le basi per la possibilità, da parte delle varie agenzie bibliografiche, di interscambiare reciprocamente i record bibliografici in formato elettronico.
A fronte della possibilità offerta dalle reti digitali di poter connettere elaboratori sparsi in ogni parte del pianeta, risulta strategica la possibilità di utilizzare, per il trattamento dei documenti e dei loro surrogati, schemi e formati reciprocamente compatibili.
L’interoperabilità – termine che nasce in ambito propriamente informatico a significare la possibilità di un determinato software o protocollo di poter operare in maniera indipendente dal sistema operativo del computer su cui viene installato – è un concetto chiave per la costruzione di sistemi bibliotecari in grado di scambiarsi reciprocamente sia documentazione primaria (documenti digitali full text) sia documentazione secondaria (registrazioni bibliografiche).

5. Principio di accessibilità
(dove i surrogati e i documenti vengono aperti alla consultazione di tutti)

Nonostante (così almeno sostiene James Thompson) «evidence of public access to libraries exists from the earliest period of their history» [13], è senza dubbio la biblioteconomia moderna da Naudé a Leibniz a Panizzi ad aver sviluppato questo principio fondamentale che garantisce parità per tutti nei confronti dell’accesso ai documenti. Le biblioteche digitali, in quanto user-centered systems, declinano il principio di accessibilità nel senso di poter fornire a ciascun utente – in particolar modo quelli svantaggiati – le condizioni migliori di consultazione di una determinata collezione e di utilizzo dei servizi erogati attraverso una rete telematica.
I cinque principi che abbiamo identificato hanno tutti un’origine che fa riferimento alla storia della biblioteconomia, nonostante si trovino a rivestire nuove forme di applicazione pratica in relazione ai sistemi digitali. Questo perché, ieri come oggi, «le biblioteche di tutti i tipi specificabili hanno in comune, dunque, la caratteristica di essere composte da due soli elementi insostituibili o irrinunciabili: i libri e i lettori» [14].
Ci pare dunque che gli attributi essenziali della disciplina non siano da riformulare alla luce degli sviluppi tecnologici contemporanei ma che invece sia importante comprendere come i medesimi vadano reinterpretati nel nostro mondo cangiante e multiforme.

alberto.salarelli@unipr.it

NOTA: Nel testo di questo articolo si riprendono, in modo estremamente sintetico, alcuni temi dell’intervento presentato dall’autore in occasione della “IV giornata delle biblioteche siciliane: biblioteche e informazione nell’era digitale”, Castello di Donnafugata (Ragusa), 26 maggio 2006. Per la versione integrale si rimanda il lettore agli atti della giornata in corso di stampa a cura della sezione siciliana dell’AIB.


[1] Michele Santoro, Biblioteconomie, «Bibliotime», 3 (2000), n. 3.
[2] Giovanni Di Domenico, Problemi e prospettive della biblioteconomia in Italia, «Bibliotime», 4 (2001), n. 2.
[3] Péter Jacsó, What is digital librarianship?, «Computers in libraries», 20 (2000), n. 1, p. 54-55.
[4] Luigi Crocetti, Bibliothecarius technologicus, in Bibliotecario nel 2000: come cambia la professione nell’era digitale, atti del convegno, Milano, 12-13 marzo 1998, a cura di Ornella Foglieni, Milano: Editrice Bibliografica, 1999, p. 25-26.
[5] Manifesto per le biblioteche digitali, a cura del Gruppo di studio sulle biblioteche digitali dell’AIB, 2005.
[6] «Sbaglia in maniera imperdonabile chiunque ritenga che le biblioteche siano soltanto dei punti di distribuzione e di consumo di un prodotto appellato Informazione», Alfredo Serrai, Biblioteche e bibliografia. Vademecum disciplinare e professionale, a cura di Marco Menato. Roma: Bulzoni, 1994, p. 320.
[7] Cfr. Ross Atkinson, Library functions, scholarly communication, and the foundation of the digital library: laying claim to the control zone. «Library quarterly», 66 (1996), n. 3, p. 239-265.
[8] Dello stesso avviso è anche L. Crocetti, cit., p. 25.
[9] Giovanni Solimine, La biblioteca. Scenari, culture, pratiche di servizio, Roma-Bari: Laterza, 2004, p. 203.
[10] Jesse Shera, Philosophy of librarianship, «World encyclopedia of library and information services», Robert Wedgeworth editor. Chicago: American Library Association, 1993, p. 462.
[11] Cfr. Sebastiano Miccoli, Questioni di epistemologia biblioteconomia, «Bollettino AIB», 45 (2005), n. 4, p. 415-438: p. 432 e seguenti.
[12] Steffen Rückl, Il bibliotecario nella società dell’informazione, in Bibliotecario nel 2000, cit., p. 152.
[13] James Thompson, A history of the principles of librarianship, London: Clive Bingley; Hamden, Conn.: Linnet books, 1977, p. 209.
[14] Enzo Bottasso, La filosofia del bibliotecario e altri scritti, Udine: Forum, 2004, p. 179.


SALARELLI, Alberto. Per un’ontologia della biblioteconomia nell’era digitale. «AIB notizie», 19 (2007), n. 3, p. 4-5.

Copyright AIB 2007-04, ultimo aggiornamento 2007-04-15 a cura di Zaira Maroccia
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