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"14. Seminario Angela Vinay"
BibliotECONOMIA
la frontiera digitale

PROGETTI E STRATEGIE
Dibattito

Giorgio Busetto
Direttore Fondazione Querini Stampalia


Anch’io sono rimasto colpito, come Tommaso Giordano, dal paragone che Igino Poggiali ha voluto istituire tra se stesso e il Papa. Così ho pensato a chi invece io potevo riferirmi, e per analogia mi è venuto in mente prima il parroco di campagna, e subito dopo Jacques Paul Migne che per il parroco di campagna ha costruito la Patrologia, e che immaginava quindi il parroco di campagna un po’ più colto di quelli che siamo stati abituati a vedere. Il problema riguarda indubbiamente da vicino il bibliotecario, la temperatura della sua cultura: man mano che avanza la tecnologia la realtà diventa sempre più complessa e più difficile da dominare, e sempre di più richiede una competenza particolarmente vasta, di natura tecnica e gestionale, che però poggi su un adeguato background. Questa mi sembra un tema sul quale non potremo smettere di insistere, perché viceversa la debolezza del background si manifesta sempre più clamorosamente, in ragione proprio delle aumentate necessità della conoscenza generale diffusa. Intendo dire che il background è più debole perché oggi, pur sapendosi molte cose, non se ne sanno abbastanza: se ne sanno cioè di più di quelle che si sapevano nel passato, ma non abbastanza per l’aumento delle necessità in rapporto al passato.

A proposito delle biblioteche del meridione poi ricordo che Paolo Costa quando uscì dal Ministero – il nostro attuale Sindaco è stato Ministro dei lavori pubblici nel governo Prodi – mi raccontò di aver portato l’acquedotto in cento comuni del Mezzogiorno, e che io solo allora mi resi conto di una situazione di cui non ero consapevole. In realtà mancano sì le biblioteche, ma ci sono moltissimi posti in cui manca ancora l’acqua, e senza che neppure li abbiano bombardati gli americani.

Allora il problema è ancora una volta quello di lavorare per l’identificazione di un’adeguata cultura di governo che affronti queste complessità: ci troviamo infatti in una situazione in cui dobbiamo fare gli acquedotti, le strade, l’infrastrutturazione generale cioè, e con questa anche gli aggiornamenti della nostra antiquata infrastrutturazione culturale. Tutto questo a fronte di un debito pubblico schiacciante, che rende bassissime le risorse da canalizzare rispetto alla trasformazione, e in presenza di ulteriori novità di tipo epocale, come l’aumento dell’età media che spinge molto in alto il fabbisogno di assistenza; d’altra parte la compressione sul bilancio statale causata dal debito pubblico induce a tagliare le spese per la sanità, con una forte ricaduta sulla spesa per l’assistenza che va a carico dell’ente locale, il quale si trova ad avere una notevole esposizione in questo settore proprio mentre si riducono i trasferimenti da parte dello Stato. Si tratta quindi di una tenaglia che si abbatte fatalmente sulla spesa per la cultura, la quale risulta l’unica spesa realmente disponibile, cioè realmente tagliabile, nei bilanci in generale. Ci troviamo quindi ad affrontare una situazione di forte compressione delle risorse dovuta a questioni di carattere generale.

Quello che ha detto Claudio Chetta va inteso correttamente come l’indicazione di una possibile strada: ma occorre capire che cosa si intende per ricavi. Mi sembra che abbia detto che un servizio di natura sociale è esso stesso da considerare un ricavo. Non è stato quindi il suo un discorso monetaristico né semplicistico; certamente però è un discorso molto pericoloso per quella che è la cultura diffusa. Riclassifichiamo allora i flussi, e andiamo a chiamare ricavi determinate produzioni, e non il ricavo delle produzioni: non faccio pagare chi viene in Biblioteca, ma chiedo il denaro al Comune, alla Regione, allo Stato a fronte di quello che produco; io lo chiedo però anche ai privati e li invito ad autotassarsi, pagando la mia immagine, il mio servizio, la mia qualità.

Il problema, secondo me, è dunque di ordine più generale e riguarda la qualità del mercato, cioè l’esplosione in termini di ristrutturazione capitalistica dopo la caduta del muro di Berlino: questa sposta tutti gli elementi e spinge il mercato a dilatarsi, mentre il mercato per funzionare ha bisogno di essere debitamente temperato. Credo allora che sostanzialmente la questione sia quella di capire dove e come andiamo a temperare il mercato, non di collocarcene fuori.
Che esista oggi un ceto dirigente in grado di affrontare questo problema è molto dubbio, in Italia come in generale in tutto l’ Occidente. Io sono molto preoccupato, per esempio, per la guerra: nessuno osi pensarmi pacifista, attributo che proprio non mi appartiene, ma ritengo che la pace sia vantaggiosa a partire da determinate considerazioni. Sono vissuto trent’anni in questo posto, ne ho conosciuto la miseria profonda e l’ho visto uscire dalla miseria in relazione all’accrescersi della ricchezza nazionale, che per tracimazione, ma solo per tracimazione, raggiunge la cultura; non appena non tracima più, la cultura è la prima a non ricevere questo tipo di ossigeno; e la ricchezza è una delle conseguenze di un incredibilmente lungo periodo di pace.

Un’altra conseguenza è il fatto stesso che venga messa in discussione la pace, la nostra pace intendo e non quella degli altri, perché la guerra c’è sempre stata, ma non voglio essere sospettato di altruismo: infatti se il discorso non è debitamente cinico, non è nemmeno debitamente concreto. Allora non parliamo di costi e ricavi, né di costi e benefici, non parliamo più neanche di entrate ed uscite, ma se vogliamo rimanere molto concreti credo ci siano dei dati di tutta evidenza.
Il digitale sta ponendo alcune questioni. Ce ne sono di carattere marginale, per esempio l’ampliamento di disponibilità di natura commerciale, che suggerisce linee di lavoro interessanti e legittime. Il digitale è anche funzionale alla conservazione della carta, e conservare la carta con depositi centralizzati è un fatto di razionalizzazione, esattamente come fare le strade, gli svincoli, le ferrovie ecc. Il fatto che costruendo il deposito dei libri uno non riesca a crearsi un’immagine da vendere in termini di voti dipende ancora dalla debolezza della cultura dirigente, perché se uno questa cose le sa fare, le sa anche vendere e monetizzare da quel punto di vista. Come sono solito ripetere, se io fossi il capo di tutto e di tutti vi farei vedere ottimi risultati in questo senso.

Il fatto che si richieda l’introduzione di una cultura d’impresa a me va benissimo: devo dire peraltro che effettivamente l’impresa culturale - e l’impresa pubblica più in generale - ha dei suoi caratteri specifici, che vengono molto spesso sottovalutati o addirittura ignorati. È importante invece che uno entri su questo terreno con tutti i ferri del mestiere, che sono dei ferri completamente diversi a quelli di un analogo mestiere, dove però ci si possa finalmente misurare su costi e ricavi corrispondenti ad un valore immediatamente noto, cioè quello corrente del denaro. Se noi usciamo da questo, diventa tutto più complicato e richiede un altro tipo di strumentazione.
Se dunque vogliamo entrare nella cultura d’impresa, il manager deve avere alcuni caratteri: innanzitutto la licenziabilità, che è una cosa assolutamente fondamentale. Il problema è che il manager, oltre ad essere licenziabile, deve avere in mano il bilancio, cioè deve avere responsabilità sui costi come sui ricavi, quindi sull’entrata come sull’uscita (se è ancora consentito usare questa terminologia) e sul personale: quindi la leva e il licenziamento del personale. Queste cose devono competere al manager, altrimenti non è un manager e se non si riescono a creare queste condizioni diventa inutile ragionare di introduzione della cultura d’impresa. Per creare queste condizioni occorre smantellare l’attuale assetto del sistema pubblico, cosa che è già fattibile negli enti locali, dove non viene comunque fatta per la perversa cultura della dirigenza locale, e che non è invece fattibile nello Stato, dove ancora il bilancio della biblioteca di Gorizia viene fatto a Roma. È del resto senza senso che la biblioteca di Gorizia dipenda da Roma, vero e proprio retaggio del medioevo, cioè di una costruzione fatta per elementi impropri di potere territorialmente definito. La rete supera il territorio, ne cancella le esigenze anche da questo punto di vista: quindi il Ministero dovrebbe gestire solo servizi centrali, che sono di rilevanza nazionale e hanno la conseguente opportunità di servire su una scala corretta, altrimenti il dimensionamento di scala risulta di per sé fallimentare. In questa situazione secondo me conviene andare a monte, perché tutto il resto verrà come conseguenza.

Anche se mi trovo d’accordo con Igino Poggiali sul fatto che non si possa lavorare solo per avere dei risultati fra tre anni, sono ancora dell’idea di piantare gli alberi, cioè di dover fare qualcosa per le generazioni future, come per esempio conservare. Quindi devono esistere, e la cultura dirigente vuole che esistano, ambedue le dimensioni: quella dell’immediato, ma anche quella del futuro di medio e lungo periodo. In questo senso anche la fioritura di tutti questi progetti di digitalizzazione va vista per quello che è: la spinta che riceviamo dall’introduzione delle nuove tecnologie, la conseguente attrezzatura che ci stiamo dando. Con SBN è successa la stessa identica cosa, e questo Seminario, quindici anni fa, è nato proprio sulla base delle difficoltà che avevano le biblioteche a scegliere l’opzione informatica, la forma di un progetto di catalogo cumulativo e di cooperazione interbibliotecaria; e in questo settore sono state fatte tante spese improprie, tanti passaggi sbagliati ma necessari per costruire una cultura. Oggi noi abbiamo una cultura particolarmente avanzata nell’ambito dell’organizzazione culturale: come bibliotecari, come operatori delle biblioteche in termini di cooperazione, siamo abituati, a differenza di altri, a lavorare insieme. Non lo sappiamo ancora fare bene, perché abbiamo il catalogo, ma non abbiamo chi fa il pacchetto per mandare il libro che viene richiesto in prestito: se però riusciamo a smaterializzare il libro e passarlo sulla rete, forse abbiamo saltato quell’ulteriore passaggio di difficoltà.

Allora per concludere, che cosa serve? Serve definire e costruire – e non sono cose che si fanno in un momento – un’adeguata cultura di governo e un modello culturale europeo che sia anamericano, non antiamericano: abbiamo infatti tantissime cose da imparare dall’immensa cultura degli Stati Uniti d’America, ma non possiamo appiattirci su di essa, dobbiamo riscoprire la cultura europea, che tra l’altro è nata dall’irruzione della barbarie.
Non dobbiamo quindi, paradossalmente, nemmeno temere tutta una serie di elementi distruttivi che vediamo mettere in discussione la nostra attività, le nostre tradizioni, le nostre abitudini, ma dobbiamo saperli integrare in un atteggiamento e in un progetto culturale nuovi e diversi, unitariamente europei, all’interno dei quali va anche ridefinito quello che è l’interesse nazionale. Perché credo che questo governo sbagli radicalmente nello schierarsi con gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra sulla guerra? Perché ritengo non abbia correttamente letto gli interessi nazionali, che portano, a mio avviso, altrove e che devono essere assolutamente ridefiniti, riletti e rimessi in chiaro: dentro a questi interessi nazionali ci dovrà allora essere anche il posto per le nostre attività e per il loro finanziamento.

Copyright AIB, 2002-02-21, ultimo aggiornamento 2004-07-26 a cura di Marcello Busato
URL: http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay14/busetto03.htm


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