«Bibliotime», anno II, numero 2 (luglio 1999)
AAAA: acronimi, anglicismi e altre amenità
Parte I: opac e cd-rom
FROM: Claudio Gnoli
TO: Michele Santoro
CC: Riccardo Ridi, Giulia Visintin
Caro Michele, vedo che Francesca Trombetti, nel suo articolo nell'ultimo numero di Bibliotime [2], ha usato le lettere minuscole per scrivere "opac", come piace anche a me e come invece Riccardo Ridi aborre ;-) Ma nel mio articolo su Bibliotime, vicino di casa del suo [3], ho trovato un paio di esempi storici per sostenere questa proposta grafica, e forse il tempo ci darà ragione...
FROM: Michele Santoro
TO: Claudio Gnoli
CC: Riccardo Ridi, Giulia Visintin
Caro Claudio, non credo che RR aborra l'uso delle minuscole, anzi...
Io la penso diversamente. Forse è vero che Opac è entrato nel linguaggio comune (almeno fra i bibliotecari: ma, se è per questo, anche 'thesauri' e tanti altri termini tecnici, che però hanno mantenuto la loro grafia originale), e che si pronuncia bene anche in italiano, ma come facciamo a spiegarne l'origine come acronimo, ad esempio in un corso, se non scriviamo OPAC, decodificandone poi la sigla?
In secondo luogo, parlare di opac come se improvvisamente il catalogo di biblioteca - tradotto in formato elettronico - avesse per cause misteriose assunto un altro, esoterico nome, non può forse ingenerare incertezza ed anche sconcerto negli utenti, che si vedono posti di fronte a dei tecnicismi non solo operativi ma anche lessicali?
Analogamente, ritengo che CD-ROM debba restare maiuscolo, in quanto anch'esso è inestricabilmente legato alla sua origine "da acronimo" (in italiano, poi, ci sono almeno due possibili dizioni: 'cidirom' e 'sidirom'). E che dire di DVD (da pronunciare: divuddi')... ma forse questo non e' ancora "maturo" per la minuscolizzazione...
Mi chiedo se sia opportuno richiamare la differenza fra Unesco e ONU: la seconda sigla ci dice subito di che organizzazione si tratta (è più autoesplicativa); mentre per la prima dobbiamo sapere da altre fonti che è qualcosa che ha a che vedere con la cultura etc. etc., quindi davvero si può scrivere in minuscolo (ma certo con l'iniziale maiuscola), anche perchè una sigla così lunga non è più facilmente decodificabile.
OPAC e CD-ROM invece dovrebbero restare fedeli alla loro nascita "da acronimi": questo semplifica la loro decodifica mettendo in rilievo la loro interiore 'semanticità' (mi si passi l'espressione).
FROM: Claudio Gnoli
TO: Michele Santoro
CC: Riccardo Ridi, Giulia Visintin
Caro Michele, scrivi...
"come facciamo a spiegarne l'origine come acronimo, ad esempio in un corso, se non scriviamo OPAC, decodificandone poi la sigla?"
Ma allora dovremmo scrivere anche "LASER", "LED", eccetera?
"In secondo luogo, parlare di opac come se improvvisamente il catalogo di biblioteca - tradotto in formato elettronico - avesse per cause misteriose assunto un altro, esoterico nome, non può forse ingenerare incertezza ed anche sconcerto negli utenti, che si vedono posti di fronte a dei tecnicismi non solo operativi ma anche lessicali?"
Beh, ma infatti io non propongo di scrivere dappertutto la parola "opac". Per gli utenti "catalogo (in linea)" di solito va benissimo, e anzi proprio io ho sostenuto l'uso di questa forma, per chiarezza, nella futura maschera di ricerca del MAI [4]. Anche se un opac non è "solo" un catalogo, è un certo tipo di catalogo, soprattutto per i suoi aspetti tecnici.
"Analogamente, ritengo che CD-ROM debba restare maiuscolo, in quanto anch'esso è inestricabilmente legato alla sua origine "da acronimo" (in italiano, poi, ci sono almeno due possibili dizioni: 'cidirom' e 'sidirom'). E che dire di DVD"
Per questi che non hanno una sigla pronunciabile, in effetti, sostenere l'uso del minuscolo è ancora piu` difficile...
Ti dirò perchè non mi piace il tutto-maiuscole: mi sembra che metta troppo in evidenza la parola, per il solo motivo originario che è una sigla.
Direi che esistono almeno tre diversi usi [5] del maiuscolo:
- iniziale maiuscola per i nomi propri
- lettere maiuscole che abbreviano intere parole
- enfasi
La coesistenza di questi tre significati a volte determina situazioni ambigue: perchè una certa lettera o un gruppo di lettere sono maiuscole? L'enfasi, anche quando non è il principale obiettivo, è comunque sempre un risultato del tutto-maiuscole, perchè le parole saltano molto all'occhio. E' per questo che io non amo il tutto-maiuscole con significati diversi dall'enfasi, e cerco di usarlo il meno possibile.
Quando si tratta di iniziali di parole abbreviate, ci sarebbe il maiuscoletto che si adatta molto: non è troppo vistoso e ha il merito di tenere distinto uno dei tre significati; ma nella posta elettronica chiaramente non si può usarlo. E poi, come dimostra "laser", certe parole di uso comune e pronunciabili tendono col tempo a minuscolizzarsi: ecco perchè propongo "opac". Molte parole oggi presenti nel linguaggio corrente hanno origini strane ed artificiali: ad esempio, sapevi che "Pakistan" era in origine una sigla?
FROM: Riccardo Ridi
TO: Claudio Gnoli, Michele Santoro
CC: Giulia Visintin
Cari amici, ha ragione Michele: in linea di massima tendo a minuscolizzare il più possibile, però credo che la lingua sia in continua evoluzione e che la diversa fortuna dell'uso delle maiuscole o delle minuscole negli acronimi vari nel tempo e sia difficilmente riconducibile a norme generali.
Posso anche esibire una prova della mia posizione, risalente addirittura al marzo 1994. Si tratta di una lettera per la redazione di "Biblioteche oggi" con cui accompagnavo una mia recensione [6].
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In vista del numero monografico sui fatidici dischetti oso avanzare una modesta proposta. CD-ROM è un acronimo (Compact Disc - Read Only Memory) e come tale viene sempre scritto tutto in maiuscole. Ormai però ha assunto il valore di un vero e propro sostantivo, e credo che prima o poi lo scriveremo tutti in minuscole (cd-rom). La lingua la fa la comunità dei parlanti (competenti) e non i grammatici (nè l'UNI), quindi vale più un precedente autorevole di qualsiasi dibattito (cfr. la sterile disputa fra tesauri e thesauri). Il numero monografico di "Biblioteche oggi" avrebbe tutti i requisiti (per autorevolezza e diffusione) per costituire un precedente importante. Forse però i tempi non sono ancora maturi...
Aggiungo alcune considerazioni aggiuntive, in ordine sparso:
- Roberto Lesina (Il manuale di stile, Bologna, Zanichelli, 1986, p. 148-149), pur raccomandando l'uso della norma UNI sugli acronimi (che li vorrebbe sempre tutti maiuscoli), ammette che "certi acronimi di impiego consolidato, specialmente se pronunciabili come parole, tendono a essere assimilati nel linguaggio come comuni vocaboli. In questi casi è senz'altro ammissibile, e in certi contesti preferibile, adottare per tali termini l'ordinaria grafia linguistica [...] Fiat anzichè FIAT, radar anzichè RADAR"
- DOS, OPAC e altre sigle molto diffuse appaiono sempre più spesso nella "nostra" letteratura anche nella versione "minuscolizzata".
- In un articolo (o peggio un libro) interamente dedicato ai dischetti è pesante vedere il termine più banale (dato il contesto) che viene ad ogni pie' sospinto enfatizzato (scorrendo il testo le parole tutte in maiscolo risaltano innaturalmente). In una situazione del genere forse si potrebbe addirittura alleggerire sostituendo cd a cd-rom (se non si creano ambiguità con altri tipi di cd).
- La classica opposizione on-line versus cd-rom sarebbe finalmente "alla pari". Per rimediare allo zoppicante on-line versus CD-ROM ho visto addirittura inventare un improbabile ON-LINE versus CD-ROM.
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Nel 1994 mi domandavo ancora se i tempi fossero maturi per la minuscolizzazione di "CD-ROM". Oggi, dopo 5 anni, mi sembra che siamo sicuramente pronti per un uso diffuso di "cd-rom". Il che non toglie che in contesti linguistici particolari (un lucido per un corso, un manifesto di un convegno, ecc.) si possa tranquillamente tornare al maiuscolo.
Per quanto riguarda OPAC invece sarei per ora più prudente. Gli argomenti di Claudio sono buoni e lui fa bene a portare avanti la sua battaglia, ma credo che ancora sia presto. Credo che molto dipenderà anche dalla fortuna dei termini metaopac e multiopac (o metaOPAC, meta-opac, ecc.?) che, composti da un prefisso più un acronimo, tenderanno ad attrarre OPAC verso la forma minuscola.
FROM: Giulia Visintin
TO: Claudio Gnoli, Michele Santoro, Riccardo Ridi
Cari amici, non posso esimermi da intervenire anch'io con qualche osservazione.
Un criterio assolutamente empirico che circola nell'ambiente dei bibliotecari, perlomeno di quelli che scrivono ancora nei cataloghi, è la distinzione fra acronimi letterali, composti cioè dalla sola iniziale di ciascuna delle parole dell'espressione corrispondente, e acronimi sillabici, gli elementi dei quali possono essere in tutto o in parte gruppi di lettere – non sempre sillabe vere e proprie – ricavati dalle parole dell'espressione corrispondente.
Dal punto di vista della trascrizione solo i primi andrebbero in 'tutte maiuscole', mentre i secondi, visto che sono quasi sempre più agevolmente pronunciabili, sono assimilati alle parole comuni anche nella grafia. Questo criterio potrebbe fra l'altro giustificare – a posteriori – lo stile adottato nelle intestazioni proposte dalle Regole italiane di catalogazione per autori (che surrettiziamente non cito col loro nome più usuale), per le quali possono bastare gli esempi: ENI, FAO, UNESCO Vs. Censis, Rai, Formez (tutti ricavati dalla norma 64.2).
La pronunciabilità dell'acronimo, tuttavia, non è privilegio dei soli acronimi sillabici, ma è ovviamente conseguenza di una gradevole combinazione di suoni prodotta da una serie di segni, che talvolta vengono inclusi o esclusi deliberatamente nell'acronimo proprio per questa ragione.
Va inoltre osservato che la pronunzia di un certo acronimo non dipende soltanto dall'uso linguistico nazionale (quella sconcertante condizione in virtù della quale ogni popolo è convinto di essere il solo a 'leggere le parole come sono scritte', mentre tutti gli altri no) ma anche da abitudini e inflessioni regionali. Esperienza comune a qualsiasi congresso della nostra associazione professionale è rendersi conto che in un gruppo di tre bibliotecari che parlano dell'associazione stessa si possono sentire anche quattro pronunzie differenti dell'acronimo con cui è comunemente identificata.
Nel tentativo – a mio parere destinato al fallimento – di definire e circoscrivere con precisione la forma degli acronimi bisogna infine tenere presente almeno un paio di altre circostanze. Esistono acronimi creati a posteriori da parole preesistenti (è il caso del motto risorgimentale Viva Verdi), acronimi creati su parole portatrici di precisi significati che si desidera contagino questo valore anche sull'acronimo (ad esempio il nome della maggiore industria italiana, in origine produttrice di automobili da corsa, non poteva trascurare l'accezione comune, ancorché di ascendenza biblica, dell'espressione 'in un fiat': rapidamente), acronimi multipli, di significati anche assolutamente opposti, costruiti sulla stessa combinazione di lettere.
E poi esistono acronimi, indubbiamente acronimi, che manifestamente contravvengono a tutto quanto detto finora. Siamo il paese che per decenni ha pagato il servizio telefonico a una società nota con un acronimo del tutto pronunciabile, ma che ci voleva un bel coraggio per sostenere che potesse corrispondere a S[ocietà] I[taliana] P[er l'esercizio telefonico] [7].
Per quanto riguarda il catalogo in linea disponibile al pubblico, l'abuso dell'acronimo ricavato dall'equivalente espressione inglese mi sembra appunto un abuso, che sta portando a pronunciarlo come una parola, anche grazie alla sua brevità rispetto alla frase completa. Dunque a scriverlo come una parola: ma in italiano assomiglia un po' troppo all'aggettivo che si scrive con la semplice aggiunta di una vocale o di un'acca e una vocale (il correttore ortografico automatico di chi lo scrive come una parola non reclama mai?). Senza insistere sulla lepidezza del gioco di parole in questione, l'evocazione dell'opacità è quasi inevitabile.
Il vero e proprio abuso però – a ben vedere – non è la pronuncia ma la frequenza con la quale si impiega. Nove volte su dieci andrebbe benissimo dire il catalogo (al singolare, non al plurale, ma questo è un altro discorso), e sei di quelle nove volte oramai si legge piuttosto l'acronimo. Chi di voi, disponendo di un segmento di catalogo ancora nel vecchio formato brevettato a libretti, inviterebbe la stupenda lettrice ad 'accomodarsi allo Staderini?'. E allora perché mai parlare di altro che non sia il catalogo, anche tenendo conto che l'acronimo è assolutamente sconosciuto – per fortuna – fra i non addetti ai lavori? Pensando a quanti equivoci minano ancora il sereno impiego di questo strumento presso gran parte dei frequentatori delle nostre biblioteche (Gabriele Gatti al convegno del Palazzo delle Stelline, nel marzo di quest'anno) non aggiungiamoci anche questo ulteriore abracadabra.
Va infine detto però che gli articoli di Claudio Gnoli e di Francesca Trombetti dai quali ha preso le mosse questa discussione sono due dei rarissimi esempi nei quali il nostro acronimo ha pieno diritto di citazione, trattandosi per l'appunto dell'oggetto del discorso. Quasi contemporaneamente, tuttavia, ho salutato con soddisfazione una trasformazione non irrilevante dei nostri discorsi sul catalogo nel prontuario per esami di Ferro e Zanobi [8], dove pacificamente si dà per sottinteso che la forma canonica del catalogo è oggi appunto quella che solitamente rappresentiamo con l'acronimo. Ma nonostante ciò – o forse proprio per questo – in tutto il volumetto dell'acronimo stesso viene fatto un uso limitatissimo, preferendo parlare, come è giusto che sia, del catalogo.
Parte II: metadata e metatag
FROM: Michele Santoro
TO: Riccardo Ridi
Caro Riccardo, grazie per avermi anticipato il testo della tua relazione per il convegno "The digital library" [9], che ho letto e apprezzato. Tuttavia mi corre l'obbligo di fare una piccola osservazione (ma non considerarmi un maniaco per questo...): l'uso dei termini inglesi ("metadata", "data") e l'utilizzo del singolare "tag".
Immagino che tu ci abbia pensato su, optando poi per queste soluzioni. Tuttavia devo dire che l'impiego in un testo in italiano di termini "all'inglese", laddove esistono i corrispettivi italiani, non suona molto bene. Perchè dire "i data" quando in italiano si dice "i dati"? Analogamente, "metadata" si può tradurre ottimamente con "metadati". Ad esempio una frase quale:
"il lavoro necessario per estrarre i metadata dai data è ricompensato dalla loro maggiore manipolabilità rispetto ai data originari..."
non solo stride in maniera evidente ad orecchie italiane, ma induce a credere che il termine "data" assuma un valore diverso, una connotazione tecnica speciale, rispetto ai più banali e familiari "dati".
La questione poi è complicata dal fatto che "data" (e "metadata") discendono dal latino, essendo il plurale di datum; in italiano, lingua neolatina, il processo di trasformazione da "datum" a "dato" (plurale "dati") è avvenuto da tempo, quindi riesumare una forma latina, oltre al tecnicismo, include un elemento di arcaismo assai fastidioso.
In realtà questo della traduzione dei termini tecnici è un vecchio problema, ben presente, come sai, a chi si occupa di indicizzazione; la vulgata (che mi pare condivisibile) prevede che si mantenga il termine straniero laddove non esista un corrispondente italiano (è il caso di "marketing"), mentre è preferibile tradurre quei termini per i quali si può individuare tale corrispondente (è il caso di "management", traducibile con "gestione").
Un secondo problema è quello dei "metatag" (senza la "s" del plurale). Qui il problema è l'esatto opposto al precedente: si tratta di un termine tecnico, squisitamente inglese (di origine anglosassone, a quanto pare, non certo di origine latina), per il quale non esiste un corrispondente italiano. Di conseguenza si puo' importare così come la lingua inglese lo prevede, e cioè al plurale ("metatags").
Concludo con un rilievo nei confronti del titolo: se è corretto quanto sopra, scrivere "metadata" e "metatag" suona male sia agli occhi degli italiani (che richiederebbero "metadati") che a quelli degli inglesi (per i quali è corretto "metatags").
FROM: Riccardo Ridi
TO: Michele Santoro
Caro Michele, le osservazioni che fai sono giuste, però ce ne sono anche altre di cui tenere conto, e sommando e shakerando il tutto..... non so bene che pesci prendere.
"Tuttavia devo dire che l'impiego in un testo in italiano di termini "all'inglese", laddove esistono i corrispettivi italiani, non suonano molto bene"
In linea di principio è giusto, ma le traduzioni perfette non esistono. Ogni termine ha le sue sfumature. Altrimenti perchè usare OPAC quando ci sarebbe "catalogo elettronico"? Lo so, spesso sarebbe meglio lasciar perdere OPAC e usare senzaltro "catalogo elettronico" o semplicemente "catalogo", ma in certi contesti è talvolta preferibile OPAC.
C'è da considerare, inoltre, il sostanziale aumento di reperibilità conseguito dai documenti che utilizzano termini di uso internazionale nei confronti di chi utilizza motori di ricerca (per testi che vanno in rete) o cd-rom di spogli tipo LISA (per gli articoli su carta).
"Perchè dire "i data" quando in italiano si dice "i dati"?"
Ecco un caso analogo. In realtà, se proprio dovessi tradurre "data", probabilmente utilizzerei il termine "documenti" e non quello "dati".
"Analogamente, "metadata" si puo' tradurre ottimamente con "metadati" "
Di nuovo, io preferirei "metadocumenti", ma ho optato per la forma inglese per usare un termine già ampiamente attestato in letteratura (sia inglese che in altre lingue, incluso l'italiano) e non coniarne uno nuovo.
"Ad esempio una frase quale: "il lavoro necessario per estrarre i metadata dai data è ricompensato dalla loro maggiore manipolabilita' rispetto ai data originari..." non solo stride in maniera evidente ad orecchie italiane, ma induce a credere che il termine "data" assuma un valore diverso, una connotazione tecnica speciale, rispetto ai più banali e familiari "dati"."
Si, è vero. Però nel testo insisto parecchio comunque sulla contiguità fra l'indicizzazione classica e questa presunta nuova "estrazione", quindi per motivi diciamo "stilistici" o "comunicativi" mi fa comodo chiamare il presunto nuovo con un nome nuovo per poi poter dire che equivale o comunque somiglia parecchio a una cosa (e a un nome) vecchio.
"La questione poi è complicata dal fatto che "data" (e "metadata") discendono dal latino, essendo il plurale di datum; in italiano, lingua neolatina, il processo di trasformazione da "datum" a "dato" (plurale "dati") è avvenuto da tempo, quindi riesumare una forma latina, oltre al tecnicismo, include un elemento di arcaismo assai fastidioso"
Qui si va sul soggettivo. Allora come la metti con "media"? Anche in questo caso preferiresti "mezzi di comunicazione"?
In realtà questo della traduzione dei termini tecnici è un vecchio problema, ben presente, come sai, a chi si occupa di indicizzazione; la vulgata (che mi pare condivisibile) prevede che si mantenga il termine straniero laddove non esista un corrispondente italiano (è il caso di "marketing"), mentre è preferibile tradurre quei termini per i quali si può individuare tale corrispondente (è il caso di "management", traducibile con "gestione").
Di nuovo vero in linea di principio, però "management" porta con se sfumature, riferimenti culturali e una aura che "gestione" non ha. Anche "software" si potrebbe tradurre con "programmi" e "computer" con "calcolatore", ma tu lo faresti davvero?
Un secondo problema è quello dei "metatag" (senza la "s" del plurale). Qui il problema è l'esatto opposto al precedente: si tratta di un termine tecnico, squisitamente inglese (di origine anglosassone, a quanto pare, non certo di origine latina), per il quale non esiste un corrispondente italiano.
E chi lo dice? Tag = marcatore, etichetta. Metatag = metaetichetta. Perche' no?
"Di conseguenza si può importare così come la lingua inglese lo prevede, e cioè al plurale ("metatags")"
Io invece sono per l'invariabilità in italiano dei termini importati. "Ho segnato due goal", non "due goals". "Ho comprato due album", non "due albums". Oppure tu scriveresti "goals" e "albums"?
Insomma, la mia soluzione non mi convince del tutto, ma neppure la tua.
FROM: Michele Santoro
TO: Riccardo Ridi
"Insomma, la mia soluzione non mi convince del tutto, ma neppure la tua"
Posso dire che lo stesso vale per me, dal momento che le tue controdeduzioni sono decisamente fondate.
Claudio Gnoli, Riccardo Ridi, Michele Santoro e Giulia Visintin
Note
[1] Cfr. Gabriele Gatti, La sindrome AA.VV.: utenti finali tra disintermediazione tecnologica e trappole bibligrafiche, relazione presentata al convegno La biblioteca amichevole. Nuove tecnologie per un servizio orientato all'utente. Milano, 11-12 marzo 1999, in corso di pubblicazione, e Luigi Crocetti, Il terrore del titolo e lo stile citazionale, in Il nuovo in biblioteca e altri scritti raccolti dall'Associazione Italiana Biblioteche. Roma, AIB, 1994, p. 143-154.
[2] Cfr. Francesca Trombetti, Piccoli opac crescono. Se 4 milioni e mezzo (di libri) vi sembran pochi... "Bibliotime", 2 (1999) 1, <http://spbo.unibo.it/bibliotime/num-ii-1/trombett.htm>.
[3] Cfr. Claudio Gnoli, Opac in Italia: una panoramica delle tipologie e delle modalità di consultazione. "Bibliotime", 2 (1999) 1, <http://spbo.unibo.it/bibliotime/num-ii-1/gnoli.htm>.
[4] MetaOPAC Azalai italiano, <https://www.aib.it/aib/opac/mai.htm>.
[5] Nelle mailing list di lavoro della redazione AIB-WEB ne è invalso anche un altro, credo introdotto da Eugenio Gatto: tutto-maiuscole per i nomi di file o altre espressioni riportate letteralmente, invece delle virgolette o simili.
[6] Cfr. recensione (col titolo Cd-rom in libraries: il futuro è delle reti) a Cd-rom in libraries '93. Networking developments. Atti del 2° workshop, 28 Maggio 1993, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore. Genova, Cenfor, 1993 ("Biblioteche oggi", 12 (1994) 5, p. 27).
[7] Non sono riuscita a parlare di acronimi senza usarne neppure uno: comunque, questa frase NON vuole essere una raccomandazione sulla grafia degli acronimi, ma solo un esempio nel quale le maiuscole abbondano per chiarezza. Chi volesse saperne di più su questo nome può consultare a p. 14 la voce Acronimo nella Enciclopedia dei giochi di Giampaolo Dossena. Torino, UTET, 1999. 3 v. ISBN 88-02-05462-2 (primo volume a/e, l'intera voce Acronimo è alle p. 11-17) e le varie voci ad essa collegate. Se – ma è dubbio – può esistere una trattazione definitiva delle questioni relative agli acronimi, queste pagine di Dossena sono la miglior approssimazione all'obiettivo, comprensiva di cenni su grafia, maiuscole/minuscole, puntini dopo le lettere, sigle Vs. abbreviazioni.
[8] Cfr. Anna Rita Zanobi, Paola Ferro, Guida pratica alle prove d'esame: cenni di biblioteconomia e bibliografia generale con quesiti di verifica. Milano, Ed. Bibliografica, 1999, 190 p.
[9] Cfr. Riccardo Ridi, Metadata e metatag: l'indicizzatore a metà strada fra l'autore e il lettore, relazione presentata al convegno The digital library: challenges and solutions for the new millenium. Bologna, 17-18 giugno 1999, in corso di pubblicazione.
«Bibliotime», anno II, numero 2 (luglio 1999)