Documento di approfondimento realizzato da AIB e ANAI
Qualcuno ha scritto che chi vende la novità ha interesse a far sparire il modo di misurarla e dev’essere proprio così: l’operazione «Digital Library della cultura italiana», annunciata sul sito dell’ICCD come la nascita di un «acquedotto digitale per convogliare le risorse esistenti e quelle che si costituiscono giorno per giorno», è infatti un capolavoro di rimozione e omissione, oltre che un cattivo esempio di mancato raccordo tra fonti normative, di irrazionale organizzazione dei servizi pubblici e persino di provincialismo linguistico e subalternità intellettuale (in Francia o in Germania la scelta di denominare Digital Library un progetto di valorizzazione della cultura nazionale sarebbe imperdonabile).
Il fatto è il seguente: un inopinato decreto ministeriale (DM 23 gennaio 2017, n. 37), pubblicato pochi giorni fa tra lo sconcerto dei più, attribuisce all’ICCD compiti di coordinamento di tutti i programmi di digitalizzazione del MiBACT e la stesura di un piano nazionale per la digitalizzazione del patrimonio culturale. Questi compiti saranno svolti da un ufficio creato ad hoc nell’ambito dell’Istituto, il «Servizio Digital Library», cui sarà preposto un funzionario incardinato nell’Istituto stesso. Una scarna paginetta di relazione illustrativa, qualche «Visto» e «Considerato» buttati lì un po’ a casaccio, ed ecco servito l’unico esperimento mondiale di biblioteca digitale nazionale affidata a una struttura che ha ben altri compiti istituzionali e che, a parte una collezione di fotografie digitali offerte a pagamento (10 euro a foto per finalità di studio personale) [1], non ha mai svolto finora alcun compito significativo in materia di digitalizzazione e il cui catalogo, il SIGECWeb, entrato faticosamente in produzione solo nel 2012, è un inventario di oggetti materiali, basato su standard descrittivi domestici e accessibile esclusivamente agli operatori tramite password (http://sigecweb.beniculturali.it/it.iccd.sigec.axweb.Main/), da cui attinge i dati il cosiddetto Catalogo generale dei beni culturali italiani, consultabile dal 2015 on line, formato in netta prevalenza da beni archeologici e storico artistici, nessun «bene musicale», benché la voce sia prevista.
Il tutto, come se in tema di politiche della digitalizzazione del patrimonio culturale questo paese partisse da zero e non avesse già predisposto soluzioni, peraltro in via di evoluzione e miglioramento, e sviluppato esperienze collegate ai principali sistemi europei e internazionali.
Nessuno nega che quanto fatto finora abbia bisogno di ripensamenti e analisi critiche. Anzi riteniamo che non abbia senso oggi in Italia proporre nuove biblioteche digitali senza fare un’analisi dello stato di salute di quelle esistenti dopo anni di penuria di risorse e di scarsa manutenzione. Nonostante gli encomiabili sforzi del Ministro per accrescere le magre risorse economiche del Ministero e dei suoi istituti, mancano ancora oggi finanziamenti adeguati per gestire come si deve i sistemi informativi esistenti. Come è noto a chi lavora in questo ambito, i nodi riguardano la loro tenuta e il loro aggiornamento, senza cui qualunque iniziativa che voglia coordinarli e “metterli a regime” (come ha dichiarato il Ministro stesso) è destinata a fallire per l’obsolescenza tecnologica e per la mancata rivisitazione dei modelli concettuali destinati necessariamente ad evolvere nella dimensione dinamica del web.
La via da seguire non è quindi ricominciare da capo da qualche altra parte, eventualmente accontentando gli istituti con un comitato scientifico che non si nega a nessuno ma che, in termini di ingegneria istituzionale, tutti sanno non avere alcun peso e alcun ruolo.
Proprio per questo, la soluzione proposta con il decreto appare non solo astratta (perché non tiene conto delle reali condizioni di quanto esiste nel Ministero), ma anche superficiale (perché potrà generare ulteriore dispersione di risorse e rallentare l’integrazione auspicata) e temiamo finisca per tradursi nell’ennesima esternalizzazione, dato che l’ICCD non ha certo le risorse per gestire internamente un progetto così complesso.
Resta da chiedersi se il Ministro che ha firmato il decreto sia consapevole della paralisi organizzativa che esso determinerà, quale modello di gestione abbia preso a riferimento e, soprattutto, quale idea di biblioteca digitale abbia in mente.
Partendo dall’ultimo punto, le nostre Associazioni professionali di archivisti e bibliotecari si riconoscono nella visione espressa nel Manifesto per le biblioteche digitali, elaborato nel 2005 da un gruppo di lavoro dell’AIB. Questo documento, tra l’altro, afferma che le biblioteche digitali «promuovono conoscenza», «integrano comunità», «diffondono i documenti», “mal sopportano il centralismo” e che «Lo sviluppo coordinato delle biblioteche digitali è garantito dall’adozione e dalla diffusione di standard tecnologici che ne assicurino l’interoperabilità e da modelli organizzativi che ne promuovano la cooperazione».
Ci domandiamo se la nuova cd. Digital Library sarà preordinata a queste finalità e secondo questa prospettiva aperta e inclusiva, o se, a dispetto del nome, sarà poco più di una piattaforma di e-commerce, come l’esibizione di foto a pagamento attualmente presente sul sito dell’ICCD.
Per capire poi l’impatto organizzativo, basti osservare alcune tra le rimozioni/omissioni più stridenti nel testo del DM e relativa relazione illustrativa (per tacere degli annunci).
Clamorosa è l’assenza di qualsiasi riferimento o tentativo di raccordo a un paio di fonti di rango primario che non sono certo irrilevanti in materia di politiche del digitale, quali il Codice dell’Amministrazione digitale e la Legge sul deposito legale.
Per limitarsi a quest’ultima, vale ricordare che essa vede quali principali istituti depositari la Biblioteca nazionale centrale di Firenze e la Biblioteca nazionale centrale di Roma e ha la finalità di documentare e assicurare la fruizione a lungo termine dei documenti di interesse culturale destinati all’uso pubblico e fruibili mediante la lettura, l’ascolto e la visione, qualunque sia il loro processo tecnico di produzione, di edizione o di diffusione, ivi compresi quelli digitali o digitalizzati e diffusi tramite rete pubblica. Le Biblioteche nazionali centrali, insieme alla Marciana, hanno da tempo implementato e collaudato il progetto Magazzini digitali, conforme a tutti gli standard internazionali in materia di conservazione a lungo termine. Il sistema è attivo e, in attesa del regolamento attuativo che lo renderà effettivamente vincolante, è stato finora popolato grazie a convenzioni per il deposito volontario delle pubblicazioni di editori non commerciali ed enti pubblici (tra questi ultimi, molte università). Le Biblioteche depositarie potranno esigere per legge dall’ICCD la consegna dei documenti digitali da esso prodotti: è plausibile che al contempo vengano a loro volta coordinate da un ufficio del medesimo Istituto, che è per giunta esterno alla DG Biblioteche?
Si noti poi che la mole di documentazione digitale soggetta a deposito è destinata a crescere per effetto della crescente quantità e complessità dei documenti pubblicati in tale formato, sia tramite canali editoriali tradizionali, sia a seguito della digitalizzazione di materiali analogici, sia per effetto di recenti misure normative che hanno esteso gli obblighi di pubblicazione degli organismi pubblici sul proprio profilo web (si tratta di materiali archivistici), sia infine per l’importanza che va assumendo la pubblicazione e il riutilizzo dei dati primari utilizzati nell’ambito della ricerca scientifica. Ne deriva che i programmi di conservazione, documentazione e fruizione a lungo termine di risorse digitali oggetto di deposito legale dovranno necessariamente comprendere anche i siti web degli enti produttori e le loro infrastrutture di aggregazione (in primis, quelle gestite da ICCU e ICAR). Sarebbe quantomeno bizzarra l’ipotesi che il coordinamento delle relative attività fosse affidato a un istituto come l’ICCD che, per il tipo di documentazione gestita (peraltro, generalmente meno onerosa in termini di trattamento documentario rispetto alle fonti a carattere testuale), non può che avere un ruolo del tutto marginale in materia.
Manca inoltre qualsiasi riferimento ai DM del 2008 che attribuiscono specifiche funzioni all’ICCU e all’ICAR. E tantomeno tali funzioni sono concretamente «Considerate» (nella premessa, nell’articolato o nella relazione illustrativa).
Per quanto riguarda in particolare l’ICCU, vengono completamente ignorati le attività e i servizi prodotti e/o coordinati da tale Istituto:
- Internet Culturale, inizialmente e non a caso denominata Biblioteca Digitale Italiana – Network Turistico-Culturale, che oggi conta circa 1.000.000 tra libri, riviste, carte geografiche, lettere, spartiti, sonoro, video, foto, 3D, prodotte da centinaia tra biblioteche, musei e istituti culturali dello Stato, delle Università, delle Regioni, degli Enti locali e da organizzazioni private. Internet Culturale fornisce i dati a Europeana, la biblioteca digitale europea al cui sviluppo l’ICCU ha contribuito realizzando numerosi progetti, e alla World Digital Library, l’aggregatore internazionale promosso dall’UNESCO e gestito dalla Library of Congress;
- SBN, il Servizio bibliotecario nazionale, che ad oggi unisce in rete oltre 6.000 biblioteche italiane, offrendo un catalogo collettivo pubblicamente accessibile con oltre 16.000.000 di record bibliografici corredati da quasi 85.000.000 di localizzazioni, tramite un sito che risulta essere in testa alle classifiche annuali dei più consultati dall’Italia e dall’estero e una infrastruttura di servizi collaborativi fondati sulla condivisione di attività, competenze e risorse a beneficio del pubblico. SBN garantisce inoltre, dai record descrittivi, accesso diretto alle versioni digitali delle opere se presenti in Italia, salvo il rispetto del diritto d’autore e dei contratti di licenza;
- Il censimento delle edizioni del XVI secolo (Edit16), con link diretto a oltre 4.200 copie digitali totali o parziali e dei manoscritti (Manus online), associati a circa 28.000 immagini digitali presenti nelle biblioteche italiane, l’Anagrafe nazionale delle biblioteche italiane con 13.718 biblioteche censite, 303 delle quali appartenenti al MiBACT;
- Cultura Italia, l’aggregatore nazionale con più di 3 milioni di record di fonti digitali culturali prodotte in Italia da organismi pubblici e privati di varia tipologia e provenienza. Integrata in Cultura Italia si trova tra l’altro MuseiD, la biblioteca digitale dei musei italiani, con 70.000 record messi a disposizione da 489 musei di varia tipologia e appartenenza istituzionale;
- Il supporto scientifico e tecnico alla standardizzazione catalografica (le ReICAT) e alla realizzazione di sistemi integrati per la gestione di collezioni digitali eterogenee come, da ultimo, Metafad, un sistema open source per la gestione integrata dei beni culturali.
Del pari, vengono rimosse/ignorate le competenze dell’ICAR in materia di elaborazione di metodologie di ordinamento e inventariazione di archivi storici, gestione e conservazione degli archivi in formazione, applicazione di nuove tecnologie, sebbene l’ICAR gestisca il SAN Sistema archivistico nazionale che è il punto di accesso unificato alle risorse archivistiche rese disponibili sul web da amministrazioni dello Stato, delle Regioni, degli Enti locali e degli altri organismi pubblici e privati ed offra una fondamentale infrastruttura tecnico-scientifica per la cooperazione e l’interoperabilità tra archivi.
Non si tiene conto della necessità di rivedere impianti e strutture specifiche del SAN, riconoscendo che si tratta di un lavoro di back end (poco mediatico) complesso e di lunga lena per il quale le risorse non si riescono mai trovare, così come non ci sono per quella formidabile digital library di 54.000.000 di immagini destinate a divenire presto il doppio, che è costituita dal «Portale Antenati, Gli archivi per la ricerca anagrafica» che ha bisogno anch’essa di un profondo lavoro di reingegnerizzazione per sostenere la massa dei materiali e quella degli utenti (poco meno di un milione di utenti l’anno, 100 milioni di immagini visualizzate lo scorso anno). Da mesi L’ICAR lavora (con pochissime risorse) per migliorare questo strumento (ed evitarne anche in questo caso l’incipiente obsolescenza) senza che i fondi ripetutamente richiesti siano stati erogati.
Merita infine sottolineare, a proposito del modello organizzativo e sulla base di una rapida rassegna dei grandi progetti di biblioteca digitale nazionale attivi in altri stati, che dovunque questi progetti sono frutto di accordi interistituzionali ad ampio raggio che realizzano network collaborativi di biblioteche, archivi, musei e altri istituti scientifici e culturali nel rispetto delle specificità documentarie e di servizio di ogni partner, affidandone la guida a strutture di comprovata competenza ed esperienza nel campo. E che si chiamino «biblioteche» dipende dalla maggiore complessità della digitalizzazione e trattamento bibliografico di uno solo libro o altro documento a carattere testuale rispetto a quella presentata da un reperto (si pensi solo al numero di fotografie digitali da acquisire nell’uno e nell’altro caso).
Purtroppo il modello italiano delineato dal recente DM non è ispirato ad alcuna buona prassi internazionale: l’accentramento per decreto, senza una adeguata valutazione d’impatto di un «Servizio di Digital Library», in capo a un ufficio di un istituto che ha finora ispirato la sua policy a modelli proprietari di gestione dei dati e dell’informazione, senza nemmeno una adeguata motivazione che spieghi perché si vuole una nuova biblioteca digitale (pardòn, Digital Library), e se la si concepisce al posto di o in aggiunta a quelle esistenti, appare una scelta non adeguatamente ponderata, sulla quale chiediamo con forza un ripensamento e una pubblica discussione.
[1] Tariffe e modalità d’uso sono indicate all’URL http://www.fotografia.iccd.beniculturali.it/index.php?r=articoli/view&id=6:
«Ottenere una riproduzione – Modalità e costi per l’acquisizione di una riproduzione
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