di Paolo Sbalchiero
Adattamento dalla tesi di laurea triennale in biblioteconomia, discussa l'8 novembre 2004 presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università Ca' Foscari di Venezia; relatore Riccardo Ridi, correlatrice Claudia Salmini.
1 : Il confronto classico tra archivio e biblioteca
2 : Gli standard descrittivi, "ponte" tra biblioteche e archivi
3 : Perché gli archivi in biblioteca?
4 : La gestione degli archivi storici nelle biblioteche
5 : La promozione archivistica: verso una "bibliotecarizzazione" degli archivi?
6 : "La casa della memoria": archivi-biblioteche-musei: una triplice alleanza possibile?
7 : L'informatizzazione degli archivi e l'integrazione con altre banche dati culturali
8 : Gli archivi storici nelle biblioteche pubbliche: il caso di Schio
Il presente elaborato si propone come obiettivo quello di analizzare le problematiche relative ai casi di presenza di materiale di tipo archivistico nel patrimonio delle biblioteche pubbliche italiane, intendendo con questo termine le biblioteche di pubblica lettura gestite dagli Enti locali, che dopo le riforme della pubblica amministrazione degli anni Novanta sono andate configurandosi come "servizi pubblici locali" [1] Nella trattazione non si sono prese in considerazione le altre tipologie di biblioteche, molte delle quali per la loro stessa mission (basti pensare alle biblioteche statali, in cui fine principale è quello della conservazione), per la natura delle loro raccolte e per la loro storia spesso secolare, sono più facilmente portate ad entrare in contatto con il mondo degli archivi, ma che instaurano con esso un rapporto molto diverso da quello che si crea quando fondi archivistici entrano in istituti non di conservazione, ma in centri informativi locali che rendono prontamente disponibile per i suoi utenti ogni genere di conoscenza e informazione [2]. Questa scelta è stata determinata da vari fattori, ma sostanzialmente due sono stati i motivi determinanti: primo, il fatto che chi scrive conosce meglio la realtà delle biblioteche di pubblica lettura, sia da un punto di vista professionale sia come frequentatore, secondo perché allargare il discorso a tutte le categorie di biblioteche avrebbe sì reso la discussione più ricca, ma avrebbe portato ad affrontare molte altre problematiche, come la digitalizzazione di fondi antichi e la gestione dei manoscritti (così vicini alla realtà degli archivi), che non avrebbero trovato adeguato approfondimento nelle ristrettezze di questa analisi.
La ricchezza del passato del nostro paese e della sua tradizione culturale ha fatto e continua a fare in modo che ogni biblioteca, dalla nazionale alla comunale, possieda patrimoni rilevanti dal punto di vista non solo informativo, ma anche, in misura diversa a seconda dei casi, culturale, con la conseguenza che la biblioteca di pubblica lettura in Italia sfugga ad ogni parallelo con le altre realtà estere, prima tra tutte quella della public library di modello anglosassone. È proprio questa ricchezza e specificità delle biblioteche italiane che genera tutta una serie di problematiche, una delle quali è la compresenza nello stesso istituto di materiale di tipo sia archivistico sia bibliografico, le cui cause e conseguenze andremo ad analizzare, rilanciando ai bibliotecari e agli archivisti le sfide che tale analisi inevitabilmente ci proporrà.
Quella del rapporto tra archivi e biblioteche è una storia lunga e spesso ricca di ambiguità, dovuta, in parte, alla confusione creatasi in passato dalla traslitterazione della parola greca bibliotheke, latina biblioteca, che non significa semplicisticamente "biblioteca", ma istituto che conserva scritti, documenti, redatti su rotolo di papiro (biblion) e che, a seconda del contesto, potevano avere carattere letterario o amministrativo: fu così che, ad esempio, per molti secoli nella Chiesa cattolica esisterà il titolo di bibliothecarius nel significato di archivista.
Fu soprattutto nel XVIII sec., con l'imporsi negli archivi dell'ordinamento per materia con l'intento di facilitare le ricerche [3], che i due istituti iniziarono ad essere considerati affini; in quest'epoca inoltre (anche se la tendenza aumenterà in modo evidente soprattutto a partire dal secolo XIX) i fondi archivistici iniziarono ad essere utilizzati come fonte per la ricerca storica (specie dai medievalisti, anche se ancora si trattava di un numero ristretto di eruditi) e culturale, come avveniva con le raccolte delle biblioteche.
Con l'affermazione del concetto di archivio come sedimentazione documentaria di un'attività amministrativa e del principio dell'ordinamento delle carte secondo il metodo storico, nel corso del secolo XIX archivi e biblioteche si separarono. La definizione di archivio come complesso delle scritture (universitates rerum ex distantibus, cioè pluralità di beni in cui l'individualità di ciascuno è subordinata al legame della destinazione comune) attraverso il quale si è esplicata l'attività pratica di un istituto o persona, reciprocamente legate da un vincolo originario, necessario e determinato, permise di distinguerlo in modo netto dalle altre "universitates rerum ex distantibus", biblioteche e musei in primis. Se, infatti, il processo di formazione di una biblioteca è artificiale e volontario, quello di un archivio è spontaneo, perché deriva dalla naturale attività del produttore, con fini generali perché determinati dalle competenze della natura di quest'ultimo. La raccolta bibliografica, invece, deriva dalla volontà di un soggetto raccoglitore con fini speciali, spesso scientifici, predeterminati. Esaminando il rapporto tra le singole componenti di queste due universalità si notava una profonda differenza: nell'archivio ciascun documento ha origine identica (stesso produttore) e fine altrui (il fine del produttore), conseguibile per mezzo anche di altre scritture: è, quindi, dipendente dalle altre componenti. Nella biblioteca, invece, ogni documento ha origine diversa (autore, editore ...) e fine proprio autonomamente raggiungibile. Le singole unità, dunque, in entrambi i casi sono legate da un vincolo di destinazione comune, ma mentre nell'archivio questo vincolo è originario e necessario, perché proviene da un'esigenza ad esse interna e sostanziale, nella biblioteca è solo contingente, può esistere o meno senza che la singola unità perda il suo significato e raggiunga il suo scopo; il vincolo nella collezione bibliografica può variare con gli interessi del raccoglitore, mentre nell'archivio è determinato e invariabile, una volta che la relazione tra le unità sia costituita in un certo modo. Dalla definizione di "Biblioteche, sorelle degli archivj" di Michele Battaglia nel 1817 [4] si passa, dunque, a posizioni più antitetiche, come quella di Bartolomeo Cecchetti, il quale affermava in uno specifico scritto nel 1868-1869 che fra i due istituti esisteva "forse qualche leggera affinità", ma non "intimi rapporti" [5].
Anche la normativa in materia si allineò a queste nuove posizioni: il primo regolamento archivistico italiano (R. D. 27 maggio 1875, n. 2552) prevedeva che le biblioteche e i musei cedessero agli archivi tutti i "documenti pubblici o privati nel senso giuridico e diplomatico della parola", mentre gli archivi avrebbero dovuto, a loro volta, cedere alle biblioteche e ai musei le scritture che non avevano tale natura, così riprendendo e assimilando i principi che erano emersi nel Congresso internazionale di Statistica (Firenze, 1867) [6], già accolti e approfonditi nelle enunciazioni teoriche della Commissione Cibrario (1870) [7], istituita dai ministeri dell'Interno e della Pubblica istruzione per rispondere ai molti problemi degli archivi italiani all'indomani dell'Unità.
La riflessione più compiuta di questo periodo sul rapporto tra i due istituti è senz'altro quella di Pannella e Cencetti, i quali si occuparono ampiamente del tema, sottolineando entrambi la differenza, addirittura l'antitesi, fra archivio e biblioteca. Giorgio Cencetti dedicò a questo argomento varie pagine del suo studio Sull'archivio come "universitas rerum" (1937) [8] e vi tornò successivamente nell'Inventario bibliografico e inventario archivistico (1939) [9], spiegando che la confusione che spesso si fa fra archivio e biblioteca nasce dalla somiglianza nella forma esterna (supporti scrittori, scaffalature ...), ma che costituisce un grave errore cercare di "applicare agli archivi regole e precetti che, non solo giusti ma necessari e savissimi per le biblioteche, perdono addirittura ogni senso se tratti a forza dalla loro patria e dal loro campo d'applicazione" [10]. Medesimo il pensiero di Antonio Pannella [11], che rigettò con forza il criterio da molti adattato per distinguere il materiale archivistico dal materiale bibliografico, fondato non sulla natura del materiale ma sul suo contenuto, anticipando alcune idee di Leopoldo Cassese [12], il quale sostenne che, dopo un originario accostamento nel Medioevo, archivi e biblioteche si svilupparono autonomamente, chiarendo, anche grazie al progresso degli studi, la loro natura e funzione: non poteva, dunque, esistere dubbio sulla natura delle scritture documentarie, che sono o archivistiche o bibliografiche, senza soluzioni incerte o intermedie.
Queste le considerazione degli archivisti del passato. E i bibliotecari? Come si sono posti nei confronti degli archivi? Fino agli anni Sessanta la bibliografia sull'argomento non manca, ma è tutta di parte archivistica: come abbiamo visto, si tratta di studi sul problema delle somiglianze e delle diversità che avvicinano e differenziano i due istituti, ma che ignorano il problema, forse ben più grave, delle interferenze nel campo del patrimonio archivistico e librario, che a volte rappresentano vere e proprie mutilazioni o duplicazioni e che si risolvono spesso non solo in sicuro danno per lo studioso disorientato dall'irrazionale dislocazione del materiale, ma anche in snaturamento dei documenti stessi, schedati e gestiti non in base alla loro intima natura, ma secondo la tradizione descrittiva dell'istituto che li conserva.
Solo in anni più recenti, con lo sviluppo quantitativo delle ricerche storiche, sociologiche, economiche e con la sempre più avvertita esigenza di una stretta cooperazione internazionale e nazionale nel campo della documentazione storica e scientifica, il dibattito è stato impostato in modo nuovo e, soprattutto, sono apparsi i primi timidi contributi dei bibliotecari: fondamentale fu la settima conferenza della "Table ronde des Archives", tenuta a Madrid nel maggio 1962, dove gli archivisti, insieme ai rappresentanti delle biblioteche, decisero di gettare i fondamenti di una politica comune per una più razionale utilizzazione del patrimonio documentario e librario, per porre rimedio alla numerose (specie in Italia) e irrazionali interferenze e mutilazioni di fondi conservati nei due istituti, legate alle vicende storiche europee e alle diverse tradizioni culturali [13]. Torneremo in seguito sulle conseguenze e sugli sviluppi di questo nuovo corso del dibattito sul rapporto tra archivi e biblioteche: quello che si vuole qui sottolineare è che i bibliotecari, chiamati in causa quasi a forza dagli archivisti [14], risposero agli interrogativi loro posti, ma senza, forse, dare al problema la giusta importanza e visibilità. Tranne alcuni saggi significativi di Battelli [15] e Petrucci [16], che forse per primi tracciarono le linee per una futura collaborazione tra archivi e biblioteche e sui quali per questa ragione torneremo in seguito, non esistono altri contribuiti di rilievo di parte bibliotecaria: Alfredo Serrai [17] si limita ad evidenziare alcune identità di metodi e di operazioni utilizzati nelle due discipline ("metodi interpretativi, sussuntivi ed ordinativi" [18]), ma torna poi ad evidenziare le "diversità fondamentali nella natura, nelle funzioni, e nei meccanismi operativi dei rispettivi rapporti comunicazionali" [18]. Piero Innocenti, nel suo saggio Biblioteche e archivi [19], dopo aver trattato ampiamente delle differenze classiche tra i due istituti, evidenzia un'unica analogia: "in ambedue il patrimonio rappresenta fisicamente la continuità storica, cioè la diacronia, anche nel momento di massimo utilizzo funzionale, di sincronia" [20]. Questa caratteristica comune fa sì che archivio e biblioteca siano entrambi partecipi in modo funzionale della ricerca storica, essendo essi stessi oggetto di ricerca, in quanto "deposito archeologico che consente di travalicare il documento scritto di cui sono depositari" [21].
La constatazione dell'esiguità della bibliografia di parte bibliotecaria su questo tema ci porta a concludere che i bibliotecari, almeno fino ad oggi, se ne siano in massima parte disinteressati, a volte limitandosi ad incassare le provocazioni degli archivisti, a volte tentando, invece, una riflessione più compiuta. L'impressione forte che si ha è che il problema sia stato a lungo ignorato, volutamente o meno, con grave danno per l'utenza e il materiale. Come vedremo nel prossimo capitolo, da alcuni anni le moderne tecnologie ci stanno mettendo a disposizione nuovi strumenti per risolvere tecnicamente queste problematiche; tuttavia, il vuoto del dibattito e l'univocità nell'impostazione, anche da parte archivistica, della riflessione teorica su questioni che, a conti fatti, investono i principi stessi delle due discipline, dovrà essere colmato prima di tentare nuove vie di collaborazione, basate su scelte veramente condivise.
L'informatica applicata ai beni culturali, dopo una lunga fase di sperimentazione e di difficile colloquio tra informatici e umanisti, gode da qualche tempo della più viva attenzione di istituzioni e produttori, una volta compresi gli enormi vantaggi che si potevano apportare nel controllo di grandi masse di dati e nell'accesso rapido alle informazioni per assolvere alle esigenze informative e documentarie. Ma la strumentazione più sofisticata da sola non poteva bastare a raggiungere questi obiettivi: era necessario, per una efficace applicazione dell'informatica al campo dei beni culturali, che si avviasse un processo di standardizzazione che permettesse lo scambio di registrazioni (record inteso in senso lato) prodotte da fonti e paesi diversi, la salvaguardia del valore dei dati indipendentemente dalla lingua utilizzata e la loro strutturazione in modo tale da renderli leggibili e gestibili dai sistemi informatizzati. Si iniziò, allora, a parlare di standards anche per i beni culturali, cioè dell'insieme delle "norme atte a strutturare l'informazione, a compilarla nel rispetto di una grammatica e sintassi interna ad ogni elemento, a selezionare i termini appropriati e i protocolli di informazione [...] al fine di uniformare i comportamenti di coloro che creano rappresentazioni e coloro che invece cercano rappresentazioni" [22]: lo scopo finale dell'intero processo è, quindi, la comunicazione.
La discussione sugli standard prende il via negli anni Sessanta, interessando prima il campo delle biblioteche per poi estendersi anche al materiale non librario, in particolare agli archivi e alle raccolte museali. Nel 1971 sono pubblicati gli International Standard of Bibliographic Description (ISBD) nella versione per monografie (Monographies), seguiti nel 1977 dall'elaborazione dello standard ISBD(G), valido per tutti i materiali, modello per la creazione di standard per diverse tipologie documentarie (musica a stampa, seriali, antichità..). Da allora, gli standard di descrizione bibliografica si sono diffusi enormemente e sono stati assimilati dalla comunità bibliotecaria internazionale, contrariamente a quanto è accaduto per le norme che regolano la creazione degli accessi e l'ordinamento del catalogo, dove hanno prevalso e continuano a prevalere le diverse tradizioni catalografiche nazionali (per l'Italia le RICA, 1979), di nuove tipologie documentarie (si pensi ai supporti elettronici locali e remoti) e la scarsità di risorse in campo bibliotecario denunciata nel Congresso dell'IFLA a Stoccolma (1990) hanno dimostrato la necessità di reimpostare la catalogazione sotto nuovi termini: esce, così, nel 1997 lo studio FRBR, modello teorico desunto dall'analisi dei dati delle registrazioni catalografiche che individua il livello minimo di requisiti funzionali per record prodotti da agenzie bibliografiche nazionali, che ha posto le premesse per la Dichiarazione dei principi internazionali di catalogazione [23] (Francoforte, 2003), fortemente "utentocentrica", vera e propria base concettuale per la futura realizzazione di un Codice internazionale di catalogazione, valido per tutti i materiali e tutti i paesi.
Sul versante degli archivi, la storia dell'informatica applicata alla gestione dei fondi vede alcuni iniziali esperimenti di automazione informatica di testi estesi (deliberazioni di organi istituzionali, o trascrizioni di pergamene medioevali), tra la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, o di scomposizione delle informazioni contenute nella fonte, intendendo costituire una sorta di "edizione di fonti in banca dati". La scelta cadeva esclusivamente su documenti omogenei, e la sperimentazione richiedeva software specifici per ciascun progetto. In queste applicazioni ci si scontrava con le difficoltà di carattere tecnico di riuscire a rendere espliciti quegli elementi (la provenienza e il contesto dei documenti) essenziali in campo archivistico. Per lungo tempo, la consapevolezza di non riuscire ad agganciare elementi identificativi della struttura gerarchica di appartenenza -- in particolare nella fase della ricerca on-line, piuttosto che nei formati di visualizzazione sequenziale dei dati -- era apparso un ostacolo oggettivo, che condizionava decisamente scelte di trattamento più ampie, rispetto a quelle di singoli insiemi di documenti indicate sopra. Come rendere in modo efficace, con gli strumenti tecnologici allora disponibili, un mondo, quello degli archivi, fatto di gerarchie complesse e variabili, e intessuto a tutti i livelli di relazioni reciproche? Il fatto, poi, che la struttura gerarchica potesse essere variabile e che la successione dei diversi livelli prevedesse situazioni estremamente differenziate, da stabilirsi volta per volta a seconda dell'effettivo articolarsi delle carte, richiedeva oltre che una attenta riflessione a livello teorico anche la sicurezza di poter contare su strumenti tecnologici adeguati a rappresentare adeguatamente tali diversità entro uno schema condiviso. In campo archivistico il lavoro di riflessione a livello internazionale sugli elementi che potessero essere considerati denominatore comune, come già era accaduto per le biblioteche, non poteva limitarsi a identificare e definire gli elementi fondamentali delle descrizioni archivistiche, ma doveva essere in grado di fornire anche le irrinunciabili informazioni di contesto [24] .
Il processo di elaborazione di standard di descrizione archivistica ha preso avvio alla fine degli anni Ottanta, per iniziativa del Consiglio Internazionale degli Archivi, che nel 1989 nominò una Commissione ad hoc per gli standard descrittivi. Nel corso della prima metà del decennio successivo, la Commissione mise a punto due documenti fondamentali: l'International Standard of Archival Description (General) (ISAD[G]) [25], che indica i principi fondamentali della descrizione archivistica (che, a differenza di quella catalografica, è sempre a più livelli, in quanto solo se inserita nel suo contesto di produzione la documentazione archivistica trova pieno significato) e l'International Archival Authority Records (Corporate Bodies, Persons, Families) (ISAAR[CPF]) [26] relativo alla creazione di record di autorità dei soggetti produttori di archivi. Approvate ufficialmente in occasione del Congresso degli archivi di Siviglia (2000), le ISAD(G) costituiscono il punto di riferimento per i processi di elaborazione di standard nazionali e ammettono, come del resto anche le ISAAR, una pluralità di forme di organizzazione e di presentazione delle informazioni descrittive, inserite sempre nell'ambito di una descrizione a più livelli (contrariamente, ad es., agli ISBD, che prevedono una griglia fissa in cui inserire i dati): una scelta, questa, dettata dalla natura stessa degli archivi, multilivellare e fortemente gerarchica e nello stesso tempo variabile da fondo a fondo, sia della necessità di rispettare le diverse tradizioni descrittive nazionali. Tali tradizioni, per portare l'esempio dell'Italia, avevano elaborato, per esempio, esperienze di visualizzazione dei dati di livello particolarmente raffinato: basti pensare alla straordinaria sistematicità concettuale della struttura tipografica nelle informazioni pubblicate nella Guida generale degli Archivi di Stato, e nella chiarezza delle scelte redazionali degli inventari stampati da decenni in Italia, cui difficilmente la comunità archivistica italiana avrebbe rinunciato in cambio di standard. Le ISAD(G) si pongono dunque quale standard internazionale di riferimento comune, ma non escludono, anzi prevedono, l'esistenza di specifici standard nazionali. Le ISAAR (la cui seconda edizione è stata approvata al Congresso di Vienna dell'agosto 2004) hanno costituito una vera e propria svolta nella teoria e nella pratica della descrizione archivistica: prima, infatti, in linea con i tradizionali indirizzi metodologici, la descrizione del soggetto produttore era integrata a quella della documentazione archivistica, in virtù dello stretto legame esistente tra fondo archivistico e soggetto produttore, che venivano così costretti entro un rapporto univoco e statico. Aver proposto un modello di descrizione separata e connessa di soggetti produttori ed archivi in grado di dar conto più efficacemente del rapporto complesso e multidimensionale fra fondi e soggetti produttori, significa essere passati a un modello entità-relazioni che non implica solo relazioni tra entità di tipo uno a uno, ma anche molti a molti (ad un fondo archivistico corrispondono più soggetti produttori e viceversa): un modello teorico concettualmente simile è stato proposto nello studio FRBR per l'analisi dei record bibliografici. Non solo, l'aver distinto le due descrizioni ha dato l'opportunità di una condivisione delle schede dei soggetti produttori fra istituzioni archivistiche, in un panorama di condivisione delle informazioni senz'altro favorito dalla diffusione dell'informatica e delle reti.
Il ritardo dello sviluppo dei sistemi informatizzati rispetto alle biblioteche, si è rivelato un vantaggio, in quanto ha favorito la presa di coscienza da parte di tutta la comunità archivistica della necessità di precisare i fondamenti della descrizione prima di attuare processi automatizzati: la riflessione sul principio di provenienza, della tradizione italiana del rispetto del metodo storico, e del concetto di vincolo archivistico hanno trovato un efficace strumento nella descrizione su più livelli (in dimensioni ben diverse da quella, assai semplificata e circoscritta, propria anche della tradizione bibliografica) e ha contribuito a legare la metodologia tradizionale con i nuovi sistemi informatizzati, concepiti non solo come sistemi di descrizione, ma anche e soprattutto come sistemi di comunicazione.
In quest'ottica rappresenta un vero punto di svolta soprattutto la nuova versione delle ISAAR(CPF), che presentano notevoli similarità e convergenze con il controllo di autorità dei nomi degli autori all'interno dei cataloghi di biblioteca: lo standard, infatti, indica solo il modello, il tipo di informazione da dare, mentre il contenuto dell'informazione sarà fissato dalla regole o convenzioni che l'istituzione archivistica responsabile dell'elaborazione del record d'autorità si darà (potrebbero essere per l'Italia, proprio le RICA): anche nel campo delle ISAAR, come in quello trattato dalle ISAD, il lavoro di standardazzione internazionale non si sostituisce, perciò, alla standardizzazione nazionale, che deve avvenire in sintonia e concordemente ai principi generali sviluppati a livello mondiale. È la fine dell'autoreferenzialità dei sistemi archivistici, chiusi e bastanti a se stessi: le tecnologie informatiche e telematiche offrono oggi, infatti, l'opportunità di stabilire legami fra sistemi di descrizione archivistica e risorse di altra natura: bibliografiche, museali, testi e immagini [27]. Gli strumenti per il controllo di autorità dei soggetti produttori si presentano certamente come il terreno più proficuo per realizzare un obiettivo di questo genere: attraverso il medesimo record d'autorità di un determinato personaggio si potrà raggiungere, ad esempio, la descrizione archivistica del fondo da lui prodotto o quella catalografica dei libri di cui è autore [28].
La comunicazione, è già stato detto, è il fine di tutti questi processi; lo sviluppo delle reti, infatti, ha posto in primo piano la dimensione comunicativa come componente non separabile di qualsiasi attività intellettuale; ma bisogna ricordare che le nuove tecnologie informative sono solo degli strumenti per attuare questa nuova dimensione: rimane centrale, oggi come ieri, la strutturazione dei dati descrittivi, quanto in ambiente bibliografico quanto in quello archivistico, come ci insegna quotidianamente la frustrazione di molte ricerche in Internet, troppo spesso imprecise e sporche.
Il quadro fin d'ora delineato dimostra come oggi, dopo un periodo di forte antitesi, il rapporto tra archivi e biblioteche sia evoluto e sensibilmente mutato, fino a rendere possibile una prospettiva di integrazione, almeno sul piano della condivisione delle descrizioni degli oggetti fisici conservati nei due istituti, al fine di raggiungere quella dimensione della comunicazione che è alla base dei servizi agli utenti e ai cittadini. Un contatto più diretto, fisico tra le due "universitates rerum" (per usare ancora una volta il linguaggio classico dell'archivistica italiana, sintetizzato nel famoso saggio di Giorgio Cencetti) si poteva riscontrare già da molto tempo e nelle realtà più disparate: limitandoci solo all'area italiana, sono molte le biblioteche che, come la Biblioteca Nazionale di Firenze [29] o la Trivulziana di Milano, custodiscono nei loro depositi archivi delle più diverse tipologie. Esiste, tuttavia, un vuoto di elaborazione per quanto riguarda la riflessione scritta sul concetto e sulla prassi dell'affidamento degli archivi storici alle biblioteche e i dati disponibili riguardano aree circoscritte, quali, ad esempio, alcune regioni come la Toscana e la Lombardia. Secondo i risultati dell'indagine condotta in Toscana da Archilab [30] nel 1997 sulle forme di gestione degli archivi storici di enti locali, l'affidamento dei documenti archivistici ai bibliotecari si aggira attorno al 30%: è abbastanza probabile che il dato sia esportabile al resto del paese, forse attorno al 20-25% (manca, è il caso di ricordarlo, un'indagine accurata su scala nazionale).
Le ragioni di questo fenomeno vanno ricercate nella dimensione demografica media dei comuni italiani, a cui si lega proporzionalmente la disponibilità di bilancio degli enti: in comuni che arrivano a 5.000 abitanti è impensabile che un archivista sia inserito nell'organico del personale. Nella stragrande maggioranza delle amministrazioni locali, dunque, gli archivi giacciono abbandonati [31], privi delle cure di personale specificamente formato, da un punto di vista professionale, nei casi migliori oggetto di sporadici interventi di inventariazione in outsourcing, ai quali non sempre viene assicurata la dovuta continuità.
Le soluzioni sperimentate per arginare questa tendenza sono sostanzialmente due: la creazione di consorzi e il deposito in biblioteca. Nei primi anni delle politiche regionali in materia archivistica si pensò di stimolare e sostenere la creazione di consorzi archivistici [32] di ambito sovracomunale: questi, tuttavia, non decollarono mai, causa le difficoltà di ordine burocratico insite nella figura giuridica del consorzio [33]. Sulla strada aperta dai consorzi si innestarono le comunità montane, soggetti più flessibili e differenziati, naturalmente votate alla pianificazione e alla gestione di servizi e artefici di politiche culturali miranti alla riqualificazione turistica.
Accanto a questa soluzione, l'alternativa fu ed è rappresentata dal deposito dell'archivio presso la locale biblioteca. Questa possibilità è prevista dalla normativa regionale fin dalle origini: già nella prima legge regionale in materia di biblioteche (legge regionale lombarda del 1973, n. 41) veniva in qualche modo auspicato che gli archivi storici comunali venissero conservati presso le biblioteche comunali, che comunque dovevano possederne gli inventari, disposizione confermata anche dalla legge regionale lombarda del 1985, n. 81. Anche la regione Toscana si mosse in questa direzione: la legge regionale del 3 luglio 1976, n. 33, Norme in materia di biblioteche di enti locali e di interesse locale e di archivi storici affidati ad enti locali, stabilisce che questi ultimi debbano provvedere alla "custodia, all'ordinamento e all'inventariazione dei documenti degli archivi ad essi affidati ai fini della loro migliore conservazione, della loro più ampia conoscenza e del loro pubblico uso" (art. 3) e che "le sezioni di archivio possono trovare collocazione nei locali della biblioteca qualora risulti opportuno allo scopo di agevolarne la consultazione ed assicurarne la conservazione" (art. 10). Più in generale, la prassi dell'affidamento costituisce una scelta di politica amministrativa compiuta da molte regioni e quindi da molti comuni, in quanto spesso indicata dalle soprintendenze agli enti in assenza di opzioni archivisticamente più qualificate. Questa scelta può essere ricondotta a una serie di fattori tipici degli anni Settanta:
Preme sottolineare, alla fine di questa carrellata, che questa "bibliotecarizzazione" degli archivi costituì più una scelta necessaria e obbligata che un'opzione riflettuta e meditata: nella stragrande maggioranza dei comuni italiani era finanziariamente impensabile aprire e gestire un servizio archivistico autonomo (era già difficile mantenere una biblioteca) e la soluzione del deposito in biblioteca poteva essere utile alla conservazione e alla fruizione (si vedrà in seguito in che misura).
E oggi? Oggi le istituzioni culturali si trovano ad operare in un campo del tutto nuovo e soprattutto in rapporto diverso tra loro, come delineato nel cap. 2. Alcuni dei fattori motivanti le scelte degli anni Settanta si basavano su principi teorici e metodologici che vedevano nella biblioteca pubblica più un centro culturale o sociale, che il "centro informativo locale" voluto e previsto dal Manifesto UNESCO: i presupposti ideologici, non già quelli pratici, lungi dall'essere risolti, per il deposito degli archivi in biblioteca sembrano essere venuti meno.
Una, però, delle attività più tipiche e specifiche che fanno capo alle biblioteche da molto tempo è quella della ricerca storica locale: J. H. Shera [34] scrive che "il ruolo tradizionale della biblioteca come parte del sistema di comunicazione è la preservazione e la trasmissione dell'eredità culturale", ruolo divenuto ancora più importante con la crisi del rapporto tra biblioteca e ambiente, conseguenza della moltiplicazione dell'informazione e delle sue fonti. La sezione locale, la raccolta di materiali per lo studio della storia locale, ha lo scopo di "rispecchiare la vita della comunità nei secoli per favorire nella popolazione, soprattutto giovanile, la riappropriazione del passato" [35]. Molto antiche e sviluppate in Gran Bretagna (istituite stabilmente nel 1850 con il Library Act) e negli Stati Uniti (dove, dopo l'assoluta preminenza delle biblioteche di Società storiche private, nel 1876 l'ALA diede impulso alla creazione di sezioni di storia locale nelle biblioteche pubbliche), in Italia la nascita di raccolte di documentazione locale nelle biblioteche si deve all'influenza delle Deputazioni e Società di storia patria nella seconda metà dell'Ottocento, che portò alla creazione di sezioni separate, per lo più di consultazione, nelle raccolte delle grandi biblioteche nazionali e universitarie, che da sempre avevano raccolto questo tipo di materiale senza, però, proporsi una gestione separata.
Ma il luogo deputato della raccolta locale è la biblioteca pubblica, in quanto biblioteca della e per la comunità, per la generalità dei cittadini: solo essa può assolvere alla mission di rispondere alla diversificata domanda di documentazione locale, di portare la storia locale all'attenzione e a disposizione di un'udienza generale più vasta di quella delle biblioteche di conservazione, in quanto si tratta del l'istituzione culturale pubblica più capillarmente diffusa nel territorio. La natura e la forma dei documenti presenti nella raccolta locale sono le più disparate, ma tutti devono presentare due caratteristiche: il legame locale e il valore di testimonianza storico-culturale; questa sezione ha, quindi, una forte connotazione di risorsa multi-mediale, in quanto contiene materiali tradizionali, non librari e speciali. Nella raccolta locale c'è spazio anche per il materiale archivistico? Certamente sì.
Il deposito dell'archivio storico dei comuni nelle biblioteche pubbliche, qualora esistano gli spazi idonei e personale esperto ad esso deputato, rappresenta, dunque, non solo una soluzione funzionale ed economica (come ampiamente riconosciuto dalle leggi regionali degli anni Settanta), ma anche un passo decisivo verso una più completa riappropriazione della memoria storica della comunità, specie se affiancato agli altri archivi storici presenti nel territorio (pubblici e privati). È la stessa raccolta locale nel suo insieme che tende a costruirsi come una serie bibliografica-archivistica idealmente non disgregabile, in quanto sedimentazione di una lunga e continua attività di raccolta, che dà senso al singolo documento solo se messo in relazione all'intero complesso. Bisogna sottolineare, però, che questo accorpamento fisico è auspicabile solo a condizione che il materiale archivistico possa usufruire del trattamento che la sua natura richiede: la presenza di locali adatti e di personale qualificato è requisito fondamentale anche se, purtroppo, in molti casi non facilmente attuabile.
Ma al di là del problema delle risorse, quello che è necessario realizzare è un progetto culturale unitario, un disegno di ricomposizione e sistemazione strumentale delle fonti della storia locale, basato su due elementi portanti: il riconoscimento e la valorizzazione delle specificità dei diversi materiali e l'approntamento di strumenti di descrizione e ricerca in grado di superare i limiti di incomunicabilità tra le diverse specie di beni culturali: in quest'ottica la riflessione sugli standard di descrizione archivistica e bibliografica è fondamentale. Quello che va ricercato è, dunque, non tanto la concentrazione in un solo luogo a tutti i costi, ma un proficuo accordo tra biblioteche e archivi, al fine di mettere in relazione tra loro tutti i documenti che testimoniano la storia della comunità, con gli strumenti descrittivi e le nuove risorse informatiche che si vedranno meglio più avanti.
La compresenza di raccolte bibliografiche e fondi archivistici che si riscontra in molte biblioteche italiane non è quasi mai, come abbiamo visto, conseguenza di una libera scelta, ma quasi sempre frutto dell'impellente necessità di garantire la conservazione e la fruizione [36], almeno a livelli minimali, dei documenti. Si è anche tentato di ripensare questa coabitazione coatta in altri termini, non solo puramente pratici, ma anche metodologicamente e deontologicamente giustificabili; ma prima di approfondire questo aspetto cruciale, è opportuno dare uno sguardo alla realtà delle cose, cioè a come effettivamente sono gestiti i fondi archivistici affidati alle biblioteche.
L'indagine sulla situazione gestionale degli archivi toscani condotta da Archilab nel 1997 ha dimostrato come le biblioteche tendano ad attrarre gli archivi, soprattutto dove il tessuto bibliotecario è più forte e capillarmente diffuso: circa 1/3 degli archivi in Toscana è gestito da bibliotecari (con punte anche del 50% in alcune province come quella di Firenze). Questo studio, però, non ci dice nulla o quasi sulle abilità archivistiche dei bibliotecari cui sono affidati gli archivi, nemmeno quanti di essi possiedono il diploma di una Scuola di archivistica [37]. Da altre indagini [38] si sa, invece, che un buon numero di bibliotecari affidatari di archivi operano come unici addetti all'interno della loro struttura, con mansioni che lasciano ben poco tempo alla gestione degli archivi depositati: è quindi probabile che essi svolgano funzioni di semplice custodia, più che di gestione; non mancano neppure i casi in cui le biblioteche dispongono di risorse umane da dedicare agli archivi, ma molto spesso questi ultimi sono sentiti dal personale e dall'istituzione più come un onere che come una risorsa informativa da valorizzare: una gestione, quindi, nella maggior parte dei casi, sacrificata e occasionale, a cui si dedicano al massimo i ritagli di tempo.
Sul piano della formazione, dagli scarsi dati disponibili emerge che non sono numerosi i bibliotecari muniti del diploma di archivista o che abbiano seguito corsi per archivista di ente locale organizzati su base provinciale dalla Regione o dalla Soprintendenza archivistica: pochi, dunque, hanno nozioni specifiche anche solo per la gestione fisica delle carte, il loro ordinamento e soprattutto per la produzione di strumenti di ricerca. Sul piano della conservazione, invece, le conoscenze sui problemi di umidità, temperatura, e danni al supporto o alla legatura possono considerarsi più facilmente intercambiabili tra le due professioni, anche se permangono evidentemente specificità caratteristiche della documentazione d'archivio in questo settore. Mentre si incontrano più facilmente bibliotecari in grado di leggere e interpretare le scritture antiche, che dimostrano di avere talvolta anche straordinarie competenze diplomatiche e paleografiche (almeno nei casi in cui esista un corpus consistente di manoscritti antichi), si riscontra invece generalmente la mancanza di una specifica formazione archivistica, il ché comporta oggettive difficoltà a gestire l'informazione sulle fonti documentarie. Ne consegue l'incertezza nell'utilizzare gli inventari e le guide e nell' indicare le informazioni contenute nelle serie documentarie presenti in archivio; tutto ciò condiziona la capacità di svolgere consulenza specialistica, traducendo le richieste degli utenti in recupero di documenti, e l'attitudine a promuovere l'uso delle fonti archivistiche per la didattica nell'ambito della scuola: tutte abilità professionali, insieme a una solida preparazione in storia delle istituzioni regionali e locali, che un archivista deve possedere.
Se da una biblioteca dotata di un ricco patrimonio di manoscritti antichi si passa ad una biblioteca di tradizioni storiche minori, nel bagaglio di base di un bibliotecario fanno, più spesso, parte prevalentemente la conoscenza delle regole di catalogazione, della classificazione e la padronanza degli strumenti bibliografici: la maggior parte dei bibliotecari non possiedono, quindi, la preparazione necessaria a garantire un livello minimo di servizio archivistico, anche se questa mancanza di abilità professionale si manifesta in maniera difforme da persona a persona e costituisce una lacuna che può essere in parte colmata con lo studio, l'esperienza e la partecipazione a specifici corsi di formazione. Quello che si vuole evidenziare è che mentre da una parte le Regioni rilanciano l'affidamento degli archivi storici alle biblioteche, dall'altra molto spesso non esiste personale qualificato in grado di valorizzare il materiale depositato.
Occorre, però, considerare anche che i bibliotecari hanno sviluppato (più di tutti gli altri impiegati comunali) abilità nel gestire informazioni bibliografiche e documentarie e sono stati spesso costretti dalla necessità a imparare a redigere con cura atti amministrativi, a realizzare gare per servizi e forniture, ad affidare compiti di riordinamento, spolveratura, restauro, a selezionare i collaboratori esterni, a progettare un piano di valorizzazione e a chiedere, per esso, finanziamenti straordinari, ricorrendo anche a forme di mecenatismo: tutte abilità professionali che, insieme alla disposizione professionale ad ascoltare e soddisfare la esigenze dell'utenza, fanno dei bibliotecari i migliori sostituti degli archivisti nella gestione degli archivi. Restano due grossi limiti che possono compromettere la gestione in senso negativo e che abbiamo già in parte introdotto: da una parte il tempo limitato che i bibliotecari possono dedicare agli archivi (problema connesso al generale disinteresse delle istituzioni verso il campo dei beni culturali, che si traduce inevitabilmente in scarsità di risorse stanziate, sopratutto quelle umane), dall'altra un deficit formativo specifico in campo archivistico, solo apparentemente semplice da colmare, che apre lo spinoso problema della formazione, al quale si è interessato già da tempo il mondo dell'università, promuovendo corsi di laurea in beni culturali a indirizzo archivistico-librario, e che gli Enti locali (Regioni in primis, dato che da loro è partita la pratica dell'affidamento degli archivi alle biblioteche) devono affrontare organizzando corsi di formazione e aggiornamento per bibliotecari professionisti, concentrati sugli aspetti gestionali dei materiali archivistici.
In ogni caso, meglio affidare gli archivi ai bibliotecari che ad altri impiegati comunale (ad eccezione, forse, degli archivisti protocollisti [39]), in quanto garantiscono l'attuazione di alcuni elementi essenziali per la gestione dei fondi archivistici (a patto, naturalmente, che vi sia da parte loro un minimo di interesse e volontà di affrontare il "problema"): innanzitutto il controllo dello stato di conservazione del materiale, strettamente connesso alla consapevolezza del valore dell'archivio come bene culturale (con tutte le sue implicazioni, dalle legali alle socio-culturali) e della sua specificità e differenza rispetto al materiale librario (dal punto di vista gestionale è sbagliato e pericoloso trattare il documento d'archivio come un libro!), poi la consultazione in sicurezza del materiale, compresa la ripresa fotografica e la fotocopiatura. Come si vede, si tratta di compiti essenziali che dovrebbero risultare familiari per un bibliotecario-conservatore; lo studio degli strumenti di ricerca presenti nell'archivio e delle competenze dei suoi soggetti produttori, il completamento del riordino delle carte, la realizzazione di strumenti di corredo, di inventari con descrizioni analitiche e di spogli di serie documentarie di valore strategico per favorire gli utenti sono tutti obiettivi che è auspicabile raggiungere, non solo attraverso le forze del singolo bibliotecario, ma anche grazie all'affidamento in concessione, mediante appalto o incarico, di questi interventi a collaboratori esterni qualificati, magari segnalati dalla Soprintendenza.
Quando si realizzano tutte queste condizioni, l'archivio storico può ritenersi persino avvantaggiato dal fatto di essere collocato all'intero di un sistema formativo e documentario dinamico da cui trarre risorse e ricavare stimoli e pubblico; ma quando gli archivi storici rimangono affidati formalmente alla biblioteca benché siano di fatto abbandonati a se stessi, aperti a una consultazione senza controllo e a continuo rischio di danni irreparabili, allora è molto meglio che non vengano consultati, piuttosto che lo siano in un regime di precaria sicurezza, al di là dell'abitudine del bibliotecario a cercare sempre di far fronte alle esigenze del pubblico. La responsabilità finale è, in ogni caso, competenza dei quadri dirigenziali e politici che hanno affidato alla biblioteca l'archivio: spetta a loro trovare una soluzione quando non vi siano le condizioni per una proficua convivenza tra le due "universitates rerum".
In più punti del nostro discorso abbiamo utilizzato il termine "bibliotecarizzazione" per indicare la presenza di materiale di tipo archivistico in biblioteca e l'assunzione da parte di bibliotecari di compiti e prerogative degli archivisti. Questo fenomeno può essere auspicato o deprecato a seconda dei punti di vista, ma quando presuppone una qualche forma di omologazione tra archivi e biblioteche, che dovrebbe portare ad una fusione istituzionale e ad un utilizzo degli stessi strumenti di standardizzazione e delle stesse metodologie, allora assume un carattere negativo e scientificamente ingiustificato. Come abbiamo visto, infatti, è dalle assodate differenze tra archivi e biblioteche che si deve partire per valorizzare e consolidare un rapporto che già esiste nella prassi, con un arricchimento per entrambe le realtà, specie per quella archivistica.
Se, infatti, la biblioteca locale nelle piccole e medie realtà urbane (in Italia la stragrande maggioranza) si va configurando come un potenziale centro di informazione e documentazione non solo bibliografico, il ruolo degli archivi storici di ente locale appare sempre meno definito: mentre la maggior parte della gente sa cos'è un libro e, in maniera forse un po' più vaga, che cos'è una biblioteca, pochi sanno cos'è un archivio e pochissimi vi sono entrati. Gli archivi storici sono, dunque, istituti fisicamente e culturalmente lontani dal grande pubblico: per questo necessitano di promozione e pubblicità, intese come complesso di strategie che mirino alla valorizzazione allo scopo di allargare il possibile numero di utenti.
La legislazione archivistica nazionale [40] non accenna in nessun modo ad un discorso di promozione e valorizzazione degli archivi, concetto introdotto implicitamente soltanto a partire dal 1975, con l'istituzione del Ministero per i Beni culturali; ma in seguito alla riforma costituzionale del 2001 [41] la valorizzazione dei beni culturali e ambientali è divenuta materia di legislazione concorrente tra Stato e Regione, con ampie funzioni amministrative riconosciute agli enti locali [42], forse gli unici in grado di promuovere e realizzare una politica culturale in cui gli archivi possano svolgere appieno la loro funzione. Bisogna, però, tener presente che la tradizione archivistica italiana è sostanzialmente sfavorevole ad un uso non qualificato del materiale d'archivio. La stessa Amministrazione archivistica centrale ha dimostrato interesse verso la promozione, ma nello stesso tempo la consapevolezza del peso e delle risorse richieste da una politica di apertura indiscriminata verso questo tipo di servizi: valutazioni condivise anche a livello decentrato: un aumento di pubblico si tradurrebbe inevitabilmente ed esclusivamente in un collasso delle strutture di accoglienza e costringerebbe a ripensare ritmi e forme di lavoro già difficilmente sostenibili.
Ma il tema della promozione è di grande attualità e interesse per gli archivi di ente locale, perché costituisce quasi il solo modo per avere visibilità e la certezza di durare nel tempo. È difficile comunicare all'esterno che, a differenza dalle biblioteche, la conservazione degli archivi è un compito obbligato da motivi di carattere amministrativo e giuridico e non deve quindi conquistare un pubblico quantitativamente numeroso per ottenere e giustificare l'erogazione di risorse finanziarie e umane da parte di amministrazioni e dirigenti. Il valore storico che, comunque, la documentazione presenta va posto in evidenza, promosso e aperto alla conoscenza di una comunità locale, ma come funzione aggiuntiva e preziosa, rispetto a quella necessaria legata alla conservazione degli atti pubblici. Al di là di queste motivazioni puramente gestionali, esistono ragioni morali e culturali che rendono la promozione un dovere: gli archivi appartengono all'intera comunità e non solo alle élite acculturate e quindi gli archivisti hanno l'obbligo di renderli facilmente accessibili a tutti, favorendo l'uso delle fonti documentarie a diversi livelli e per diversi scopi. Il concetto di promozione archivistica porta con sé, dunque, il rovesciamento della visione dell'archivio come strumento per pochi ricercatori eruditi ed implica la sua ridefinizione e la riorganizzazione come sussidio culturale tendenzialmente di massa: incentivare l'uso delle carte da parte di nuove tipologie di utenti, accrescere la visibilità del bene archivistico, mirare ad una maggiore attenzione verso l'utente finale, sono tutti obiettivi che, per essere raggiunti, necessitano di un atteggiamento e di un'impostazione nuova del servizio archivistico, al di là di quelle che possono essere esperienze occasionali e sporadiche.
Una promozione veramente efficace, infatti, fa sempre i conti con la gestione pratica e tutti i suoi problemi: solo così si avrà la vera valorizzazione dell'archivio come casa della memoria locale dove si alimenta l'identità collettiva, mantenendo le carte vive, facendole toccare da mani nuove che vanno conquistate, incoraggiate, ma anche opportunamente disciplinate ed educate all'uso dell'archivio. Tale prospettiva, tuttavia, dovrebbe tenere presente anche l'esigenza della conservazione nel tempo di una documentazione che non perde, con l'andare degli anni e dei secoli, anche la sua funzione di carattere amministrativo e probatorio, e il ruolo essenziale di garantire che l'uso da parte di molti non determini perdite irreparabili. Esigenze di promozione e dovere di conservazione possono trovare soluzioni di compromesso attraverso mostre, laboratori didattici, raccolte e uso di facsimili, piuttosto che attraverso un uso massiccio e indiscriminato che abdichi al necessario ruolo di tutela di fonti uniche per loro stessa natura.
Il richiamo al cammino di affrancamento della "public library" dalla concezione tradizionale di biblioteca "librocentrica" per molti risulterà naturale: in questo caso il percorso è più difficile e complicato, perché ogni istituzione archivistica è prima di tutto un istituto conservativo. Ma dai bibliotecari gli archivisti devono saper fare propria la disponibilità a dialogare ed interagire con tutte le possibili tipologie di utenza (studenti di tutti i livelli, giornalisti, cronisti locali, anziani, professionisti vari, scrittori...), rispondendo anche a sollecitazioni e domande di tipo non tradizionale (come sono abituati a fare i bibliotecari che gestiscono i servizi di reference); dalla biblioteca si possono desumere elementi utili per la riorganizzazione dell'archivio in funzione del suo uso da parte di un pubblico tendenzialmente ampio.
La forma di promozione dell'archivio storico più efficace (perché legata alla natura stessa dell'archivio) è senza dubbio il rafforzamento del legame tra esso e la memoria storica collettiva, che si attua stimolando la ricerca storiografica a tutti i livelli e mettendo a disposizione della più ampia utenza la documentazione conservata. Attivare incarichi di studi su argomenti locali, pubblicare lavori di ricerca che abbiano utilizzato le carte dell'archivio, organizzare conferenze, giornate di studio, convegni su eventi, temi e figure locali sono tutti modi per proiettarsi verso l'esterno e valorizzare i propri fondi documentari. La collaborazione con gli altri istituti culturali locali (prima fra tutti la biblioteca, ma anche accademie, università...) è fondamentale per fare dell'archivio il centro di animazione dell'identità collettiva locale.
Particolarmente strategico risulta l'incontro con il mondo della scuola: per certi aspetti, solo se gli archivi storici diventeranno (analogamente a quanto è accaduto e accade con le biblioteche pubbliche [43]) dei sussidi per la didattica (in particolare per la didattica della storia) incontreranno un pubblico di massa e, forse, attraverso successivi passaggi, si trasformeranno in un servizio pubblico, come è successo per le biblioteche. È una sfida ricca di pericoli: da una parte saper arginare il rischio di snaturamento dell'archivio come istituto culturale (ancora una volta: un registro, una filza, una pergamena non sono paragonabili ad una novità di narrativa!), dall'altra essere preparati all'invasione del pubblico che finora è mancato, organizzando una consulenza specifica, moderna e capace di interagire in modo semplice con la nuova utenza. L'occasione è troppo ghiotta per lasciarsela scappare: si tratta di aumentare la visibilità dell'archivio per motivare gli amministratori ad investire per migliorare la gestione e conservazione delle carte.
Più delicato è il discorso delle mostre documentarie aventi per oggetto temi, avvenimenti e biografie intrecciate con la storia locale: solo se concepite con intelligenza ed elaborate da professionisti, calibrate su un pubblico ben individuato, possono costituire un valido momento di promozione dell'archivio, evitando che vengano organizzate per motivi politici dalle amministrazioni locali e vissute come un'imposizione, e non come un momento di valorizzazione, dall'archivista (o bibliotecario) coinvolto, con il risultato finale di esposizioni disorganiche, pesanti da vedere e che attirano poco pubblico. Molte altre possono essere le forme di promozione (pubblicazioni di fonti, produzione di bollettini informativi periodici sull'attività svolta, incoraggiamento delle ricerche genealogiche, raccolta di nuovi fondi archivistici legati al territorio e alla sua storia), ma forse quello che più interessa è che gli archivisti acquisiscano un atteggiamento nuovo verso l'utente, che non potrà più essere solo lo studioso abituato a consultare le carte, ma inevitabilmente sarò sempre più simile a quello che si presenta al bancone del servizio di reference di una biblioteca.
Proprio nell'ambiente bibliotecario da un po' di tempo si parla e si realizzano forme di promozione "spinte": l'esperienza più importante è quella delle "Biblioteche fuori di sé" [44], un'etichetta sotto la quale si riconoscono alcune biblioteche pubbliche di base che in diverse regioni italiane realizzano in via continuativa forme di esportazione della lettura fuori dalle proprie mura, andando a "catturare" i potenziali lettori in luoghi della città dei quali hanno sperimentato una inedita vocazione a punti di lettura e prestito (discoteche, stazioni, piscine, parchi..). Tutto ciò come conseguenza della presa di coscienza da parte dei bibliotecari dell'impossibilità di limitarsi a fornire un servizio qualificato e puntuale a coloro che già sono utenti, ma della necessità di agire per promuovere la pratica della lettura anche fra coloro che non sono ancora o non sono più abituati a leggere, in virtù del principio dell'uguaglianza di opportunità nell'accesso all'informazione e alla cultura.
Tali iniziative possono essere rilanciate sul fronte degli archivi? L'obiettivo che si vuole raggiungere è il medesimo: non semplicemente conquistare nuovo pubblico, ma adeguare l'organizzazione del servizio alle esigenze degli utenti reali e potenziali dell'intera comunità locale, perché sia la biblioteca che l'archivio sono beni della collettività. Diversi devono essere i modi: prima di parlare di "archivi fuori di sé" è necessario considerare che la maggioranza di essi non è neppure "in sé", ben lontani da potersi definire veri servizi, privati di personale e strumentazioni adeguate: in questa situazione la promozione dei patrimoni archivistici non può essere concepita come un fatto solitario ed interno ad ogni altro istituto, bensì come un evento collettivo, che coinvolga più soggetti e affidi un ruolo di coordinamento ed apporto scientifico a Soprintendenze, Archivi di Stato e archivi di comuni più grandi. Solo acquisendo un'attitudine a lavorare insieme, a cooperare in una dimensione collettiva si può veramente realizzare una strategia integrata e continuativa di promozione e valorizzazione: guardare alle biblioteche e alla loro lunga esperienza di cooperazione rappresenta un buon punto di partenza.
Quindi, al di là dell'ampia casistica di fondi archivistici affidati a biblioteche di cui abbiamo finora discusso, un processo di "bibliotecarizzazione" degli archivi in parte è già in atto e deve essere incoraggiato in tutti gli istituti, per la necessità di questi ultimi di rilanciare il loro ruolo all'interno della società: si tratta di un processo delicato e non privo di rischi, ma se tenuto adeguatamente sotto controllo non potrà che portare nuova linfa.
Il tradizionale rapporto di antitesi tra archivi e biblioteche ha subito negli ultimi decenni una scossa molto forte, dovuta sia allo sviluppo delle tecnologie informatiche, che ha portato sempre più ad accostare spontaneamente descrizioni bibliografiche ed archivistiche, sia a forme di collaborazione e coabitazione delle due istituzioni, che sempre più spesso, per i motivi cha abbiamo visto, si ritrovano a condividere risorse e strutture. Parlare di pura necessità e obbligo dettati dalla carenza di personale e finanziamenti per giustificare l'affidamento degli archivi storici alle biblioteche può sembrare riduttivo oltre che fatalistico. Questo è solo uno dei motivi, certamente il più pragmatico e per questo molto rilevante; per quanto determinante, infatti, se non è accompagnata da motivazioni scientificamente e metodologicamente coerenti la sola mancanza di risorse non può giustificare pratiche che non solo rappresentano un disservizio per l'utente, ma anche sono potenzialmente dannose per oggetti che, non lo si dimentichi, sono beni culturali, cioè testimonianze materiali aventi valore di civiltà.
È giusto, quindi, cedere alle attrattive di una contaminazione metodologica tra archivi e biblioteche, con il rischio che si trasformi in appiattimento, in nome della diffusione dell'informazione che il nuovo spazio telematico sembra aver fatto diventare un must? Riesaminare le categorie concettuali su cui è stata tradizionalmente fondata la separazione tra i due ambiti disciplinari può aiutare a rispondere a questo interrogativo.
Come abbiamo già visto nel capitolo 1, l'opposizione genetica e concettuale fra gli archivi e le biblioteche si basa su alcune coppie di concetti opposti: vincolo/autonomia, spontaneità/intenzionalità, necessarietà/volontarietà. Ebbene la fondatezza di queste contrapposizioni oggi non appare più così scontata: oltre alla presenza, in entrambe le realtà, dei cosiddetti materiali di confine [45], cresce in tutte le discipline preposte alla conservazione e allo studio dei beni culturali (e quindi in primis nelle biblioteche) l'attenzione verso le dinamiche di formazione di collezioni e raccolte, ai loro caratteri costitutivi, ai loro significati culturali, fino a diventare tratto cruciale e distintivo di progetti conservativi tesi a salvaguardare e valorizzare l'unità dei fondi (librari e non) e talvolta a ricostruirla, per offrire testimonianza tangibile dei gusti e delle inclinazioni di un'epoca e per tramandare ai posteri non solo i singoli oggetti materiali, ma anche chiara memoria delle relazioni cha hanno intrattenuto tra di loro e con gli uomini e le istituzioni che li hanno posseduti: a tutti gli effetti, una riproposizione dei concetti di "vincolo" e di "contesto" che cessano di essere prerogativa esclusiva degli archivi.
Se un vincolo, dunque, esiste in entrambe le realtà, quello archivistico, si potrebbe obiettare, ha carattere ben diverso da quello intenzionale e volontario che lega le unità di un raccolta bibliografica. Ma anche la presunta oggettività e necessarietà del vincolo archivistico, creato dal naturale processo di sedimentazione delle carte, è oggi messa fortemente in crisi da un approccio nuovo allo studio dell'organizzazione dei fondi archivistici nel corso della loro storia. Secondo questa nuova visone, i caratteri estrinseci dell'archivio, la sua struttura formale, i suo vuoti e i suoi pieni portano impressi i segni di processi di diversa natura (smembramenti, spurghi, dispersioni ...) che lo hanno condotto fino a noi, rivelandosi preziosa fonte storica, mentre nell'archivio, vero e proprio documento/monumento che più che rispecchiare passivamente contribuisce a costruire l'immagine del passato, si è cominciato a leggere "lo sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro -- volenti o nolenti -- quella data immagine di se stesse" [46]. Anche l'emanazione di leggi come quella sulla cosiddetta trasparenza da un lato, e quella sulla privacy dall'altro, costituiscono sì il riconoscimento al cittadino-utente di sacrosanti diritti, ma stanno mutando profondamente la prassi della tenuta degli archivi e influiranno sicuramente sulla loro trasmissione ai posteri, anche se non sappiamo ancora in quale misura.
Il vincolo, dunque, perde molta della portata ontologica che gli attribuiva Cencetti, per divenire una categoria di analisi a posteriori (e quindi non naturale e spontanea) della struttura storicamente determinata degli archivi, un concreto espediente tecnico di organizzazione delle carte non troppo lontano da quello, forse più sfumato, che lega tra loro i libri di una biblioteca o gli oggetti di una collezione.
Non per questo esso perde di importanza: attraverso il vincolo, infatti, è possibile stabilire una forma di comunicazione con i contesti politici, culturali, istituzionali all'interno dei quali archivi, biblioteche e musei sono nati e si sono tramandati ai posteri; rappresenta, dunque, una fonte storica di primaria importanza, una sorta di metadato ante litteram.
Tutto questo rappresenta il presupposto per una permeabilità reciproca tra archivi e biblioteche, terreno d'incontro per sviluppare progetti conservativi comuni, focalizzati su materiali e ambiti particolari, in primis quello della storia locale. Infatti, le affinità e l'attrazione reciproca tra l'archivio storico comunale e le sezioni di storia locale della biblioteca pubblica, soprattutto in centri di piccola e media grandezza, sono, come abbiamo visto, molto forti e laddove non esista una sistemazione ad hoc per l'archivio, il suo deposito in biblioteca, oltre ad essere comodo per lo studioso, è metodologicamente giustificato dalla volontà di realizzare centri di documentazione per le ricerche storiche territoriali.
Con gli anni Settanta si è assistito alla ripresa degli studi storici locali secondo le motivazioni analizzate da Momigliano e Violante e dagli studiosi che furono influenzati da Chabod e dalle "Annales" [47]. Oggi che è stata superata la dicotomia tra storia generale e storia locale e quest'ultima ha assunto una dignità diversa dalla semplice erudizione, liberandosi anche di quella patina di campanilismo che orientava molte ricerche, nuove tipologie di ricercatori si avvicinano allo studio del passato del territorio. Il ritorno al culto delle origini in conseguenza alla fine dell'epoche delle ideologie politiche, ha favorito la riscoperta della dimensione tradizionale locale: in quest'ottica, ogni archivio storico ha un rapporto privilegiato con la storia, la memoria e le tradizioni locali; esso è in grado di dare al localismo fonte preziosa di identità, radici culturali dotate di qualità e di spessore storico. I fondi dell'archivio storico comunale, le raccolte librarie delle famiglie più importanti della città, gli archivi di personaggi illustri del passato, di associazioni pubbliche e private insieme con la variegata tipologia di materiali minori (manifesti, fotografie, cartoline ...), oltre a tutte le pubblicazioni di autori o di argomento locali, sono indispensabili per formare il ritratto più completo possibile delle varie problematiche della storia del territorio. Rafforzare stabilmente le relazioni tra le fonti per la storia locale e la memoria storica significa fare delle biblioteche e degli archivi luoghi di stimolo, promozione e valutazione della ricerca storica locale; non solo, l'azione non si deve fermare all'erudito e allo studioso, ma deve coinvolgere l'intera collettività, favorendo la riscoperta della propria identità storica, prima fra tutti tra i giovani e gli studenti.
Ecco, dunque, che se per una serie di fattori nella biblioteca pubblica vengono a concentrarsi nel corso degli anni tutta una serie di fonti documentarie di diversa natura, ma tutte accomunate dal fatto di essere testimonianza della storia locale, qualora la biblioteca rappresenti l'unica istituzione culturale del territorio (ragion per cui è facile anche capire perché materiali così disparati vi sono stati depositati), allora questa situazione non solo rappresenta l'unica alternativa possibile alla non consultabilità di porzioni rilevanti del nostro patrimonio culturale, ma anche costituisce per la biblioteca pubblica un'occasione importante per adempiere a una sua fondamentale mission, cioè raccogliere l'informazione locale e renderla prontamente disponibile, agendo come memoria del passato, in virtù del suo ruolo di agenzia chiave nella comunità locale per la raccolta, la conservazione e la promozione della cultura locale [48].
Alcuni hanno pensato, suggestivamente, a una sede comune, una vera "casa della memoria" che possa accogliere insieme archivio, biblioteca, museo e dove si può ritrovare l'identità storica della comunità. Esempi di questi luoghi esistono, basti pensare al Museo biblioteca archivio di Bassano del Grappa, istituito nel 1840 e da allora punto di riferimento della ricerca storica locale (divenendo anche editore di una collana dal titolo "Quaderni bassanesi"). Oltre ad esporre opera d'arte, nello stesso contenitore sono conservate fonti manoscritte e a stampa, letterarie ed archivistiche: non è possibile pensare il Museo senza la Biblioteca e senza l'Archivio e viceversa, le tre unità costituiscono un unicum.
Realtà simile è la Biblioteca civica di Rovereto che, oltre a conservare da tempo i più importanti archivi storici della comunità, si è recentemente ampliata andando a collegarsi fino a fondersi, non solo idealmente, con il nuovo polo museale che fa capo al MART.
Il tratto comune di queste esperienze (alle quali si può aggiungere anche quella della Biblioteca civica di Schio di cui si parlerà più avanti) è la spontaneità: non si è cercato forzatamente di creare ad hoc concentrazioni di patrimoni documentari e librari che, alla fine, si sarebbe rivelati incoerenti e disorganici, ma si è tentato di valorizzare, mettendo in evidenza le loro reciproche relazioni, materiali diversi presenti in biblioteca per donazioni e depositi verificatisi nel corso della storia dell'istituzione in modo magari del tutto occasionale e spontaneo, senza una precisa volontà, ma che sono finiti col divenire parte integrante ed attiva del sistema informativo locale. Non si tratta, dunque, di strappare agli archivi filze e registri per depositarli in biblioteca o viceversa recuperare tutti i materiali originariamente facenti parte di archivi pubblici e privati finiti per alterne vicende nelle tante biblioteche italiane [49]. Non a caso abbiamo parlato sempre di biblioteche pubbliche di centri medio-piccoli (dove quasi sempre manca l'Archivio), mentre nei grandi centri dove esistono biblioteche di conservazione e istituzioni archivistiche forme di concentrazione di materiali tipologicamente differenti appaiono molto discutibili. In questi casi sarà opportuno attivare altre forme di collaborazione, come vedremo nel capitolo 7. In ogni caso, è opportuno evitare di costruire servizi a tavolino, inseguendo la filosofia del "just in time", che alla fine non offrirebbero all'utente un servizio migliore, in quanto si stravolgerebbe tutto quell'insieme di informazioni di cui è veicolo il vincolo archivistico [50].
Riassumendo, è nella sezione locale della biblioteca pubblica di realtà medio-piccola che archivio e biblioteca trovano il loro terreno di incontro funzionale alla ricerca storica locale, laddove non esistano istituzioni archivistiche deputate alla conservazione di questo materiale. La conoscenza delle metodologie specifiche della disciplina rimane fondamentale per una corretta gestione, in quanto, nonostante le analogie messe in evidenza, restano sostanzialmente divergenti le filosofie di descrizione e il modo di percepire gli oggetti stessi del proprio lavoro: per i bibliotecari la singola entità in se conclusa, per l'archivista l'entità all'interno del contesto. La permeabilità reciproca di metodologie e prassi descrittiva risulterà utilissima per il trattamento di quei materiali minori o di confine fondamentali per la storia locale, per i quali un approccio di tipo archivistico (focalizzando, cioè, le relazioni che esistono tra aggregazioni di materiali) risulterà più efficace di uno strettamente catalografico.
Dunque, quella della "casa della memoria" è un'idea affascinante e pericolosa al tempo stesso, perché, fatte salve alcune felici eccezioni, c'è il rischio concreto di un appiattimento in nome di una politica culturale spesso di facciata [51] Lo spazio virtuale può, invece, costituire il terreno su cui gettare le fondamenta di questa casa della memoria, come vedremo nel capitolo 7.
Finora abbiamo parlato di forme di contatto "spinto" tra archivi e biblioteca, fisicamente affiancati nel medesimo istituto e gestiti dal medesimo personale. Abbiamo anche giustificato metodologicamente questo contatto, pur con le dovute precisazioni e limitazioni, in relazione al ruolo di supporto per la ricerca storica locale delle istituzioni culturali archivistiche e bibliotecarie.
Già nel capitolo due, nell'introdurre gli standard di descrizione bibliografica e archivistica, si erano ampiamente evidenziati i possibili punti di contatto tra le due realtà. L'enorme sviluppo delle tecnologie informatiche e digitali, come si è già ricordato, ha investito fin da subito (in realtà i bibliotecari prima degli archivisti) il mondo della documentazione, arrivando a produrre e diffondere strumenti di ricerca informatizzati, semplici nell'utilizzo ma raffinati nella struttura e nelle funzionalità. Tanto progresso ha alimentato in molti il sogno di uno strumento di ricerca nuovo, capace di creare una "rete di connessioni fra i documenti e le risorse referenziali, permettendo di integrare le conoscenze e di ricostruire i nessi tra entità documentarie disperse" [52]. Un sistema informativo culturale dall'utilizzo elementare ma dalle potenzialità infinite, che consentirebbe l'interoperabilità fra sistemi cognitivi realizzati secondo procedure specifiche e sulla base delle diverse tradizioni disciplinari. Un sogno che ricorda il progetto Xanadu di Theodor Holm Nelson, rete capillare di calcolatori che avrebbe consentito di ospitare tutto il docuverso rendendolo immediatamente e facilmente disponibile a tutti. Un luogo magico della memoria. In realtà si tratta di chimere alimentate periodicamente dal falso mito dell'onnipotenza della comunicazione digitale [53], posizioni che, pur avendo "una connotazione progressista, impediscono di fatto il progresso" (Gorman, 2000).
La questione non è, infatti, come molti si ostinano a credere, esclusivamente tecnologica, ma è soprattutto culturale: la vera barriera alla realizzazione dell' integrazione fra risorse documentarie è costituita dalle specifiche metodologie con cui nel corso del tempo si è cercato di rendere possibile l'accesso di queste stesse risorse, ognuna nel suo ambito disciplinare. In presenza di oggetti dalle caratteristiche tanta intrinsecamente differenti, gli specialisti hanno privilegiato l'efficacia di un sistema impostato su modelli descrittivi specificatamente definiti, rispetto alle opportunità offerte da uno strumento fondato su un modello descrittivo omogeneo, ma non in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni informativi reali.
I punti di riferimento per ogni cooperazione digitale devono essere l'uso e gli utilizzatori: l'attenzione deve essere focalizzata sull'accesso, sui servizi all'utente, non sulle procedure interne come la descrizione. Gli oggetti conservati nelle biblioteche, negli archivi, nei musei hanno in comune il loro valore culturale, ma la loro differenza sostanziale è la ragione per la quale sono stati creati: "an apple is not an orange is not a banana" (Peter Horsman, 2001), si tratta sempre di frutta, ma per essere apprezzata appieno deve essere esaltata dal suo contesto specifico.
Ampia premessa per chiarire fin da subito che uno standard comune di descrizione per archivi, musei e biblioteche è né raggiungibile né desiderabile mentre, al contrario, quello che va ricercato è la cooperazione in nome dell'informazione.
A che punto è, dunque, l'integrazione di risorse documentarie? L'evoluzione delle reti telematiche non ha fatto che accentuare l'esigenza di integrazione già sentita in una fase molto precedente, conseguente alla grande diffusione che le conoscenze e l'informazione hanno avuto negli ultimi cinquant'anni. Lo sviluppo degli OPAC, di standard de facto come il MARC e di protocolli di scambio come Z39.50 ha reso possibile una diffusa interoperabilità in campo bibliotecario, con ricadute profonde anche sulla prassi della catalogazione. Le biblioteche, dunque, hanno saputo, chi più chi meno, sfruttare le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, integrandosi tra loro a livelli diversi in nome della cooperazione. E gli archivi? A che punto è il loro processo di integrazione? Dall'analisi della situazione italiana emerge un grande fervore di iniziative, caratterizzate, però, da un'assoluta varietà di sistemi e programmi adottati , non sempre tra loro compatibili. È importante sottolineare che, a differenza delle biblioteche, per gli archivi non è così altrettanto sviluppata la pratica di informatizzazione delle fonti: le ragioni del ritardo sono molteplici, a cominciare dalla tradizionale autoreferenzialità e chiusura del mondo archivistico italiano, favorita anche dall'assenza di una "politica nazionale che avrebbe dovuto guidare e incoraggiare l'innovazione e la sperimentazione e che, invece, per un lungo periodo iniziale ha imposto modelli centralizzati privi di consenso e per una successiva fase si è limitata, per reazione, ad assistere all'anarchie di iniziative e progetti". [54]
Il disegno di informatizzazione del settore archivi, infatti, se attuato porterebbe ad innegabili vantaggi: l'automazione organica dell'archivio dalla sua genesi alla sua conservazione a fini storici (conciliando ragioni amministrative e ricerca storica), la gestione unitaria delle funzioni provinciali di vigilanza e valorizzazione, il coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionali del settore archivistico e la cooperazione con altri universi culturali.
Come per le biblioteche, l'informatica applicata agli archivi può dare luogo a tre diverse tipologie di servizi all'utente:
Concentriamoci sopratutto sulle ultime due casistiche: se si considerano gli strumenti di corredo (inventari, indici...) appare evidente il ritardo rispetto alle biblioteche. Mentre la catalogazione informatizzata è una realtà consolidata e gli standard di descrizione bibliografica ampiamente condivisi a livello internazionale, l'adozione delle ISAD(G) e delle ISAAR(CPF), prerequisito a un lavoro di inventariazione informatizzata che non sia funzionale al solo istituto che lo promuove, non è così scontata. Il problema cruciale non è, dunque, la mera ricopiatura del contenuto di un inventario in database, ma riguarda il come restituire, insieme al contenuto, anche il corollario delle "informazioni di contesto", centrali anche in ambiente elettronico. L'inventario, infatti, è esso stesso fonte documentaria e come tale va trattato. Si capisce, quindi, la profondità dell'analisi che ha portato all'elaborazione delle ISAD, capaci di rappresentare la struttura gerarchica dei fondi, di gestire una gerarchia di livelli descrittivi e di restituire la più ampia rete di riferimenti e informazioni, al fine di una vera valorizzazione del posseduto di ogni istituto. Se pensiamo, poi, alla messa in linea di questi strumenti di ricerca, si può immaginare in quale misura questo fenomeno stia rivoluzionando il rapporto tra archivista e utente: l'abitudine più generale alla ricerca in Internet ha generato e sta generando un tipo di frequentatore diverso dallo studioso tradizionale, più differenziato e stimolato da interessi diversificati e non sempre specifici [55].
Esistono molti esempi di archivi che hanno reso disponibili on line gli strumenti di corredo della loro sala di studio (ad es., la già ricordata Guida on line dell'Archivio di Stato di Firenze); in tutti questi casi si sono dovuti affrontare, oltre alla questione degli standard e del rispetto delle tradizione descrittiva, anche difficoltà tecnologiche, che diventarono centrali quando si iniziarono ad elaborare reti allargate di sistemi informativi, capaci di valorizzare le complementarietà dei singoli istituti, insiemi ideali ai quali ricondurre gli strumenti e le banche dati elaborati autonomamente. La volontà di condividere le descrizioni archivistiche ha reso necessario l'individuazione di un metamodello di dati che permettesse di prescindere dalle diversità tecnico-descrittive e mettesse l'accento sugli elementi comuni delle diverse descrizioni ai fini della comunicazione. Grazie all'impiego della tecnologia SGML, si sono sviluppati linguaggi di marcatura come quello EAD [56] che permettono l'individuazione in un testo di elementi puramente semantici, distinti da quelli formali. In questo modo è possibile, utilizzando come metamodello le norme ISAD(G), interrogare basi di dati eterogenee di descrizioni archivistiche e avere in risposta documenti in formato EAD visualizzabili da Web browsers XML compatibili. Questo significa svincolare le descrizioni archivistiche dalla tecnologia specifica e dal sistema di gestione di base di dati utilizzato per produrle e memorizzarle, in pratica aver elaborato il corrispettivo archivistico del protocollo Z39.50.
Ma nella realizzazione di un sistema informativo allargato, le domande a cui rispondere sono molteplici e solo alcune di natura puramente tecnologica (condivisione e scambio dei dati): quali dati, quali livelli descrittivi condividere? Il sistema deve essere accentrato o decentrato? La progettazione iniziale risulta, quindi, essere il momento cruciale per la definizione di un modello adeguato, tecnologicamente aperto e flessibile: tutte qualità che si possono ottenere solo a partire da un progetto culturale preciso. La difficoltà più grande, infatti, è quella che deriva dalla naturale fluidità delle informazioni che l'ambiente digitale rende disponibili: perché si mantenga la struttura informativa e si garantisca un controllo significativo dei dati messi on line, senza che si verifichi un abbassamento del loro livello culturale, è necessario, ancora una volta, puntare l'attenzione sugli standard di tipo concettuale e non solo su quelli di formato e di tracciato, per definire gli elementi delle descrizioni, la loro combinazione e formalizzazione.
Grazie alle potenzialità del World Wide Web è possibile connettere sistemi informativi distinti, gestiti da soggetti diversi, permettendo la creazione di uno spazio comune condiviso, grazie al quale scambiarsi i dati continuando a sviluppare sistemi personalizzati. Il livello di integrazione delle risorse archivistiche che si può attuare in questo spazio comune è molto vario; molto spesso esse sono semplicemente accostate e raggruppate per ambiti geografici ed istituzionali, costituendo ugualmente un servizio molto utile per l'utente finale. Non è detto, infatti, che la soluzione migliore sia sempre e comunque la massima integrazione tra sistemi, specialmente se ci si pone nell'ottica della qualità del contenuto e della modalità di fruizione. Nel campo delle informazioni catalografiche, l'integrazione massima è resa possibile dalla maggiore uniformità delle unità documentarie, ma in campo archivistico è molto più forte il rischio di un appiattimento della ricerca data da un'eccessiva cumulazione di dati. Anche sulla base di queste considerazioni si è mosso il Progetto Archivi -- Sistema archivistico Nazionale, che ha creato il sito dell'Amministrazione archivistica [57] finalizzato alla comunicazione sui servizi offerti, inserendo elementi semplici ed essenziali per rintracciare ogni istituto, con l'obiettivo di raggiungere l'omogeneità del sistema nel rispetto dell'autonomia degli istituti [58]. Al contrario, la volontà di condividere un numero eccessivo di dati attraverso un'architettura centralizzata ha costituito il motivo principale dell'insuccesso del progetto Anagrafe [59] (Vitali, 1998), dimostrando la necessità di riflettere concretamente sulla qualità e tipologia di dati che vale la pena di condividere all'interno di sistemi archivistici pluristituzionali. Il piano di recupero dei dati acquisiti con Anagrafe, il progetto SIUSA [60], sta facendo sue queste considerazioni.
E veniamo all'ultimo punto del nostro discorso, l'integrazione con altre banche dati culturali. Siamo già stati abbastanza categorici sulla pericolosità e inutilità della definizione di uno standard descrittivo comune per tutti i beni culturali. Questo non significa escludere la cooperazione tra realtà diverse: quelli che vanno evitati sono i rischi di dispersione, frammentazione, ridondanza che derivano da un allargamento indiscriminato dei percorsi di ricerca, in nome di un falso principio di universalità della conoscenza. Il progetto culturale d'insieme è fondamentale quando si costruisce un mosaico di tessere differenti.
Come avevamo già accennato nel capitolo 2, il controllo delle forme di autorità può costituire un punto di contaminazione metodologica tra descrizione archivistica e catalografica che le nuove tecnologie sembrano incoraggiare. In questo modo, le liste di autorità, considerate finora di rilevanza esclusivamente tecnica, si potrebbero trasformare in veicoli di diffusione di più ricchi contenuti culturali: così prevedono le ISAAR e sembra suggerire anche lo studio FRBR. Il fine è cercare di immaginare percorsi trasversali "per navigare, più che pescare" (Vitali, 1997) tra le diverse banche dati, stimolando ricerche che consentano un accesso non puntuale e circoscritto all'informazione, ma ampio e dinamico: una sorta di serendipità telematica, un grande scaffale aperto perché, è innegabile, uno dei metodi di ricerca più formidabili è la casualità. Poco credibili, quindi, appaiono progetti che si propongono di cumulare automaticamente e meccanicamente cataloghi di biblioteca e inventari archivistici. Lo sviluppo di tali sistemi informativi, infatti, presupporrebbe alcuni requisiti quali l'interoperabilità tecnica (formati di scambio e rappresentazione), semantica (dispositivi logici che stipulino corrispondenze fra i termini dei vari ambienti disciplinari) e multidisciplinare, la più difficile da ottenere. Più fattibile e metodologicamente più giustificabile è l'interazione fra informazioni prodotte autonomamente all'interno delle diverse istituzioni, secondo le metodologie delle rispettive discipline e i requisiti dei propri sistemi descrittivi, a partire da un baricentro comune (ad es. la storia locale) attorno al quale costruire strumenti che orientino percorsi di ricerca trans-disciplinari. Un tipo di strutturazione -- tramite interfacce, percorsi di ricerca tematici -- che non imponga livelli di integrazione troppo strutturati a soggetti fondamentalmente diversi. Un progetto di cooperazione, dunque, tutto orientato al servizio all'utente nel rispetto delle specificità. Anche senza essere sotto lo stesso tetto, archivi e biblioteche possono essere virtualmente molto vicini.
A conclusione, alcuni esempi di strumenti di ricerca on line:
Per dare concretezza a quanto detto finora, si è pensato di presentare un caso concreto di archivi che diventano parte integrante ed attiva del sistema informativo locale costituito dalla biblioteca pubblica. La scelta è caduta su Schio perché è la realtà che chi scrive conosce meglio, avendo avuto non solo l'opportunità di svolgervi dei tirocini formativi, ma anche l'incarico da parte dell'Amministrazione comunale di riordinare e inventariare uno degli archivi in essa depositato [61].
La Biblioteca civica "Renato Bortoli" di Schio, istituita nel 1953, ha dal 1988 la sua sede nel complesso di edifici storici ristrutturati composti dall'antico "Ospedale Baratto", edificato nel 1611, e dalle ex carceri mandamentali di epoca austriaca. Opera in una comunità di 38.500 abitanti; le raccolte documentarie ammontano a circa 120.000 unità librarie (di cui 25.000 a scaffale aperto e 12.000 nella sezione bambini e ragazzi), 300 titoli di periodici correnti e 2.000 di materiale multimediale. Nel 2003 i prestiti sono stati 92.387 e mediamente sono entrate in biblioteca 776 persone al giorno.
Dal momento della sua istituzione, iniziò a coltivare con particolare attenzione la sezione locale, raccogliendo tutte le pubblicazioni di autore/argomento non solo scledense, ma anche riguardante l'Alto vicentino in genere, in quanto fino agli anni Settanta rimase l'unica biblioteca della zona, appoggiandosi anche metodologicamente alla ben più antica Bertoliana di Vicenza. Fu forse l'influenza di un istituto di conservazione così autorevole che favorì, da una lato la perseveranza di alcuni bibliotecari nel ricercare tasselli importanti per la storia di Schio, dall'altro la munificenza di alcune famiglie notabili nel donare le loro collezioni; sta di fatto che confluì in biblioteca non solo materiale librario (tutto catalogato, anche se molto ancora a catalogo cartaceo), tra cui la biblioteca di Lodovico e Valentino Pasini [62], ma anche quello che precedentemente abbiamo definito materiale minore (opuscoli, fogli volanti, cartoline, fotografie ...[63]), che continua a rivelarsi fonte preziosa di informazione, e soprattutto fonti archivistiche. Oggi con circa 288 metri lineari di carte la presenza di materiale archivistico all'interno del patrimonio della biblioteca non è più trascurabile; nel corso di 50 anni di storia, infatti, i versamenti si sono susseguiti, specie dopo il trasferimento nella nuova sede e la conseguente disponibilità di nuovi spazi, fino ad arrivare agli attuali 26 archivi storici conservati [64]. Ne ricordiamo i più importanti:
Molti altri sono gli archivi conservati, alcuni di enti pubblici soppressi (Archivi degli ex Comuni di Magrè e Monte Magrè), altri di aziende, come l'archivio del Lanificio Rossi (di cui si conserva in biblioteca la documentazione ottocentesca in fotocopia [67]), altri ancora di singole personalità, come quello dell'architetto Negrin, autore della nuova Schio di Alessandro Rossi. Come si vede, dunque, un patrimonio ricchissimo, all'interno del quale ogni singolo documento costituisce fonte primaria per ricostruire la storia della comunità.
Le ragioni di una così massiccia presenza di materiale archivistico in una biblioteca pubblica sono molteplici: da un lato il fatto di essere l'istituzione culturale maggiore del territorio (non esistono istituzioni archivistiche in zona, se non l'Archivio di Stato di Vicenza), la disponibilità di spazio, almeno negli anni immediatamente successivi al trasloco nella nuova sede, e quindi la possibilità di accogliere tutti questi fondi, ma soprattutto la volontà di un preciso disegno culturale teso a raccogliere la memoria storica della comunità per divenirne il centro di valorizzazione e diffusione, volontà che trovava in quegli anni l'appoggio della politica culturale delle amministrazioni e che era incoraggiata e sostenuta anche dalla Soprintendenza archivistica per il Veneto [68], che, in virtù del suo ruolo di vigilanza sugli archivi non statali, diede il suo benestare al deposito in biblioteca, considerando soprattutto le garanzie di buona conservazione che offriva la nuova sede. Bisogna anche considerare che il grosso dei depositi è avvenuto in un momento, gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, in cui la Biblioteca di Schio costituiva non solo il centro del servizio bibliotecario provinciale, ma anche un punto di riferimento per le biblioteche pubbliche del Veneto, in quanto fin da subito fortemente orientata ai servizi all'utenza e in prima linea nella sperimentazione delle ultime novità in campo biblioteconomico, come il reference. Un ambiente così dinamico e aperto seppe naturalmente cogliere l'importanza strategica che da un punto di vista informativo poteva avere annoverare tra il proprio patrimonio materiale del genere; la stessa riflessione avrà fatto anche la Soprintendenza, considerando il grado di valorizzazione che poteva derivare dall'inserimento di quegli archivi in un circolo informativo così fiorente.
Come furono e sono gestiti questi archivi? Delle 16 persone che costituiscono l'organico della biblioteca, una è responsabile del servizio Sezione locale, che comprende i fondi librari antichi, gli archivi storici e la raccolta di storia locale. Si tratta di personale preparato in campo archivistico, che garantisce, dunque, il rispetto delle specifiche metodologiche, indispensabili per rendere l'incontro tra archivio e biblioteca un momento di arricchimento e non di appiattimento. Purtroppo il fatto che una sola persona si occupi di un servizio così ampio e con molte ore settimanali di apertura al pubblico, impedisce la programmazione periodica di interventi di riordino e inventariazione di fondi ancora privi di strumenti di corredo; l'esternalizzazione di questo tipo di interventi, affidati a personale a contratto con la supervisone della Soprintendenza, si sta rivelando una delle soluzioni più efficaci, considerando la riluttanza delle amministrazioni nell'assumere nuovo personale, specie nel settore dei beni culturali.
Per quanto riguarda la consultazione dei fondi archivistici, essa è concessa a tutti i maggiorenni iscritti alla Biblioteca previa compilazione dell'apposito modulo di richiesta, grazie al quale è possibile anche monitorare la gestione del servizio e gli archivi maggiormente consultati. Nel grafico di seguito riportato è evidenziato il numero delle richieste di consultazione del materiale dei vari archivi per ogni anno. Alcune precisazioni:
Prima di tentare una piccola analisi, è bene precisare subito un fattore che non emerge dal grafico (per motivi di tutela della privacy): molte richieste sono state fatte dalle stesse persone, che hanno approfondito un particolare tema con più consultazioni di materiale nel tempo. Il grafico presenta, dunque, dati che andrebbero ulteriormente elaborati, perché il numero annuale di richieste non corrisponde al numero di utenti che si sono rivolti alla Sezione locale. In effetti, l'utenza tradizionale di questi servizi è costituita da studiosi che portano avanti anche per mesi ricerche sul medesimo materiale, ben diversa da quella della biblioteca che tende ad avere bisogni informativi più diversificati. Al di là, però, del gruppo ristretto di appassionati e di ricercatori di storia locale, affezionati frequentatori della Sezione, è possibile individuare per gli archivi della Biblioteca civica di Schio un'utenza composita, che va dal laureando al semplice curioso: questo, se da un lato dimostra un'attenzione viva da parte della comunità, consapevole dell'esistenza di queste carte, dall'altro pone problemi non sempre di facile soluzione al responsabile del servizio, che deve saper rapportarsi a richieste di tutti i tipi e formulate in tutti i modi: la formazione di bibliotecario risulta in questi casi molto utile.
Dal grafico risulta chiaro da un lato la fortissima attenzione che ha avuto in passato l'archivio del senatore Rossi, ora però in forte calo (da tempo infatti non vengono più assegnate tesi di laurea sull'argomento, dopo anni di continui studi), dall'altro il costante interesse per l'archivio storico comunale, cosa che non stupisce considerando la ricchezza di informazioni di utilità pratica che molti professionisti, quali architetti, restauratori, urbanisti..., possono ivi recuperare.
In vista della futura consultabilità dell'archivio della Lanerossi, significativi risultano i dati relativi al materiale presente in biblioteca in fotocopia. Viene naturale chiedersi che valori avremmo se questi archivi non fossero stati depositati in biblioteca. È probabile che non avremmo nessun dato perché non sarebbero consultabili, o, peggio, lo sarebbero in regime di non sicurezza per le carte, e di disuguaglianza di trattamento per gli studiosi: la conoscenza di quel personaggio o di quell'assessore sarebbe requisito indispensabile per accedere alle soffitte di case private o agli scantinati del Municipio.
Gli interventi che si potrebbero attuare in futuro su questo patrimonio sono molteplici: l'informatizzazione è iniziata con l'archivio più significativo, quello del senatore Rossi, utilizzando il software Sesamo; ora è necessario continuare con gli altri fondi, molti dei quali dovranno anche essere riordinati. Il passo successivo può essere la messa in linea degli inventari e la loro integrazione con le banche dati bibliografiche: l'ipotesi più funzionale e attuabile è l'utilizzo di un'interfaccia comune attraverso la quale accedere all'interrogazione di cataloghi e inventari.
Non si dovrà neppure trascurare l'attività di promozione: più che sulle mostre, che già sono state organizzate [69], occorrerà puntare sull'attività didattica, coinvolgendo le scuole in percorsi formativi alla riscoperta di queste fonti per la storia locale: potrebbe essere un momento cruciale per la conquista di un nuovo tipo di utenza e per una forte proiezione verso l'esterno di un mondo nell'immaginario comune chiuso e polveroso. Ma tutto questo dipenderà inevitabilmente dalle future politiche culturali e dalla disponibilità di risorse.
Elio Lodolini, nel suo celebre Lineamenti di storia dell'archivistica italiana, sostiene, riferendosi al tema dell'informatica applicata agli archivi e ai relativi rischi, che "quando si mette in rilievo soltanto l'"informazione" contenuta nel singolo documento, quando si afferma che l'archivistica è una delle "scienze dell'informazione" si compie un inaccettabile regresso di due secoli, tornando a porre l'accento, come nell'ordinamento per materia del secolo XVIII, sul "contenuto" del documento, sulla "materia", sulla "informazione", perdendo completamente di vista il complesso organico, cioè l'archivio" [70]. Si può comprendere con facilità la preoccupazione di questo "padre" dell'archivistica italiana: evitare che, come già era accaduto nel Settecento, per risolvere un falso problema, quello di facilitare le ricerche, si privilegino nell'ordinamento dell'archivio i presunti interessi degli studiosi; il corretto ordinamento, infatti, se basato sul metodo storico, ha tra le sue conseguenze quella di rendere più precise anche le ricerche storiche, oltre che restituire la ricchezza di informazioni che deriva dall'aver conservato il documento nel suo contesto.
Va precisato tuttavia che ancora all'inizio degli anni Novanta, in cui veniva scritta quell'opera, gli archivisti discutevano ancora dei primi, più semplici problemi di contestualizzazione delle informazioni in una banca dati e si interrogavano su come superare i limiti dei software nel rendere in modo chiaro e garantire le relazioni tra entità gerarchicamente collegate. Negli ultimi quindici anni, le risorse tecnologiche hanno contribuito non soltanto a risolvere quelle più semplici esigenze, ma consentono di rappresentare il mondo complesso degli archivi con i rispettivi plurimi contesti di riferimento. In questa luce, dunque, le preoccupazioni espresse da Lodolini non hanno più ragion d'essere, ma sembrano anzi aver trovato soluzioni particolarmente convincenti ed efficaci.
La contaminazione metodologica che può verificarsi quando fondi archivistici e raccolte bibliografiche sono conservate nello stesso luogo e gestiti dalle stesse persone può apparire, alla luce delle riflessioni di Lodolini, come un rischio ancora peggiore: che cosa ne sarebbero di quegli archivi finiti nelle mani di bibliotecari che non conoscono nulla del "respect des fonds" e che hanno tra i loro obiettivi primari proprio quello di facilitare la ricerca di informazione? Ma anche per queste perplessità si assiste sempre di più ad esperienze di integrazione che non comportano ripercussioni negative.
Nel corso di una decina d'anni, dunque, il panorama complessivo in cui ci si trova ad operare è molto cambiato. Oltre al fertile e dinamico dibattito metodologico e teorico a cui abbiamo avuto modo di far riferimento e alle prime applicazioni informatiche in questo settore, il quadro normativo riguardante non solo il comparto dei beni culturali [71], ma anche il mondo dell'informazione e della documentazione, ha subito una forte scossa di rinnovamento.
Dopo le riforme della pubblica amministrazione degli anni Novanta [72], l'archivio corrente e quello di deposito sono oggi oggetto di un nuovo interesse, in quanto momenti fondamentali di selezione e organizzazione della memoria dell'ente. In virtù del principio di trasparenza del procedimento e del diritto di accesso ai documenti amministrativi, l'archivio concorre, quindi, a fornire informazioni al cittadino-utente, per quanto gli compete, ed in collaborazione con altre istanze (in primis la biblioteca) dovrebbe contribuire a formare, contrariamente a quanto sostiene Lodolini, un sistema informativo locale che non può che camminare su più gambe. La legge 241 del 7 agosto 1990 [73], da alcuni definita la vera legge italiana sull'informatica e sull'archivio corrente e di deposito, sancisce sotto molti aspetti la fine della dicotomia tra la natura giuridico-amministrativa attribuita all'archivio corrente e quella storico-culturale riconosciuta a quello storico: questa legge, infatti, non solo impone la corretta tenuta dell'archivio corrente e di deposito anche al fine di annullare la frattura con quello storico, ma anche favorisce una maggiore partecipazione del cittadino, sia come consapevolezza del proprio diritto ad essere informato per la tutela dei propri interessi legittimi, sia come crescita culturale che rafforza il senso di identità e di appartenenza.
Archivi correnti e archivi storici, dunque, sono oggi entrambi inseriti, insieme alle biblioteche e alle altre agenzie di informazione, ognuno per quanto gli compete, in un grande circuito informativo che ha come centro il cittadino-utente: l'archivistica diventa scienza dell'informazione, senza per questo essere snaturata o svilita.
Oggi, inoltre, appare sempre più indispensabile per tutte le comunità sociali raccogliere, ordinare e sistemare e diffondere il complesso delle informazioni sul territorio e le sue attività umane, preoccupandosi di conservare e trasmettere al futuro la documentazione contemporanea più significativa. Diffondere e conservare sono i due termini chiave attorno ai quali stabilire le relazioni tra le entità tradizionalmente deputate alla raccolta e alla sistemazione della documentazione locale: gli archivi e la sezione locale della biblioteca pubblica. Lo sviluppo di una politica comune che miri alla cooperazione nei servizi e nella produzione di strumenti di informazione, nella prospettiva di una dimensione unitaria della valorizzazione culturale, intesa come comunicazione, porterà a una crescita della domanda informativa che non può essere più solo del singolo studioso, ma che deve riguardare gruppi e collettività, prima tra tutti la scuola.
Valorizzazione è, dunque, un'altra parola chiave su cui riflettere: dal momento che la nuova normativa (T.U. 267/2000) conferisce agli Enti locali le funzioni amministrative in materia di valorizzazione di beni culturali, Biblioteche e Archivi diventano "servizio territoriale" e in quanto tali devono improntarsi ai principi di efficienza, efficacia e qualità, al fine di realizzare e promuovere lo sviluppo civile delle comunità locali, attraverso la valorizzazione dei beni che sono testimonianza concreta delle loro storia e della loro civiltà.
Le forme di contatto "spinte" tra fondi archivistici e raccolte bibliografiche di cui abbiamo parlato, prima tra tutte il deposito nelle biblioteche pubbliche di archivi di interesse strategico per la storia locale, anche se in alcuni casi sono state determinate da ragioni puramente pratiche e di bilancio, trovano nel nuovo panorama che abbiamo descritto una giustificazione scientifica e un'utilità innegabile per la ricerca e l'accesso all'informazione.
Il rapporto tra archivi e biblioteche è sempre più incoraggiato a livello normativo, ad esempio con l'istituzione di uno specifico Dipartimento per i beni archivistici e librari, come previsto dal DPR 10 giugno 2004, n. 173, Regolamento di organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali; molte leggi regionali consigliano il deposito delle sezioni separate dell'archivio comunale in biblioteca, allo scopo di agevolarne la consultazione ed assicurarne la conservazione.
Le riflessioni teoriche delle due discipline parlano sempre più di "permeabilità metodologica", al fine di raggiungere una più appropriata valorizzazione dei beni conservati [74]. Inoltre, il dibattito stesso sull'interferenza tra materiale archivistico e librario nel medesimo istituto è stato negli ultimi tempi reimpostato in modo del tutto nuovo: in passato, infatti, la soluzione migliore era ritenuta quella dello scambio reciproco del materiale, semplice in teoria, risultato inapplicabile nella pratica, per le oggettive difficoltà burocratiche e amministrative [75], le resistenze personali e le rivalità di categoria. Alcune prese di posizione da parte, ad esempio di Battelli [76] e Petrucci [77], diedero un forte contributo al cambiamento: i rapporti fra biblioteche e archivi non si dovevano impostare sul piano giuridico-patrimoniale, come una politica di scambi e restituzioni su scala generale avrebbe comportato, bensì in funzione dell'utilità degli studiosi, cioè della disponibilità pubblica del materiale conservato nelle due categorie di enti. Quello degli scambi oggi appare una falso problema: al pubblico, infatti, basta sapere dove si trova ciò che cerca; non più, dunque, istanze rivendicative e difesa di gelosi possessi, ma una proficua e fattiva collaborazione, un continuo scambio di consigli e di notizie, una rinnovata fraternità di studi che non può che risultare benefica al pubblico. La comunicazione è, quindi, il primo passo: questa, promossa e favorita dall'alto (specie oggi che le due realtà fanno entrambe riferimento al medesimo Ministero), a livello di Direzioni generali e realizzata con la collaborazione delle soprintendenze, dovrebbe portare alla conoscenza del materiale documentario e librario rispettivamente posseduto da ogni archivio e biblioteca. Il secondo passo è quello dello scambio di personale e competenze specializzate: le biblioteche dovrebbero procedere all'ordinamento e alla descrizione del materiale archivistico posseduto secondo criteri d'archivio (ordinamento in filze e in serie organiche e non in codici; descrizioni in inventari e non in cataloghi, etc.) e viceversa gli archivi dovrebbero allestire cataloghi descrittivi esaurienti dei loro fondi di manoscritti secondo le norme codificate dai bibliotecari. Questo passaggio si presenta molto più problematico del precedente, perché comporta il ripensamento dei principi stessi delle due discipline, in particolar modo della natura del documento archivistico e di quello letterario: molto spesso, infatti, capita che l'istituzione che conserva un dato documento applichi ad esso i suoi criteri di gestione e le sue tradizioni descrittive, senza interrogarsi a fondo sulla sua intima natura, ma deformandola al fine di adattarla al contesto operativo: casi emblematici sono i codici e gli epistolari, presenti sia nelle biblioteche che negli archivi e schedati con modalità differenti. In queste situazioni, saper distinguere la natura archivistica del materiale da quella letteraria non rappresenta solo un esercizio teorico, ma si traduce in concreto nella restituzione di tutta una serie di informazioni (potremmo, a ragione, dire metadati), che potrebbero rivelarsi chiavi di ricerca utilissime per lo studioso, quanto di archivi che di raccolte bibliografiche.
Le difficoltà che spesso si incontrano e possono scoraggiare stanno in parte nella natura ibrida di molti documenti, che non sono mai chiaramente e nativamente o archivistici o letterari, in parte nell'atteggiamento di chiusura mentale di molti operatori dei beni culturali, abituati ad applicare le loro specifiche categorie professionali indiscriminatamente a tutto il materiale che si trovano a gestire. La consapevolezza della specificità della natura degli oggetti conservati e delle competenze necessarie per una loro adeguata valorizzazione, resa possibile soltanto da un atteggiamento di sincera onestà intellettuale da parte di tutti, dovrà tradursi non tanto in una politica di restituzioni e scambi di materiali, ma in una riflessione condivisa sulle regole e le modalità di descrizione e schedatura, per evitare la compilazione di schede diverse a seconda della tipologia dell'istituto conservativo, creando un modello condiviso di descrizione a cui legare gli specifici dati di ogni ambito disciplinare, in una rete informativa resa possibile dalle nuove tecnologie informatiche. In questo campo, bisogna riconoscerlo, gli archivisti si sono storicamente adoperati molto più dei bibliotecari e solo oggi le cose stanno iniziando a cambiare. Ma è necessario che i primi compiano passi significativi verso l'utente e i suoi bisogni e che i secondi ripensino la prassi descrittiva di molto del materiale antico, come i manoscritti, finora impostata sulla concezione di tante 'monadi' autoreferenziali, per recuperare quella dimensione del contesto che non è un'esclusiva dell'archivistica.
Dunque, partendo dal dato di fatto che un libro non è un documento e viceversa, individuati gli elementi in comune tra archivio e biblioteca e le specificità professionali e metodologiche che non possono e non devono essere annullate, fare "di necessità virtù", cioè saper valorizzare la coabitazione coatta delle due "universitates rerum", è forse il miglior consiglio che si può dare in tempi così difficili per coloro che dovrebbero garantire il diritto all'informazione.
1. Vedi: Fausto Rosa (2003). Legislazione bibliotecaria: dispensa del corso di Legislazione bibliotecaria tenuto presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, anno accademico 2002-2003, p. 57.
2. IFLA (1995). Manifesto UNESCO sulle Biblioteche pubbliche, traduzione italiana a cura dell'AIB.
3. Si veda, a riguardo, L. Fumi (1908). L'archivio di Stato di Milano nel 1908, in "Archivio storico lombardo", a. XXXIV, Milano, dove si afferma che l'ordinamento per materia deriva dal "pensiero di render pronta la ricerca, facile il sistema di attuarla, possibile la riunione di tutte le carte che, pur profluenti da vari uffici, trattavano di un solo oggetto e ne svolgevano le vicende", riprendendo idee di un lavoro di Ippolito Malaguzzi Valeri del 1899.
4. M. Battaglia (1817). Discorso sull'antichità e utilità degli archivj, non che sulla dignità degli archivisti, Venezia, tipografia Alvisopoli, p. 44.
5. Cecchetti (1869).Osservazioni sulle caratteristiche degli Archivi e delle Biblioteche, in "Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", dal novembre 1868 all'ottobre 1869, s. III, tomo XIV, disp. 8, Venezia, pp. 1596-1607.
6.Compte-rendu des travaux de la VI.e session du Congrès international de Statistique réuni à Florence les 29, 30 septembre, 1, 2, 3, 4 et 5 octobre 1867 (1868), Florence, Imprimerie de G. Babèra.
7. La relazione finale fu pubblicata nella "Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia", n. 338, Firenze, 9 dicembre 1870, poi ristampata in numerose sedi: ad es., "Archivio storico italiano", s. III, tomo 12, parte II, Firenze, 1870, pp. 210-222.
8. G. Cencetti (1937). Sull'archivio come "universitas rerum", in "Archivi", s. II, a. IV, Roma, pp. 7-13.
9. G. Cencetti (1939). Inventario bibliografico e inventario archivistico, in "L'Archiginnasio", a. XXIV, Bologna.
10. G. Cencetti (1939). Inventario bibliografico e inventario archivistico, cit. sopra , p.62.
11. Antonio Pannella (1942). Le restituzioni, in "Notizie degli Archivi di Stato", a. II, n. 3, Roma, luglio-settembre 1942, pp. 130-132.
12. L. Cassese (1949). Intorno al concetto di "materiale archivistico" e "materiale bibliografico", in "Notizie degli Archivi di Stato", a. IX, Roma, pp. 34-41.
13. Riferendosi alla sola situazione italiana, basterà pensare al notevole numero degli archivi statali esistenti prima dell'unità, alla frettolosa e caotica opera di smistamento tra i vari enti eseguita nel decennio immediatamente successivo al 1861, al modo a volte bestiale con cui fu eseguita nello stesso periodo la divisione del materiale proveniente dai monasteri soppressi, per capire come si sia verificato lo smembramento di intere serie archivistiche e la irreparabile dispersione di organici fondi librari.
14. Subito dopo l'unità, in Italia furono avanzate dagli archivisti richieste di carattere rivendicativo nei riguardi di beni depositati presso biblioteche.
15. G. Battelli (1963). Archivi, biblioteche e musei: compiti comuni e zone d'interferenza, in "Archiva Ecclesiae", V-VI, pp. 62-78.
16. A. Petrucci (1964). Sui rapporti tra archivi e biblioteche, in "Bollettino AIB", N.S. 4, pp. 213-219.
17. A. Serrai (1995). La specificità della bibliografia, in "Il bibliotecario", n. 2, pp. 7-41.
18. A. Serrai (1995). La specificità della bibliografia, cit. sopra,, p. 8.
19. P. Innocenti (1994), Biblioteche e archivi, in "Biblioteche oggi", vol. XII, n. 5, pp. 52-57.
20. P. Innocenti (1994). Biblioteche e archivi, cit. sopra, p. 55.
21. P. Innocenti (1994). Biblioteche e archivi, cit. sopra, p. 56.
22. Laura Corti (1992). Beni culturali: standard di rappresentazione, descrizione e vocabolario, Modena, Panini, 1992, p. 8. Laura Corti è anche autrice del più aggiornato I beni culturali e la loro catalogazione, Torino, Paravia scriptorium , 1999.
23. IFLA (2003). Dichiarazione di principi internazionali di catalogazione: bozza approvata dal Primo Incontro di esperti promosso dall'IFLA per un codice internazionale di catalogazione, Francoforte sul Meno. Traduzione italiana a cura dell'ICCU. Disponibile all'URL: <http://www.iccu.sbn.it/PDF/Traduzione_Principi.pdf>.
24. Per una visione d'insieme di questa prima fase sperimentale in Italia, prima dell'apparizione sulla scena del dibattito archivistico sugli standard, si veda C. Salmini (1993). Informatica e archivi. Vent'anni di esperienze italiane e il programma ARCA in Archivi e Chiesa locale. Studi e contributi. Atti del "Corso di archivistica ecclesiastica". Venezia, dicembre 1989-marzo 1990, a cura di F. Cavazzana Romanelli, E. Ruol, Edizioni Studium Cattolico Veneziano, pp. 217-228.
25. International Council on Archives (ICA) (1999). ISAD(G): General International Standard Archival Description, 2. ed. adottata dal Comitato per gli standard descrittivi, Stoccolma, 19-22 settembre 1999.
26. International Council on Archives (ICA) (1995). ISAAR(CPF): International Standard Archival Authority Record for Corporate Bodies, Persons and Families, versione finale approvata dal Consiglio Internazionale degli Archivi, elaborato dalla Commissione ad hoc sugli Standards Descrittivi, Parigi, 15-20 novembre 1995.
27. Si veda, a titolo di esempio, la guida on line dell'Archivio di Stato di Firenze, presentata nell'ambito del Convegno internazionale di studi Archivi e storia nell'Europa del XIX secolo, Firenze, 3 dicembre 2002. Disponibile all'URL: <http://www.archiviodistato.firenze.it/siasfi/>.
28. Interessante, al riguardo il contributo di Mauro Guerrini (1999). Il controllo della forma dell'accesso per autore in archivio e biblioteca, in Gli archivi storici negli enti locali in biblioteca. Atti dello stage del 23 gennaio 1998 a S. Miniato, a cura di Maurizio Tani, San Miniato, Archilab, pp. 51-61.
29. A riguardo si veda: Maura Rolih Scarlino (1999). Fondi archivistici in una grande biblioteca: il caso della Biblioteca Nazionale di Firenze, in Gli archivi storici negli enti locali in biblioteca. Atti dello stage del 23 gennaio 1998 a S. Miniato, a cura di Maurizio Tani, San Miniato, Archilab, pp. 85-92.
30. Maurizio Tani (1999). La Toscana: Svezia degli archivi? I risultati di un'indagine condotta a tappeto sulla situazione della gestione degli archivi storici degli EE. LL. toscani, in cit. sopra, pp. 9-32.
31. Si ricorda che, in base al Decreto del Presidente della Repubblica 30 settembre 1963, n. 1409, ripreso dall'art. 40 del Decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali gli enti pubblici hanno l'obbligo di ordinare i propri archivi e inventariare i propri archivi storici, costituiti dai documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta anni". Quest'obbligo è stato confermato anche dall'art. 30 del Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 41, Codice dei beni culturali e del paesaggio (che dal 1 maggio 2004 ha sostituto e abrogato il precedente Testo unico).
32. La loro istituzione era auspicata dal DPR 1409/1999, cit. sopra.
33. Molti soppressi con la legge 78 giugno 1990, n. 142, Ordinamento delle autonomie locali.
34. J. H. Shera (1976). Introduction to library science. Basic elements of library service, Littleton, Libraries Unlimited, p. 49.
35. F. Barbieri (1981). Le comunali in Biblioteche in Italia. Saggi e conversazioni, a cura di F. Barbieri, Firenze, Giunta Regionale Toscana -- La Nuova Scienza, p. 126.
36. Oltre alle norme già ricordate in precedenza, per gli archivi vale anche la legge 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso di documenti amministrativi e la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 27 gennaio 1994 Principi sull'erogazione dei servizi pubblici.
37. Diploma conseguito dopo un corso biennale presso le scuole di archivistica attive presso gli Archivi di Stato italiani ubicati nei capoluoghi di Regione (D.P.R. 30. settembre 1963 n. 1409, art. 14), titolo richiesto per dirigere le sezioni separate d'archivio di Enti pubblici.
38. Biblioteche pubbliche in Toscana: un'indagine qualitativa sui servizi bibliotecari di base in Toscana (1997), a cura di Grazia Asta, Elena Boretti e Carlo Paravano, Firenze, AIB Sezione Toscana, p. 63.
39. Impiegati che tengono il protocollo, registro cronologico di lettere, atti etc in partenza o in arrivo, negli uffici pubblici e privati. In genere sono dotati di una preparazione tecnica, ma non storico-culturale.
40. Fondamentale rimane il DPR 30 settembre 1963, n. 1409.
41. Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione.
42. Come già previsto dal Decreto legislativo T.U. 267/2000, art. 19.
43. In Italia a partire dal 1962 la frequentazione delle scuole medie di primo grado divenne obbligatoria, provocando un forte aumento della popolazione scolastica; questo, unito ai nuovi criteri della didattica e dell'apprendimento impostati sul coinvolgimento degli alunni attraverso un'attività di "ricerche per argomenti", portò ad individuare nelle biblioteche comunali il partner privilegiato della scuola nei nuovi processi educativo-formativi.
44. È con il convegno "La biblioteca fuori di sé. Storie di libri, balocchi & profumi ...", svoltosi a Castelfiorentino nell'ottobre 1995, che viene coniata l'espressione BFS. Per gli atti, cfr. Biblioteche "fuori di sé" ... alla ricerca di nuovi pubblici. Una rassegna originale di strategie promozionali (1996), in "Biblioteche oggi", 14, 8, pp. 10-27.
45. Con questo termine si intendono tutti quei materiali a stampa (giornali, riviste, opuscoli, manifesti, biglietti ...) e multimediali (fotografie, video e audio registrazioni ...) che non hanno una precisa appartenenza "istituzionale", nel senso che spesso sono presenti nei fondi archivistici, specie quelli privati, nonostante la loro primitiva natura bibliografica.
46. J. Le Goff (1988). Documento/monumento, in Storia e memoria, Torino, Einaudi, 1988, p. 454. Su queste posizioni si muove anche una parte della comunità archivistica canadese (i cosiddetti postcustodialisti) che ha ridefinito l'archivio come "testo", non neutrale e non imparziale, ma storicamente contestualizzato, all'interno del quale è possibile leggere i rapporti di potere esistenti in un determinato momento storico.
47. Ci si riferisce ai concetti di struttura sociale, di lavoro, di classi subalterne, di geografia storica etc, che rivoluzionarono il modo di avvicinarsi alla storia e di fare storiografia.
48. Vedi anche: IFLA (2002). Il servizio bibliotecario pubblico: linee guida IFLA/UNESCO per lo sviluppo, ed. italiana a cura della Commissione nazionale biblioteche pubbliche dell'AIB, Roma, AIB, p. 72. Sostituiscono le precedenti Guidelines for public Libraries del 1986, già riviste dall'IFLA nel 2000.
49. Questione in passato oggetto di accesa discussione tra archivisti e bibliotecari (specie delle biblioteche nazionali), soprattutto al momento del riordinamento degli Archivi di Stato in seguito all'avvenuta unificazione nazionale. La Commissione preposta nominata dai ministeri dell'Istruzione e dell'Interno invitò bibliotecari e archivisti "a mettersi d'accordo pel vantaggio comune", aggiungendo che "però quando un'evidente lacuna si può riempire, si deve". Al riguardo significativi furono gli interventi di Bartolomeo Cecchetti, direttore dell'Archivio di Stato di Venezia, sostenitore della causa della restituzione di "carte e codici di origine o spettanza governativa dalle biblioteche agli archivi" (Osservazioni sulle caratteristiche degli Archivi e delle Biblioteche (1869), in "Atti dell'Istituto veneto di scienze, lettere e arti", S. III, XIV, 2).
50. Caso emblematico di disservizio sono da molti considerati gli Uffici di relazione con il pubblico (URP), "uno dei più dispendiosi bluff che l'Amministrazione locale ha perpetrato a spese dei cittadini, in un inferno informativo lastricato di buone intenzioni" (Maria Stella Rasetti, 1997). In realtà, questo tipo di servizio nella maggior parte dei casi non ha saputo darsi una strutturazione adeguata alle finalità informative prefissate, senza aver cercato un collegamento con gli specialisti del reference.
51. Vedi anche: Paola Carucci (1998). Le fonti archivistiche: ordinamento e conservazione, Roma, Carocci, p. 92. L'autrice espone serie preoccupazioni riguardo certe politiche locali stimolate da Regioni e Comuni che tendevano a ignorare le differenze specifiche dei diversi beni culturali, forse in conseguenza dell'istituzione del nuovo Ministero dei Beni culturali e ambientali (1998) con accresciute competenze e prerogative rispetto al passato.
52. Paul Gabriel Weston (2002). Il catalogo elettronico, Roma, Carocci, p. 140.
53. La più diffusa è senz'altro quella che vede Internet nel suo complesso sostituire biblioteche e bibliotecari come fonte primaria per il recupero dell'informazione, rendendo superflua ogni competenza tradizionale nella gestione e nell'offerta documentaria. Sull'argomento vedi: Riccardo Ridi (2004). Biblioteche vs Google?, in "Biblioteche oggi", luglio-agosto 2004, p. 3-5.
54. Maria Guercio (2001). Comunicare gli archivi: le opportunità della rete, i rischi della sperimentazione, in Informatizzazione degli archivi e l'integrazione con altre banche dati culturali. Atti della giornata di studio, Trento, 14 dicembre 1998, a cura di Livio Cristofolini e Carlo Curatolo, Trento, Provincia di Trento, p. 13.
55. In questo senso, la messa in linea di strumenti di ricerca rientra nel generale processo di promozione archivistica già descritto nel capitolo 5.
56. Encoded Archival Description, elaborato dalla Library of Congress e dalla Society of American Archivists.
57. Consultabile all'URL: <http://www.archivi.beniculturali.it>.
58. Impostazione molto simile ha il progetto promosso nel 1998 dagli archivi federali svizzeri con il Consiglio nazionale degli archivi di una rete archivistica europea, ispirato a finalità concrete e di buon senso, come la reciproca comunicazione mediante icone di collegamento con tutti i paesi membri sulla home page dei siti di ogni archivio, traduzione dell'inglese dei contenuti on line, adozione delle ISAD(G).
59. Nato tra il 1990 e 1992, ha coinvolto le Soprintendenze archivistiche nel censimento degli archivi comunali, ecclesiastici e di enti pubblici e privati. Allargato in seguito ad alcuni Archivi di Stato, il progetto Anagrafe informatizzata degli italiani ha costituito a lungo il punto di riferimento per molti altri progetti di inventariazione e censimento.
60. Sistema Informativo Unificato Soprintendenze Archivistiche, progetto svolto in collaborazione con il CRIBeCu (Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali) della Scuola Normale Superiore di Pisa, punto di riferimento per l'informatica applicata ai beni culturali.
61. Si tratta dell'Archivio personale del senatore Alessandro Rossi, capostipite dell'industrialesimo italiano dell'Ottocento. L'inventario, curato da Paolo Sbalchiero e Rosa Maria Craboledda coordinati dal dott. Franco Bernardi con la supervisone della Soprintendenza archivistica per il Veneto, è stato ultimato ed è ora in corso di verifica.
62. Si tratta di un fondo librario di oltre 10.000 pezzi tra volumi, opuscoli, periodici che copre un arco temporale di oltre un secolo (dal Settecento alla fine dell'Ottocento) e che rappresenta, nella sua omogeneità, un significativo esempio dei testi di riferimento e di formazione della classe alta scledense dell'Ottocento.
63. Per avere un'idea della consistenza di questo materiale, basta ricordare il fondo Dalla Ca' (autore della prima metà del Novecento di pubblicazioni di carattere locale, che aveva raccolto in vita una mole impressionante di materiale per lo studio della storia del territorio, anche contemporanea) che all'arrivo in biblioteca (1984) fu diviso per argomento in un centinaio di buste in attesa di tempi migliori, salvo, con una scelta forse oggi discutibile, i libri e gli opuscoli che furono trasferiti nel fondo locale della biblioteca.
64. Tra gli ultimi archivi depositati, ricordiamo quello di Ferruccio Manea, detto TAR, personaggio della resistenza nell'Alto vicentino e quello del professor Giovanni Calendoli, che ha lasciato alla biblioteca anche una raccolta di oltre 12.000 libri di teatro.
65. Legge regionale 5 settembre 1984, n. 50, Regione Veneto, "Norme in materia di musei, biblioteche, archivi di enti locali o di interesse locale", art. 39.
66. Secondo la normativa vigente, infatti, gli archivi storici degli enti pubblici (che per legge devono essere riordinati e inventariati) sono costituiti dai documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta anni.
67. L'imponente archivio della Lanerossi (6.000 metri lineari di carte) è stato recentemente concesso in comodato d'uso dalla Marzotto al Comune di Schio, che sta provvedendo al suo censimento.
68. Pareri estremamente positivi al riguardo furono espressi dall'allora soprintendente archivistica Bianca Lanfranchi Strina.
69. L'ultima nella primavera del 2004, in occasione del restauro di Palazzo Fogazzaro.
70. Elio Lodolini (1991). Lineamenti di storia dell'archivistica italiana: dalle origini alla metà del secolo XX, Roma, NIS, p. 221.
71. Documenti fondamentali sono il Decreto legislativo 29 ottobre 1999 n. 490, Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, sostituito e abrogato a partire dal 1 maggio 2004 dal Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 41, Codice dei beni culturali e del paesaggio.
72. Il Decreto legislativo T.U. 267/2000 mette insieme tutte le leggi pilastro degli anni '90, che hanno fortemente rinnovato il comportamento delle autonomie locali.
73. Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
74. Basti pensare alla particolare attenzione dedicata ad una specifica tipologia di archivi (come quelli dei partiti politici o di singoli personaggi), di recente oggetto di specifica valorizzazione, che richiedono di approfondire i tradizionali approcci metodologici e più specifiche indicazioni descrittive (si pensi alla presenza massiccia di testi a stampa, quali opuscoli, articoli, materiali informativi, ma anche ciclostilati, fotocopie, negli archivi novecenteschi di persona) alcune delle quali potrebbero essere suggerite anche dal confronto con il mondo delle biblioteche. Di questo si è parlato al Seminario di studio "Archiviare" la politica: riflessioni e progetti per gli archivi politici e sindacali, tenutosi a Vicenza il 16 settembre 2004.
75. Fino al 1974 i ministeri competenti erano due: quello dell'Interno per gli archivi e quello dei Beni culturali per le biblioteche (statali).
76. G. Battelli (1962). Archivi, biblioteche e musei: compiti comuni e zone d'interferenza, in "Archiva Ecclesiae", V-VI (1962-1963), pp. 62-78.
77. A. Petrucci (1964). Sui rapporti tra archivi e biblioteche, in "Bollettino AIB", N.S. 4 (1964), pp. 213-219.
NB: I link a risorse presenti sul Web sono stati controllati per l'ultima
volta il 13 marzo 2005. Archivi e storia locale (1996). Atti della giornata di studio, a cura di Livio Scalco e Giorgetta Bonfiglio Dosio, Este, Gabinetto di lettura, 20 gennaio 1995, Vicenza, Associazione per la storia locale.
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Barbieri, Francesco (1981). Le comunali in Biblioteche in Italia. Saggi e conversazioni, a cura di F. Barbieri, Firenze, Giunta Regionale Toscana - La Nuova Scienza, p. 126.
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Biblioteche pubbliche in Toscana: un'indagine qualitativa sui servizi bibliotecari di base in Toscana (1997). A cura di Grazia Asta, Elena Boretti e Carlo Paravano, Firenze, AIB Sezione Toscana, p. 63.
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Bibliografia
Copyright AIB
2005-03-06, ultimo aggiornamento 2005-03-18, testo di Paolo Sbalchiero, a cura di
Paolo Sbalchiero e Claudio Gnoli.
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