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"13. Seminario Angela Vinay"
BibliotECONOMIA
fund raising e servizi bibliotecari

INTERVENTI DI APERTURA / DIBATTITO 1

Giorgio Busetto



Alcune delle cose che ho sentito mi stimolano ad intervenire.
Intanto credo che potremmo dire al Direttore generale che può andare dal suo collega del Tesoro (che tra l'altro è consigliere di amministrazione della nostra Fondazione) e chiedergli 122 milioni e mezzo di Euro, che è quanto avanziamo dalle Finanze giusta la norma derivante dal collegato fiscale del 2001. Quella legge infatti prevedeva che sopra i 139 milioni e mezzo di Euro di detrazione fiscale, cioè di risparmio fiscale e quindi di diminuzione del gettito, si dovesse porre a carico dei beneficiari dell'intervento privato la tassa nella misura del 37% del percepito, per evitare che le casse dello Stato avessero un danno superiore a quanto messo a bilancio preventivo dal ricorso dei privati alle oblazioni. Siccome il ricorso alle oblazioni è avvenuto nella misura di 17 milioni di Euro, vuol dire che la previsione di bilancio fatta dallo Stato lascia a credito della cultura 122 milioni e mezzo di Euro: e adesso ce li devono dare, però! Se cioè il ragionamento è politicamente ammissibile, devono trovare lo strumento tecnico per renderlo ammissibile anche tecnicamente, altrimenti ci hanno solo tirato un bidone! L'antico dibattito tra preposto alla spesa e preposto all'entrata trova una ragione di più per avere malesseri in casa del preposto alla spesa.
Allora, capisco che viviamo in un tempo di grandi tagli alla spesa reso necessario da una serie di processi in atto, però secondo me i tagli rischiano sempre di essere degli interventi eccessivamente monetaristi, fatti con la scure invece che con il bisturi, e possono creare molti danni. Se dunque il principio della norma è quello per cui si prevede che gli istituti di cultura beneficiari del contributo privato possano dover restituire al fisco una quota di questo beneficio nel caso di eccessiva generosità da parte dei privati, dato il caso contrario credo che debba essere invertita la posizione. Quindi io esorto a correre da Siniscalco e dirgli "Fuori il dovuto!". Questo va anche nel senso di quello che diceva il Direttore generale Sicilia della difficoltà da parte dei privati ad utilizzare queste disposizioni normative che configurano una cultura.

Ora credo che tutti i miei colleghi sappiano che non vorrei mai essere un bibliotecario medio, ma devo dire che assolutamente ancora meno vorrei essere un imprenditore medio, per quello che si vede della cultura e dell'atteggiamento dell'imprenditoria italiana, totalmente cieca e sorda davanti al processo di formazione del paese, di formazione della società civile. L'idea di contribuire a realizzare un mondo migliore non esiste cioè se non nei termini di realizzare un maggiore profitto. Allora se questa è l'imprenditoria media italiana, sono contento di non essere un imprenditore medio italiano, perché mi pare che questi signori manchino proprio del senso del vivere civile. Hanno peraltro delle organizzazioni di categoria, e quindi questo discorso va fatto a quelle organizzazioni: sono esse infatti che debbono farsi carico della titolarità della loro rappresentanza e di convincere i loro iscritti a praticare delle soluzioni diverse, delle vie diverse. Se avessimo avuto prima la notizia su questo livello di applicazione della legge, che ci è stata data solamente in questi giorni sulla stampa, avremmo chiesto di partecipare al Seminario alla Confindustria, ai rappresentanti di un'imprenditoria che definiamo, da questo punto di vista, meritevole di tutto il nostro disprezzo, perché incapace di pensare a se stessa in un'ottica di proiezione nel futuro.

L'educazione e la ricerca, e più in generale la cultura, sono fatti riproduttivi fondamentali. Noi stiamo assistendo ad un processo grave che investe tutto l'Occidente e non è un fatto solamente italiano: sempre di più viene finanziata solamente la ricerca applicata, a danno della ricerca pura e quindi automaticamente a danno di tutta l'area della ricerca umanistica, perché non si è inteso se non il senso del profitto visibile. La proiezione nel tempo, "piantare un bosco", quindi lavorare per le generazioni future è una cosa che non si immagina plausibile rispetto ad una concezione del mondo che è tutta legata strettamente al profitto immediatamente visibile, quindi fondamentalmente al profitto finanziario piuttosto che a quello industriale. Sempre di più noi viviamo condizioni di questo genere: le dobbiamo denunziare come vili, come da respingere, come autolesioniste in sostanza, perché è fondamentale che noi costruiamo il nostro futuro e questo passa solo attraverso quel tanto di spesa che sia dedicato all'ambiente, alla cultura, all'educazione, alla ricerca. C'è poi anche nell'immediato, in un paese come l'Italia, una ricaduta forte sul turismo di quella che è la spesa per la cultura, e in particolare della spesa per i beni culturali, e ciò non può assolutamente essere sottovalutato, tanto più all'interno della competizione europea. Vediamo che cosa fa la Francia dal punto di vista dei servizi al turismo e del rendimento del turismo, vediamo che cosa stanno facendo altri paesi come quelli mediterranei dell'Europa: dobbiamo assolutamente adeguarci a questa linea di tendenza dando tutta l'infrastrutturazione necessaria al turismo, e un elemento forte di questa infrastrutturazione è il sistema dei beni culturali e della sua organizzazione. Questo è dunque un dato di immediatezza economica che deve immediatamente essere recepito.

La collega Mandillo parlava prima della produzione del profitto, ma strutture come le nostre non debbono produrre un profitto di natura finanziaria e, per altro verso, strutture come quelle industriali e finanziarie sono spesso alla ricerca di cespiti negativi. Cioè è interessante, o può essere interessante, non solo chi produce un profitto, ma anche chi produce una perdita. Ora cosa pensate voi che faccia come rendimento la società per azioni Palazzo Grassi, per esempio? Ha chiaramente la produzione di una perdita, un profitto negativo che viene per altro integrato in un sistema, fa riferimento ad una holding che nel ripiano della perdita di questa società troverà delle ragioni di natura finanziaria, e quindi fiscale, e delle ragioni di natura strategica che danno un vantaggio al gruppo nel disporre di una società in perdita, altrimenti non esisterebbe la società in perdita. Allora noi dobbiamo proporci come offerenti di una produzione di perdita in tutte quelle situazioni in cui acquistare la perdita per il produttore di profitto sia un fatto fiscalmente interessante, o comunque un fatto da inquadrare e integrare in logiche che non sono le logiche dei nostri bilanci e delle nostre organizzazioni, ma altre logiche che però è importante conoscere e con le quali è importante relazionare.

Lo stesso vale per un altro dei discorsi fatti: quello del lavoro e sostanzialmente della produzione di disoccupati e della possibilità di occuparli. Io non credo che il primo compito dell'Università sia quello di produrre occupazione: l'Università deve costruire della formazione, degli individui formati e preparati in termini di educazione, non in termini di formazione professionale. La formazione professionale è un ambito non strettamente universitario, al quale l'Università può fare riferimento, ma non ritengo sia il primo degli obiettivi del lavoro dell'Università e della didattica universitaria; e tuttavia l'Università non può astrarsi dal concorrere a disegnare il profilo di una società in cui ci sia posto anche per chi viene dall'Università stessa preparato. Ma il sapere e il saper fare sono due ambiti diversi, che devono essere correlati e integrati fra loro e devono comunque tenere ben presente un'altra delle linee di organizzazione del nostro mondo, e cioè che sempre di più il lavoro deve costare di meno. Il concetto di flessibilità in sostanza è un concetto di cancellazione del rapporto fra uomini: il lavoro viene considerato solamente alla stregua di una merce, e quindi segue la legge del mercato. Allora, se non esistono degli strumenti per temperare questo atteggiamento del capitalismo, è chiaro che il lavoro deve essere qualche cosa il cui costo si va ad abbassare, e c'è un costo diretto, che è quello del denaro che costa, e un costo indiretto, che è quello della forma contrattuale, perché tutti i vincoli che vengono introdotti dai contratti sono alla fine degli elementi di costo. Quindi è chiaro che è su questi terreni che va riportato il discorso.
La grande questione dell'articolo 18 in ballo in questo momento sta, con evidenti ragioni da una parte e dall'altra, in un preciso confronto in termini di potere (maggior potere da parte del datore di lavoro o del lavoratore), attorno ad un problema nato da un processo che, a cavallo tra gli anni '80 e '90, ha visto abbassare negli Stati Uniti d'America del 20% i redditi medi da lavoro. C'è stata una situazione imponente di ristrutturazione del mondo del lavoro, per cui milioni di persone sono state in fase recessiva licenziate e poi riassunte, con stipendi però mediamente più bassi del 20%. Noi non abbiamo la stessa flessibilità (per lo meno formale), ma è chiaro che il sistema di mercato tende ad adeguarsi, soprattutto in presenza della globalizzazione sempre più spinta, e dà questi risultati. E allora ecco che anche all'interno delle nostre organizzazioni, del nostro mondo e del nostro modo sempre di più si proporrà questa questione di non potere assumere perché assumere non è conveniente. E allora sempre di più, se si assume, si dovrebbero assumere delle eccellenze: eccellenze in positivo, forse anche in negativo: esistono, per esempio, nei nostri ambiti tutta una serie di elementi di protezione che obbediscono a necessità di carattere sociale e non di carattere funzionale, e pure hanno un loro senso preciso.
È dentro a termini di questa natura che vanno riportati i nostri discorsi.


Copyright AIB, 2002-02-21, ultimo aggiornamento 2002-04-11 a cura di Marcello Busato
URL: http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay13/dibattito02-01.htm


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