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"15. Seminario Angela Vinay"
bibliotECONOMIA
dal costo al valore

INTERVENTI DI APERTURA

Chiara Rabitti, Direttore della Fondazione Querini Stampalia


Voglio innanzitutto ringraziare tutti quegli enti e istituti che, con motivazioni e ruoli diversi, hanno ritenuto di condividere con noi il cammino di questo seminario, promuovendolo insieme con la Fondazione Querini Stampalia: la Regione del Veneto, la Provincia di Venezia, il Comune di Venezia, l'Istituto Centrale per il Catalogo Unico, l'Univesità Ca' Foscari, la Sezione Veneto dell'Associazione Italiana Biblioteche; e quest'anno anche l'Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Fondazione La Biennale di Venezia e CODESS Cultura, che se è un nuovo ingresso tra gli enti titolari per la verità aveva già partecipato all'organizzazione di quel primo seminario sull'automazione delle biblioteche nel Veneto che nel 1989 aprì la serie intitolata l'anno successivo alle memoria di Angela Vinay.
Come sempre, anche quest'anno il mio compito introduttivo è quello di presentare il programma dei nostri lavori, ripercorrendo le linee di riflessione che mi hanno portato a queste giornate.
Continuando la serie dedicata alla bibliotECONOMIA, il tema specifico di questa edizione sarà dunque il percorso "dal costo al valore". Che cosa questo significhi è illustrato nella scheda che accompagna il programma e che cercherò in qualche modo di espandere in questo mio intervento, per meglio dar conto della struttura e degli obiettivi del seminario. Dal costo al valore... in realtà più che di un percorso, si tratta di una domanda: tutto il nostro lavoro è un costo o un valore?

Ho cercato innanzitutto di riprendere il filo del discorso dei seminari precedenti, partendo dalla valutazione della cooperazione. La cooperazione è un tema ricorrente dei Seminari Angela Vinay e infatti abbiamo parlato di cooperazione praticamente in tutte le edizioni. La cooperazione è stata promossa, sostenuta, voluta, ritenuta - e forse davvero lo è - un valore di per se stessa, nel nostro lavoro come in tante altre sedi. Mi è sembrato che fosse venuto il momento di pensare anche alla possibilità di analizzarne il valore economico, considerando, se veramente esiste una reale economia nella cooperazione tra biblioteche, quali siano gli strumenti per misurarla e per verificarne i risultati. All'interno dell'Associazione Italiana Biblioteche un Gruppo di lavoro si occupa già da qualche anno di questi aspetti, sperimentando l'estrema difficoltà di confrontare i diversi segmenti e prodotti del nostro lavoro e di stimarne l'effettiva portata e convenienza. Incrociando i risultati del Gruppo con il percorso che la Regione del Veneto sta seguendo attraverso la promozione e il supporto dei centri servizi provinciali, ho pensato di calare il discorso proprio nella realtà di questi centri servizi veneti, e quindi di considerare la situazione delle province venete in rapporto a quegli strumenti di valutazione della cooperazione bibliotecaria che il Gruppo di lavoro sta eleborando. La cooperazione è quindi un costo o un valore reale per la singola biblioteca?

Un altro elemento da approfondire è quello della valutazione del lavoro. Sappiamo - e lo dicono anche le Linee di politica bibliotecaria per le autonomie, che sono secondo me uno strumento molto importante nel recente quadro normativo e di indirizzo per quel che riguarda i servizi bibliotecari in Italia - che la professionalità degli operatori rappresenta la risorsa principale del sistema. Quindi il lavoro che noi svolgiamo è un indiscutibile valore; sappiamo peraltro che il personale costituisce al maggior voce di costo nel bilancio delle biblioteche... Possiamo definirlo un costo fisso, anche se ormai sappiamo bene che anche all'interno delle biblioteche sono molto diffuse svariate forme di lavori che fissi non sono, e a volte non configurano nemmeno un costo, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ne conseguono per le persone, le strutture, i risultati. Valutare il lavoro quindi significa valutare da una parte la qualità del lavoro che viene svolto, dall'altra la qualità del riconoscimento di questo lavoro. Sappiamo come i bibliotecari siano inquadrati in tutti i modi possibili: con rapporti di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato, di collaborazione, a progetto, in appalto etc.; a livelli diversi poi nell'ambito di contratti diversi, in quanto le biblioteche sono inserite spesso in strutture più ampie, e quindi il contratto del bibliotecario sta all'interno dei contratti di lavoro più disparati, secondo il settore di attività delle strutture di appartenenza.
La difficile e incerta collocazione del nostro lavoro mi è apparsa in realtà ancora più evidente proprio nel preparare la sessione dedicata alla valutazione della cooperazione, attraverso dei segnali che possono sembrare forse poco significativi, ma sono in realtà rivelatori di un contesto piuttosto nebuloso. Quando ho iniziato a contattare i responsabili dei centri servizi bibliotecari all'interno delle diverse amministrazioni provinciali, ho infatti subito riscontrato che questa responsabilità era attribuita ad aree, dipartimenti, settori, servizi (chiamiamoli come vogliamo) diversi da una provincia all'altra; già a questo livello quindi mi è apparso chiaro dalla disomogenea contestualizzazione come questa nostra attivitào possa essere diversamente inquadrata e considerata nelle province di una stessa regione.
Vario è dunque il quadro in cui si inserisce il lavoro del bibliotecario, varia la sua qualità, vario il riconoscimento che gli viene attribuito. Ma questo lavoro è un costo o è un valore? Di tutto questo parleremo oggi.

Nella giornata di domani cercheremo di andare un po' più in là, proiettando la nostra riflessione di oggi in una prospettiva più generale, più astratta forse ma non meno concreta nelle conseguenze, riferendoci cioè in primo luogo al valore della conoscenza nella società. Ho avuto recentemente in mano il rapporto finale di una ricerca svolta da AICA (Associazione Italiana per l'Informatica e il Calcolo Automatico) in collaborazione la Scuola di Direzione Aziendale dell'Università Bocconi: Il Costo dell'Ignoranza nella Società dell'Informazione, un titolo in perfetta consonanza con il nostro seminario di quest'anno. Si tratta di un rapporto che si riferisce soprattutto a conoscenze di tipo informatico, e che attraverso l'analisi di vari parametri va a calcolare alla lira (se ancora così si può dire) i costi dell'ignoranza, in particolare dell'ignoranza e del cattivo o scarso uso delle tecnologie all'interno di aziende e strutture. Forse non è proprio così facile tradurre in cifre di denaro sonante il divario più generale tra conoscenza e non conoscenza, possibilità o impossibilità di accedere all'informazione in tutte le sue forme; tuttavia è proprio questa la direzione che ho pensato di indicare, per cercare di percorrerla almeno con gli strumenti disponibili: si può o non si può valutare la conoscenza e l'ignoranza? Il rapporto citato parte da delle valutazioni fatte a seguito di una ricerca in Norvegia, per riportare poi il discorso in Italia fornendo dati e cifre sicuramente impressionanti: d'altra parte abbiamo assistito in questi anni ad un grande sviluppo delle tecnologie anche all'interno dei nostre biblioteche, dei nostri uffici, in tutti i luoghi di lavoro, e forse non ci siamo subito resi conto che le tecnologie da sole non bastano se non c'è una formazione adeguata, cioè una corretta conoscenza per un corretto uso. Questa dunque dovrebbe essere la prospettiva della Tavola Rotonda finale, per portare però il nostro discorso sul valore della conoscenza oltre il limite del ristretto ambito tecnologico.
La prima parte della mattinata di domani sarà non a caso riservata proprio alla presentazione di alcuni progetti del Ministero per i Beni e le attività culturali, che rappresentano l'espressione di una precisa consapevolezza e volontà di non far rimanere indietro la conoscenza rispetto all'evoluzione della tecnologia, recuperando quel costo dell'ignoranza che spesso pesa sulla nostra società e sulle nostre stesse strutture culturali.
La sessione conclusiva, dedicata alla Tavola Rotonda in cui come nelle edizioni precedenti si cercherà di fare un passo indietro e prendere la rincorsa per sollevarsi un po' più in alto, si intitola "Valutare il servizio: per un bilancio sociale dei servizi bibliotecari". Un bilancio sociale: per le aziende, soprattutto nell'industria, che producono profitto, il bilancio sociale ha spesso la funzione di giustificare questo profitto esaltandone il valore per la società. Personalmente credo sia scontato che il profitto le biblioteche non lo produrranno mai, perché non è quello che devono produrre: per noi redigere un bilancio sociale significa, ed è sicuramente moto più difficile, andare ad individuare il valore sociale del nostro costo.
A questo punto si può fare la solita considerazione, che quasi rimbalza dalle precedenti edizioni: in questo ambito esistono ormai molti studi, lavori, analisi, idee per quanto riguarda il settore del bene culturale museale; per le biblioteche invece il cammino è ancora lungo, anche se qualcosa si sta cominciando a fare e qualche riflessione inizia a svilupparsi. Io peraltro ripeto qui qualcosa che ho avuto occasione già di dire e scrivere in altre sedi - forse un po' provocatoriamente -, ma in cui credo sempre di più: ricordamoci che noi ci occupiamo di beni culturali, e riflettiamo su cosa questo significhi. All'interno delle biblioteche conosciamo bene la contraddizione quotidiana tra conservazione e fruizione, il doppio ruolo di chi deve conservare e quasi musealizzare i supporti e di chi deve invece (e contemporaneamente) far circolare l'informazione. Ebbene, io sono convinta che compito delle biblioteche sia comunque sempre, proprio in funzione e nell'atto stesso della fruizione, quello di conservare: non solo conservare gli oggetti, ma conservare la cultura stessa, non cristallizzandola ma trasmettendone la grammatica generativa e quindi la capacità di crescere, evolversi ed espandersi. Direi che il vero bene culturale di cui ci dobbiamo occuparci, al di là del libro più o meno antico, raro o di pregio (e anche attraverso di questo), è la cultura stessa della comunità che serviamo. Forse paradossalmente, ritengo che se mi limito a conservare gli oggetti ma non faccio crescere la cultura che ne trae vantaggio e che ne gode, il bene culturale non ha più senso. Esso esiste infatti soltanto nel momento in cui siamo capaci di far crescere, diffondere, ampliare, la capacità di fruirne, e questo credo sia un valore fondamentale. Si tratta peraltro di un valore immateriale, non misurabile, non quantificabile immediatamente, per lo meno non con gli strumenti che io ho oggi a disposizione: forse altri possono avere migliori strumenti, e per questo abbiamo chiamato degli economisti a darci una mano con la loro competenza.
Vorrei a questo punto leggere alcune considerazioni tratte dalla recensione di un testo che ho scoperto durante la preparazione di questo seminario: non è da bibliotecario attingere alla recensione anziché direttamente all'opera, ma ciò mi consente di offrire già pronta una sintesi chiara di alcuni concetti di particolare interesse e suggestione. Si tratta di L'immateriale. Conoscenza, valore e capitale di André Gorz, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2003, e la recensione è quella di Sergio A. Dagradi disponibile sul Sito Web Italiano per la Filosofia:

Affermare che nella società dell'intelligenza il sapere, unito all'immaginazione, è venuto a costituire il capitale primo da valorizzare ha tuttavia alcune implicazioni che mettono in scacco proprio il modo stesso di produzione capitalistica. Anzitutto, mentre il lavoro di produzione materiale era misurabile in unità di prodotto per unità di tempo, le forme del lavoro caratterizzate dallo sfruttamento di questo bene immateriale che è il sapere sfuggono all'applicabilità delle unità di misure classiche. [...] Vi è tuttavia un'inesorabile difficoltà a formalizzare, e quindi a misurare, proprio questo crescente coinvolgimento soggettivo, tale da mettere in discussione quella stessa nozione di valore che sola permette il funzionamento del modo capitalistico di produzione. [...] La difficoltà di far funzionare con regole capitalistiche ciò che vi sfugge perché non ha un valore oggettivabile, pone la necessità storica, espressa per esempio già da Jacques Dubois, del passaggio a un'economia plurale, ovvero di un'economia che accolga altre modalità di accesso ai beni, al di là del mercato.

Da questi spunti forse potremo utilmente muovere, portando avanti la riflessione nella nostra Tavola Rotonda. Si può essere d'accordo o non d'accordo, possono esserci molte altre cose da dire; mi sembrano comunque delle idee che opportunamente si inseriscono nella cornice di questo seminario.

Concludendo, permettetemi una breve e semiseria appendice metodologica. Durante l'ultima Conferenza di Primavera dell'AIB mi è capitato di auspicare la realizzazione di un nuovo modello di convegno, che confesso di non essere stata personalmente capace di mettere in pratica con questo seminario. Nel mio convegno ideale innanzitutto è proibito coniugare i verbi al futuro: tutti i relatori possono parlare per un quarto d'ora, ma il pubblico caccia immediatamente chi usa questa forma verbale. Ciò comporta una sicura, anche se maliziosa, attenzione da parte degli uditori e obbliga i relatori a parlare di fatti concreti e obiettivi raggiunti, non solo di progetti, programmi, promesse e speranze. Solo ai relatori che superano questa prova nel corso della mattinata è consentito usare verbi al futuro, parlando nel pomeriggio per un altro quarto d'ora; politici e amministratori, che generalmente aprono i lavori, possono invece solo concluderli, e solo se sono stati sempre presenti seguendoli fin dall'inizio.
Ebbene, forse questo schema è un po' rigido, forse i temi del nostro seminario richiedono necessariamente una certa flessibilità e proiezione verso il futuro, certo è che non sono riuscita a rispettarlo nell'organizzare queste giornate; d'altra parte riconosco che con ogni probabilità neppure i colleghi che hanno più apprezzato per questo mio modello teorico sarebbero in grado di superare brillantemente le insidie di un convegno che lo applicasse alla lettera. Sono convinta tuttavia che tutti, e io stessa per prima, ne possiamo ricavare qualche utile linea di riflessione e di comportamento.

Lascio ora la parola a Luciano Scala, che presiederà il seminario. Luciano Scala è oggi il Direttore Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ma presiederà questo incontro come Direttore dell'ICCU, secondo la tradizione di tutti i Seminari Vinay; ci doveva la presidenza dall'anno scorso, quando ricoprendo quell'incarico non aveva potuto partecipare, e quest'anno è qui a pagare volentieri il suo debito, cosa di cui lo ringrazio particolarmente.
Buon lavoro, come sempre, a tutti noi.


Copyright AIB 2005-08-09, ultimo aggiornamento 2005-10-02 a cura di Marcello Busato e Giovanna Frigimelica
URL: http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay15/rabitti04.htm


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