Giorgio Busetto
Ora credo che tutti i miei colleghi sappiano che non vorrei mai essere un bibliotecario
medio, ma devo dire che assolutamente ancora meno vorrei essere un imprenditore
medio, per quello che si vede della cultura e dell'atteggiamento dell'imprenditoria
italiana, totalmente cieca e sorda davanti al processo di formazione del paese,
di formazione della società civile. L'idea di contribuire a realizzare
un mondo migliore non esiste cioè se non nei termini di realizzare un
maggiore profitto. Allora se questa è l'imprenditoria media italiana,
sono contento di non essere un imprenditore medio italiano, perché mi
pare che questi signori manchino proprio del senso del vivere civile. Hanno
peraltro delle organizzazioni di categoria, e quindi questo discorso va fatto
a quelle organizzazioni: sono esse infatti che debbono farsi carico della titolarità
della loro rappresentanza e di convincere i loro iscritti a praticare delle
soluzioni diverse, delle vie diverse. Se avessimo avuto prima la notizia su
questo livello di applicazione della legge, che ci è stata data solamente
in questi giorni sulla stampa, avremmo chiesto di partecipare al Seminario alla
Confindustria, ai rappresentanti di un'imprenditoria che definiamo, da questo
punto di vista, meritevole di tutto il nostro disprezzo, perché incapace
di pensare a se stessa in un'ottica di proiezione nel futuro.
L'educazione e la ricerca, e più in generale la cultura, sono fatti riproduttivi
fondamentali. Noi stiamo assistendo ad un processo grave che investe tutto l'Occidente
e non è un fatto solamente italiano: sempre di più viene finanziata
solamente la ricerca applicata, a danno della ricerca pura e quindi automaticamente
a danno di tutta l'area della ricerca umanistica, perché non si è
inteso se non il senso del profitto visibile. La proiezione nel tempo, "piantare
un bosco", quindi lavorare per le generazioni future è una cosa
che non si immagina plausibile rispetto ad una concezione del mondo che è
tutta legata strettamente al profitto immediatamente visibile, quindi fondamentalmente
al profitto finanziario piuttosto che a quello industriale. Sempre di più
noi viviamo condizioni di questo genere: le dobbiamo denunziare come vili, come
da respingere, come autolesioniste in sostanza, perché è fondamentale
che noi costruiamo il nostro futuro e questo passa solo attraverso quel tanto
di spesa che sia dedicato all'ambiente, alla cultura, all'educazione, alla ricerca.
C'è poi anche nell'immediato, in un paese come l'Italia, una ricaduta
forte sul turismo di quella che è la spesa per la cultura, e in particolare
della spesa per i beni culturali, e ciò non può assolutamente
essere sottovalutato, tanto più all'interno della competizione europea.
Vediamo che cosa fa la Francia dal punto di vista dei servizi al turismo e del
rendimento del turismo, vediamo che cosa stanno facendo altri paesi come quelli
mediterranei dell'Europa: dobbiamo assolutamente adeguarci a questa linea di
tendenza dando tutta l'infrastrutturazione necessaria al turismo, e un elemento
forte di questa infrastrutturazione è il sistema dei beni culturali e
della sua organizzazione. Questo è dunque un dato di immediatezza economica
che deve immediatamente essere recepito.
La collega Mandillo parlava prima della produzione del profitto, ma strutture come le nostre non debbono produrre un profitto di natura finanziaria e, per altro verso, strutture come quelle industriali e finanziarie sono spesso alla ricerca di cespiti negativi. Cioè è interessante, o può essere interessante, non solo chi produce un profitto, ma anche chi produce una perdita. Ora cosa pensate voi che faccia come rendimento la società per azioni Palazzo Grassi, per esempio? Ha chiaramente la produzione di una perdita, un profitto negativo che viene per altro integrato in un sistema, fa riferimento ad una holding che nel ripiano della perdita di questa società troverà delle ragioni di natura finanziaria, e quindi fiscale, e delle ragioni di natura strategica che danno un vantaggio al gruppo nel disporre di una società in perdita, altrimenti non esisterebbe la società in perdita. Allora noi dobbiamo proporci come offerenti di una produzione di perdita in tutte quelle situazioni in cui acquistare la perdita per il produttore di profitto sia un fatto fiscalmente interessante, o comunque un fatto da inquadrare e integrare in logiche che non sono le logiche dei nostri bilanci e delle nostre organizzazioni, ma altre logiche che però è importante conoscere e con le quali è importante relazionare.
Lo stesso vale per un altro dei discorsi fatti: quello del lavoro e sostanzialmente
della produzione di disoccupati e della possibilità di occuparli. Io
non credo che il primo compito dell'Università sia quello di produrre
occupazione: l'Università deve costruire della formazione, degli individui
formati e preparati in termini di educazione, non in termini di formazione professionale.
La formazione professionale è un ambito non strettamente universitario,
al quale l'Università può fare riferimento, ma non ritengo sia
il primo degli obiettivi del lavoro dell'Università e della didattica
universitaria; e tuttavia l'Università non può astrarsi dal concorrere
a disegnare il profilo di una società in cui ci sia posto anche per chi
viene dall'Università stessa preparato. Ma il sapere e il saper fare
sono due ambiti diversi, che devono essere correlati e integrati fra loro e
devono comunque tenere ben presente un'altra delle linee di organizzazione del
nostro mondo, e cioè che sempre di più il lavoro deve costare
di meno. Il concetto di flessibilità in sostanza è un concetto
di cancellazione del rapporto fra uomini: il lavoro viene considerato solamente
alla stregua di una merce, e quindi segue la legge del mercato. Allora, se non
esistono degli strumenti per temperare questo atteggiamento del capitalismo,
è chiaro che il lavoro deve essere qualche cosa il cui costo si va ad
abbassare, e c'è un costo diretto, che è quello del denaro che
costa, e un costo indiretto, che è quello della forma contrattuale, perché
tutti i vincoli che vengono introdotti dai contratti sono alla fine degli elementi
di costo. Quindi è chiaro che è su questi terreni che va riportato
il discorso.
La grande questione dell'articolo 18 in ballo in questo momento sta, con evidenti
ragioni da una parte e dall'altra, in un preciso confronto in termini di potere
(maggior potere da parte del datore di lavoro o del lavoratore), attorno ad
un problema nato da un processo che, a cavallo tra gli anni '80 e '90, ha visto
abbassare negli Stati Uniti d'America del 20% i redditi medi da lavoro. C'è
stata una situazione imponente di ristrutturazione del mondo del lavoro, per
cui milioni di persone sono state in fase recessiva licenziate e poi riassunte,
con stipendi però mediamente più bassi del 20%. Noi non abbiamo
la stessa flessibilità (per lo meno formale), ma è chiaro che
il sistema di mercato tende ad adeguarsi, soprattutto in presenza della globalizzazione
sempre più spinta, e dà questi risultati. E allora ecco che anche
all'interno delle nostre organizzazioni, del nostro mondo e del nostro modo
sempre di più si proporrà questa questione di non potere assumere
perché assumere non è conveniente. E allora sempre di più,
se si assume, si dovrebbero assumere delle eccellenze: eccellenze in positivo,
forse anche in negativo: esistono, per esempio, nei nostri ambiti tutta una
serie di elementi di protezione che obbediscono a necessità di carattere
sociale e non di carattere funzionale, e pure hanno un loro senso preciso.
È dentro a termini di questa natura che vanno riportati i nostri discorsi.