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"17. Seminario Angela Vinay"
bibliotECONOMIA
conservare il futuro

Tavola rotonda
Consumare il presente o conservare il futuro?

Giorgio Busetto, Direttore dell'Asac della Fondazione La Biennale di Venezia


Conservare il passato è una formula che ho coniato in un contesto molto preciso, quello della definizione, stabilita coi colleghi, della missione della Fondazione Querini Stampalia, quando ancora la dirigevo, e devo dire che si è rivelata una formula piuttosto fortunata. Tra l'altro a me ha consentito di avere una vacanza in Sicilia, spesata dai Florio di Donnafugata, perchè avevo chiacchierato nelle pause dei lavori di una commissione con Philippe Daverio di questa nozione ossimorica della conservazione del futuro; lui, che era stato richiesto dai Florio di Donnafugata di organizzare un meeting che celebrasse la vendemmia di notte, lo ha intitolato appunto "Conservare il futuro" e quindi mi ha voluto invitare a questo passaggio. Racconto questa cosa solo per dire quanto sia intrigante questa formula. Ma lo è perché corrisponde ad una realtà delle cose, cioè al fatto che esiste una consecuzione fra il passato, presente e futuro. Quando la Biennale ha organizzato a dicembre dell'anno scorso un convegno sulla formula di arti visive, il presidente Croff introducendolo ha citato Sant' Agostino che parlava del presente come passato del futuro ed effettivamente questi sono i termini della questione. Intrigante è davvero la realtà delle cose, il fluire della nostra esistenza e il fluire dell'esistenza delle cose, tutto naturalmente, tanto noi quanto le cose, destinato a morte anche se "certa la morte, incerto il suo momento" come recita l'apertura del testamento con cui il Conte Giovanni Querini Stampalia mirabilmente avvia la conservazione del futuro con atto di immaginazione che diverrà, dopo la sua morte, atto di istituzione della sua Fondazione. Il futuro si costruisce nel presente e il futuro è stato costruito nel passato e conviene avere il senso di questa continuità per affrontare in maniera debita la questione.

Una delle cose che ciò propone è immediatamente la questione della cultura, da un lato degli operatori e dall'altro del pubblico e della società, del pubblico dei nostri servizi e della società più in generale. Insisto sull'importanza dell'argomento: la costruzione della cultura degli operatori e la costruzione della cultura del pubblico, oltre che della cultura più generale della società cui appartiene il pubblico dei nostri servizi, che peraltro non esaurisce tutta la platea della società di riferimento, quella in cui noi viviamo, quella in cui noi operiamo e in cui si situa anche economicamente la nostra attività.

Mi pare che questo sia già emerso in alcuni degli interventi precedenti e devo dire che nella mia esperienza degli ultimi anni sempre più forte all'interno della questione della cultura, e della cultura degli operatori in particolare, ha preso grande evidenza il tema della storia. Credo sia fondamentale, e l'ho rivendicato ancora in questa sede, ritornare all'esistenza di bibliotecari colti e che in particolare questa cultura dei bibliotecari sia una cultura storica. Questo significa avere la capacità poi di situare entro la storia tutto e quindi anche il divenire, anche il futuro, e significa avere la coscienza che la storia è un fatto assolutamente soggettivo e individuale, è una narrazione, a partire da elementi dati, che ognuno soggettivamente dà e quindi non esiste l'oggettività storica e non esiste la storia oggettiva.

Dentro a questo tipo di riferimenti, per cui è importante che l'operatore del servizio culturale sia tecnicamente fondato e quindi specialista, ma è anche importante che abbia una competenza generalista e in particolare una competenza storica e una coscienza storica adeguate, si situa tutta la questione anche del divenire dei nostri strumenti. Sempre di più, ne parlava prima Aillagon, il fatto di smaterializzare dei supporti ci mette in una condizione operativa completamente diversa e quindi la biblioteca, l'archivio, il museo, sempre di più vanno in direzione dell'essere teletrasmessi e questo significa che tutta una serie di notizie, che venivano tradizionalmente consegnate al documento cartaceo o all'oggetto, adesso possono arrivare sul nostro telefono cellulare, possono arrivare sul video del nostro computer, ci mettono in condizione di vedere come l'accumulazione e trasmissione del sapere prendano delle forme assolutamente nuove; il che porta con sé una serie di conseguenze, tra l'altro la diminuzione del numero degli utenti fisicamente presenti, la diminuzione o almeno la variazione della loro preparazione e così via. Tutte queste questioni pongono, non direi tanto degli interrogativi, quanto degli input, ci danno degli ordini per rapporto al nostro modo di operare.

Giustamente è stata invocata la questione dell'interoperabilità, una questione assolutamente fondamentale; questo significa andare alla definizione degli standard, creare degli standard condivisibili, perché se noi entriamo nel merito degli esistenti, ci rendiamo conto che sono insufficienti a dominare tutta la realtà da trattare e quindi vanno anche creati dei nuovi standard, e la questione si lega poi alla nostra capacità di operare per reti, cioè la costruzione di reti specialistiche e l'uso delle reti informatiche, ci può consentire laddove esiste l'interoperabilità, quindi laddove esistano degli standard che sono debitamente condivisi, di fare un grosso passo in avanti.

La cooperazione interbibliotecaria ha insegnato molto in questo senso, il modello di SBN è un modello che non ha solamente messo l'utente in condizione di raggiungere il documento, ma ha altresì mutato la cultura degli operatori, insegnando a mettere in rete e a condividere le risorse e il lavoro, con logiche cooperative di economia di scala che consentono di affrontare, e in parte risolvere, anche problemi spinosi, come è quello dell'Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale che io dirigo. Si tratta di una struttura di servizio che è definibile come archivio di documentazione, oppure come biblioteca multimediale, possiamo chiamarla in varia maniera, che è chiusa al pubblico, non ha sede, il servizio è cassato. La disponibilità della sede è per legge una responsabilità del Comune di Venezia, ma il Comune di Venezia non appare in grado di assolvere a questo proprio compito, anche se si sta affannando nell'attuale gestione a corrispondere ad una serie di necessità della Fondazione La Biennale; il problema è che deve fare i conti con una situazione di deinfrastrutturazione che corrisponde a quella complessiva del paese. Nel caso della Biennale dopo il fascismo, ben poco è stato fatto, la vera grande novità della Biennale è stata l'occupazione di spazi all'Arsenale, ma sono spazi non restaurati e quindi fruibili in maniera del tutto precaria e temporanea, stagionale. Naturalmente il mondo è andato notevolmente avanti e quindi le strutture fatte negli anni '30, si rivelano del tutto insufficienti, rispetto alla necessità dell'oggi, e in particolare all'emergere di una competizione sempre più spinta tra strutture e più in generale tra città. Le città sono creature viventi, vanno avanti, si moltiplicano, crescono, specializzano le loro deleghe e quindi esiste anche una competizione fra città e esiste una competizione fra istituzioni, cioè esistono soggetti che si propongono di assolvere funzioni, ma a seconda della loro capacità attraggono un pubblico, risorse e così via, in concorrenza tra loro.

In tale contesto l'attivazione di strumenti catalografici in linea e di riproduzione digitale di documenti apre la strada a servizi al pubblico erogabili nonostante la mancanza di sede.

Ma torniamo al discorso sulla vita delle città e proviamo a riferirlo a Venezia. Io credo che se noi facciamo una ricognizione su quella che è la situazione veneziana, qui invocata in particolare dal Rettore di Ca' Foscari Ghetti, la interoperabilità è qualche cosa che avviene in alcuni casi e non avviene in moltissimi altri, non esiste ancora un progetto della struttura della città. E' stato osservato che il sistema della cultura a Venezia può essere l'unica alternativa alla monocultura turistica, ma l'Università è stata un agente possente nella distruzione di un altra grande opzione che avevamo teorizzato in decenni passati, quella del direzionale. Evidentemente la città, e per la città il Comune, sono stati incapaci di relazionarsi con l'Università, e questa ha occupato da Santa Marta a San Giobbe, tutta la testa di ponte che garantisce l'accessibilità verso la terraferma e quindi ha di fatto esaurito, tutte le possibilità del direzionale. La combinazione dell'assenza di accessibilità, di parcheggi, e il tormento dell' acqua alta conseguenza della mancata chiusura delle bocche di porto, ha determinato l'impossibilità del centro storico veneziano, di avere quel direzionale che normalmente è allocato nei capoluoghi regionali, in tutti i centri storici del mondo; e questo noi lo dobbiamo a una radicale incapacità di progettare il futuro che è specifica della nostra comunità veneziana; una comunità capace anche di analizzare i dati, tant'è che era stata prevista l'ondata della monocultura turistica, erano stati indicati i possibili rimedi, si era detto: la cultura e il direzionale possono essere deleghe da affidare al centro storico cittadino, ma nulla si è fatto per garantirlo, quindi la turisticizzazione della città ha galoppato inesorabilmente.

Oggi si pone la questione di come fronteggiarla a partire da questo ultimo avamposto della cultura rappresentato dall'Università, con la presenza di circa 30.000 tra studenti e professori, in una città che ha circa 60.000 abitanti, quindi una quota davvero significativa per rapporto alla politica della residenza e così via, ma questo avviene nel momento in cui c'è un altra grande tendenza nel mondo, matura ormai, quella della specializzazione dei quartieri all'interno delle città, e non si riesce più a far convivere generazioni diverse, in condizioni familiari differenti. Sempre di più le città si specializzano, ghettizzando: ci sono le famiglie con i bambini piccoli, ci sono gli anziani, ci sono i giovani e ognuno di questi gruppi, finisce per occupare un quartiere distinto dagli altri, quindi affrontare questa situazione è una questione della cultura intesa come struttura all'interno di una struttura più ampia come quella della città, in un momento in cui, lo stiamo vedendo con la Biennale Architettura, il mondo diventa città, tutto il mondo si sta strutturando per città. Quindi anche la dicotomia città-campagna, viene tendenzialmente meno, perché semplicemente sparisce la campagna e una quantità crescente di umani entra nelle città e le città prendono un modo di funzionare, un modo di proporsi, che è sempre più dinamico, sempre più vivace, sempre più carico d'informazione; la città è informazione e sempre di più questo richiede una capacità di progettazione del futuro e di strutturazione della cultura all'interno di una più complessa progettazione del futuro.

Concludo dunque: ovviamente i temi sono tali e tanti per cui si potrebbe discutere per giorni e giorni di queste questioni, ma mi sembra di avere già toccato più di qualche argomento presente al nostro dibattito di oggi.


Copyright AIB 2007-08, ultimo aggiornamento 2007-09-23 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
URL: http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay17/busetto06.htm


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