"13. Seminario Angela Vinay"
BibliotECONOMIA
fund raising e servizi bibliotecari
Giorgio Busetto
Direttore della Fondazione Querini Stampalia
Vorrei prima di tutto ringraziare particolarmente e sentitamente Chiara Rabitti per avere avuto l'idea di spostare il discorso relativo alle biblioteche sull'economia e, all'interno di questo, di centrare il discorso di quest'anno sulla ricerca dei fondi.
Ieri dicevo che abbiamo sbagliato a non invitare i rappresentati della Confindustria,
ma ancora non sapevamo che i dati relativi all'applicazione della legge sulle
oblazioni liberali erano così deludenti.
Mi pare che l'altro grande assente, oggi, sia il Direttore della biblioteca.
È evidente che la biblioteca ha, come sempre, una cultura autoreferente,
per cui il bibliotecario non ha nessun bisogno di confrontarsi con il mondo
esterno, non ha bisogno di riscontri, di misurare il proprio valore, la propria
attività, la propria utilità. Parimenti il Direttore della biblioteca
non ha bisogno di cercare risorse perché queste sono delle variabili
indipendenti, che non riguardano il lavoro di chi dirige la biblioteca. Mi pare
che l'assenza, ieri e oggi, in questa sala, dei Direttori delle biblioteche,
per lo meno di quelle venete, confermi appieno questo dato (parlo naturalmente
in generale, e quindi con ulteriore apprezzamento per le sporadiche eccezioni).
Credo di poter affermare che al Direttore della biblioteca non interessa assolutamente
trovare risorse, perché riesce comunque a lavorare con quelle che gli
vengono date (o non gli vengono date) a prescindere da quello che fa.
Questo rinvia a un problema più complessivo: in realtà la cultura
della biblioteca è una cultura del tutto interna a quella della pubblica
amministrazione. Come tutti sappiamo, il dirigente della pubblica amministrazione
non è messo in condizioni di dirigere, ossia di essere responsabile,
perché non ha la responsabilità delle entrate e del personale,
cioè della leva e del licenziamento del personale. Questi sono dati strutturali
della nostra organizzazione e quindi della nostra cultura, dei quali dobbiamo
immediatamente prendere atto.
Tanto più forte è dunque il merito di chi decida di rompere con
questa situazione, affrontando sul terreno scientifico e tecnico quella che
è ormai una necessità: la necessità di trovare risorse
per le biblioteche, che del resto riscontriamo puntualmente non appena usciamo
dal dominio italiano.
Mi scuso per il mio essere sempre polemico con i colleghi e per evidenziare
una sorta di disprezzo per la categoria, cui, d'alta parte, mi onoro di appartenere,
ma ciò è dovuto ai dati sconfortanti di cui disponiamo. Tanto
è vero che io non credo nemmeno alla recente irruzione nella cultura
della biblioteconomia italiana della categoria utenza: se ci si volesse veramente
occupare degli utenti ci si impegnerebbe a trovare risorse (le due cose infatti
sono strettamente collegate), ma se io non cerco il denaro significa che, in
realtà, non mi importa molto dei miei utenti. Significa anche che sono
fortemente e marcatamente autoreferente, per cui qualsiasi cosa io faccia o
non faccia non ho nessun bisogno di soddisfare la mia utenza e di procurarmi
risorse aggiuntive.
Questo si pone in apparente contrasto con la vocazione del bibliotecario italiano
a piangersi addosso, una cosa che mi ha sempre provocato una straordinaria irritazione,
anche perché ho avuto la fortuna di avere come maestri due grandi bibliotecari
anomali: Giorgio Emanuele Ferrari alla Biblioteca Nazionale Marciana, e Giuseppe
Mazzariol, alla Biblioteca della Fondazione Querini Stampalia.
Giuseppe Mazzariol ad un convegno dell'AIB, negli anni '50, protestò
con i colleghi che si occupavano della protezione dei libri dai furti dicendo:
"È importante che ci rubino i libri, perché un libro rubato ha
almeno un lettore certo e quello di cui noi abbiamo bisogno sono i lettori,
non i libri". Da un tale maestro ho ereditato l'abitudine a confrontarmi
in maniera diversa con i problemi, e a ritenere un difetto strutturale del bibliotecario
quello di piangersi addosso invece di affrontare direttamente le questioni.
Allora non piangendo, ma ridendo ho ottenuto la prima risorsa aggiuntiva della
mia carriera. Credo fosse il 1973, il Ministero per i Beni Culturali era appena
nato e Spadolini era il primo Ministro per i Beni Culturali): avevamo in bilancio
un centinaio di milioni e Mazzariol mi fece fare la pratica per richiedere un
contributo motivato di 120 milioni. Mazzariol era assente (era in Grecia per
delle conferenze) quando telefonò il Capo di Gabinetto del Ministro per
annunciare, trionfante, che avevamo ottenuto un contributo di un milione. Io
invece di ringraziare mi misi a ridere, e per questo lui mi disse: "Beh, potremmo
forse darne due": e due furono.
Racconto questo episodio perché testimonia l'antichissimo problema (ma
io non credo esistano vere novità nei problemi dell'umanità) di
spostare soldi da dove ci sono a dove non ci sono. Si tratta di un'operazione
che presenta sempre notevoli difficoltà, ma che è affrontabile
in presenza di tecniche specifiche.
Chi ha i soldi non lì dà volentieri (se li desse volentieri non
li avrebbe già più) e, in questa sua ostilità, è
serio e motivato e deve quindi essere compreso. È importante cioè
che chi non ha i soldi impari a relazionarsi con chi li ha. Credo sia importante
accettare il rifiuto, comprendendo però che il rifiuto non è una
condizione sufficiente per piangersi addosso, e che comunque bisogna sforzarsi
di imparare il linguaggio di chi ha il denaro e le ragioni che ha per darlo.
Io non faccio mai l'elemosina per strada, perché non riesco a concepire
una domanda del tutto indifferenziata; cerco di dare in beneficenza tutto il
denaro che posso, ma lo faccio secondo dei criteri ben precisi, immaginando
che possa servire a determinati scopi. Non credo che il semplice fatto di chiedere,
in modo del tutto generico, sia sufficiente per riuscire a raccogliere. Ho fatto
naturalmente delle eccezioni e, dopo aver verificato, di tutte mi sono pentito:
una delle caratteristiche della mendicità è infatti la menzogna,
che è una delle cose che non rientrano nel mio personale linguaggio,
ovvero una pratica nelle quale amo piuttosto essere attivo che passivo.
Credo che in questo caso imparare il linguaggio significhi anche rendersi conto
che stiamo vivendo una stagione di dilatazione dei fondi privati e di una ancora
maggiore erogazione selettiva dei contributi pubblici, almeno come linee di
tendenza generali. In questa situazione ritengo importante imparare un linguaggio
che riesca a far capire che raccogliere soldi è un servizio reso non
solo a chi li riceve, ma anche a chi li dà.
Per comprendere e far comprendere bene questa affermazione, bisogna necessariamente
partire da questioni molto generali. In nessun Seminario Vinay si è parlato
tanto di principi come in questo. Chiedere soldi fa sì che la biblioteca
si interroghi sulla propria missione, sulla propria identità e che quindi
si moralizzi nel proprio essere. Io credo infatti che il denaro sia un grande
agente di moralità. In una intervista contenuta nel libro curato da Emanuele
Severino e Giancarlo Trentini Valori e nichilismo (Milano, Franco Angeli,
2001) ho affermato che il denaro è un valore: per me il denaro è
importante, ha un senso, un peso, un ruolo e quindi diventa in sé un
valore. Naturalmente il denaro è un mezzo e non un fine, ma nel suo essere
mezzo porta un valore; non deve essere disprezzato né esaltato, ma va
identificata quella parte di umanità che esso contiene e che è
il suo valore di scambio: il denaro è un mezzo per far comunicare gli
uomini, e in quanto tale deve essere valorizzato.
Il problema dunque è, come sempre, prima di tutto morale: in che mondo
vogliamo vivere, che mondo vogliamo costruire? E il nostro interlocutore è
d'accordo con noi? Ma se è questo il mondo che vogliamo, allora costruiamolo:
passiamo dal volere al fare. E passare dal volere al fare significa spostare
risorse da una situazione ad un'altra.
Nel mondo frammentato in cui viviamo, fra i tanti frammenti ci sono anche quelli
di chi ha i soldi, e io credo che ce ne siano due di particolarmente interessanti:
le imprese e le fondazioni bancarie.
Il mondo delle imprese è un mondo che ha molte più esigenze di
quanto non creda: la cultura dell'imprenditore (quella che ieri dicevo di disprezzare
addirittura di più di quella del bibliotecario) è del tutto inadeguata
a portare il peso sociale dell'azienda. L'impresa ha un ruolo molto importante
nel mondo, e chi la conduce non ha normalmente la formazione sufficiente per
sostenere questo ruolo. Questo fa parte di una crisi più generale di
tutto l'Occidente, che non ha sufficiente cultura di governo a nessun livello,
personale, familiare, aziendale, politico e così via: sembra quasi che
il mondo sia andato troppo avanti, e che l'uomo sia rimasto indietro. Su questo
occorre intervenire, perché il dominio della complessità ha bisogno
di una cultura di governo e quindi una cultura dei principi.
Ecco allora che il mondo della cultura può dare molto in questo senso,
sfruttando, nelle pieghe delle sue risorse, determinate capacità. Ed
ecco allora che la biblioteca può diventare un luogo di scambio. Per
esempio, io ho constatato che questo istituto si presta molto bene a fare da
collegamento fra la risorsa intellettuale dell'Università e il bisogno
di risorsa intellettuale della collettività. L'Università è
un mondo chiuso, è uno dei frammenti che compongono il mondo moderno.
Questo non deve assolutamente scandalizzare o indignare: il nostro mondo è
fatto di particelle totalmente e sempre di più autoreferenti, quindi
sempre più forte diventa la necessità di rompere questa "ingessatura"
e di collegare tra loro quante più particelle possibili.
Per questo io dico che la nostra Querini Stampalia è una piazza virtuale,
ideale, in cui si incontrano persone diverse; in particolare è il luogo
naturalmente deputato allo scambio tra Università e città. Ma
questo tipo di azione, così come è rivolto all'Università,
può essere rivolto anche alle imprese, e possiamo addirittura immaginare
di riuscire a collegare Università e imprese, su un piano diverso da
quello in cui opera normalmente l'Università stessa.
Come ho già accennato ieri stiamo vivendo la terribile crisi, che riguarda
ancora una volta tutto l'Occidente, del finanziamento alla ricerca pura, del
finanziamento alla cultura, probabilmente perché non si capisce che la
ricerca pura è funzionale alla sopravvivenza della specie umana e quindi
è, insieme con l'educazione, un fatto assolutamente primario per la collettività,
nazione per nazione. E poiché questo non viene capito, allora si finanzia
solo la ricerca applicata, quella che dà conseguenze immediate. È
questa una delle ragioni della crisi della ricerca umanistica che, per altro
verso, è anche prigioniera di un accademismo assolutamente sconcertante,
il quale però fa parte delle sue tradizioni. Assistiamo così al
progressivo disseccarsi delle facoltà umanistiche, che trascina con sé
il disseccarsi delle altre facoltà e dell'Università nel suo insieme,
sempre più incerta sul da farsi, inadeguata a rispondere alle necessità
del futuro perché concentrata stupidamente sulle necessità del
presente. È proprio rispetto a questa carenza di visione dell'Università
italiana che noi dobbiamo provare a cercare una nostra diversa collocazione,
facendo di questa piazza una piazza del futuro, il luogo di collegamento tra
la competenza intellettuale dell'Università e quella delle imprese. Abbiamo
da una parte la cultura dell'Università e degli istituti di cultura in
generale (soprattutto in un luogo come Venezia che è un fortissimo distretto
culturale) e dall'altra la cultura delle imprese (che possono essere viste in
quanto portatrici di una loro cultura, con delle cose da dare e altre da chiedere):
noi possiamo immaginare di diventare un soggetto attivo in termini di collegamento
tra questi due mondi, una sorta di enzima capace di accelerare di parecchi anni
questo processo.
Nel 1991 la Fondazione Querini Stampalia ha vissuto una profonda crisi finanziaria
che, in realtà, era solo l'acutizzarsi ricorrente di una strutturale,
fisiologica difficoltà finanziaria di un istituto come questo, dotato
di un grande patrimonio, ma di scarsissimi mezzi; tra l'altro negli ultimi anni
il patrimonio fruttifero della Fondazione ha subito la progressiva trasformazione
in patrimonio strumentale che, a differenza di quanto accadeva nel passato,
è in grado di assicurare oggi entrate molto interessanti.
Per fronteggiare la crisi viene promossa una duplice iniziativa: nascono insieme
gli Amici della Querini Stampalia e il Circolo Queriniano.
Quella degli Amici della Querini Stampalia è una associazione non strutturata
(recentemente è stata considerata l'ipotesi di strutturarla, ipotesi
rifiutata perché i soci si sentono dei semplici "collegati" all'attività
dell'istituto) di persone che danno un piccolo contributo in denaro (la quota
base è di 100 mila Lire), ricevendo in cambio alcune iniziative di acculturazione
e la partecipazione all'ambiente della Fondazione. La nascita di questa associazione
è stata uno stimolo straordinario: la presenza attiva dell'utenza determina
un forte controllo sociale, nel senso che io devo rendere conto di più
e meglio anche delle piccole spese, perché le misuro sul contributo del
singolo Amico. Devo dire che quel contributo viene sostanzialmente e completamente
assorbito dalle spese di amministrazione del gruppo, e tuttavia gli Amici hanno
ugualmente una grandissima importanza. Quando io raccolgo fondi per l'istituto,
il fatto di presentarmi con 300 autotassati dà una forza particolare
alle mie richieste, in particolare nei confronti di soggetti per i quali il
numero di potenziali elettori mobilitabili è un fatto di rilievo. In
questo caso quindi, al di là del movimento di denaro, quello che dà
un apporto significativo è il movimento di persone, anche in termini
di reperimento delle risorse finanziarie. Non solo, tutto questo dà esiti
positivi anche in termini di vitalità dell'istituto: se io devo continuamente
programmare nuove iniziative culturali per i miei associati, questo mi induce
ad alzare la testa dal tavolo e guardare quello che succede fuori di qui, perché
devo riuscire a metterli in contatto con un mondo che è il mio, ma che
è diverso dall'ambiente della Fondazione.
Il Circolo Queriniano prevede l'associazione di aziende, sia pubbliche che private,
tramite il pagamento di una quota annua di 10 milioni. Recentemente abbiamo
compreso che è possibile chiedere di più, perché la Fondazione
può a sua volta dare in cambio qualcosa, mentre prima non riuscivamo
a dare nulla in cambio non avendo ancora costruito un'offerta interessante e
significativa. Abbiamo immaginato un processo per cui, una volta associate sia
aziende partecipate dal Comune - che ultimamente si sono sviluppate in modo
straordinario, con tutta una serie di necessità specifiche - che aziende
di tipo tradizionale, noi possiamo assumerci il compito di trasferire su tutta
la collettività tute le loro attività e le conseguenti competenze.
Parallelamente possiamo soddisfare l'esigenza di queste aziende di presentarsi
alla collettività in modi e forme diversi da quelli attuali: molto spesso
infatti ci sono difficoltà di natura ambientale ad operare, tanto più
in una città come Venezia che è particolarmente complicata (banalizzando:
il rumore prodotto dallo spazzino di notte sveglierebbe tutti gli abitanti di
un'area, perciò a Venezia non c'è, come in qualsiasi altra città,
il servizio di nettezza urbana notturno). Le aziende hanno quindi la necessità
di costruire una cultura, in particolare a livello di opinion leaders, che sia
aperta a ricevere le loro istanze e funga da collegamento tra la loro attività
e la città. In questo senso si stanno già realizzando tutta una
serie di iniziative di natura strettamente culturale, perché in fin dei
conti quello che noi possiamo produrre, e vendere come nostro prodotto, è
proprio la cultura.
Allora la Querini Stampalia contribuisce, quale luogo di incontro tra diversi
operatori, alla costruzione di una cultura urbana diversa da quella passata,
coerente con le necessità del futuro. In questo senso l'istituto assume
un ruolo veramente importante, che il dare e prendere semplicemente libri non
potrebbe sortire.
Vorrei fare ancora una riflessione sulla risorsa rappresentata da persone,
anche umili, che si affacciano desiderose di concorrere in qualche modo al sostegno
della biblioteca: della biblioteca e non del museo. La Fondazione ha questa
duplice natura, ma, devo dire, è interessante osservare come il volontariato,
disponibile per entrambi i settori, venga accettato molto più facilmente
dal museo che dalla biblioteca. Il rapporto con il volontario crea d'altra parte
tutta una serie di difficoltà perché in Italia purtroppo non abbiamo
l'attrezzatura culturale, che invece esiste in altri paesi avanzati dell'Occidente,
necessaria a far sì che il volontariato culturale sia considerato normale.
Mentre il volontariato sociale mi sembra più assestato, quello culturale
non è facilmente integrabile (in altre parole, è una cosa che
fa perdere tempo) e non c'è nessuno che si occupi di integrarlo.
Secondo me invece il volontariato culturale rappresenta una risorsa estremamente
interessante in termini di costruzione di una cultura, tanto è vero che
il rapporto che noi abbiamo da sempre con i volontari potrebbe finire col configurarsi
come una scuola vera e propria. Sempre di più lavoriamo non solo con
volontari, ma anche con stagisti e perciò, per rispondere a questo tipo
di domanda, dovremo pensare a strutturarci nei termini di una scuola anziché
rimanere un puro recettore passivo di iniziative formative di altri, che sono
in sintonia con le loro esigenze, ma non con le nostre.
Ad esempio, l'Università ci chiede di prendere gli studenti per qualche
settimana perché, con il nuovo ordinamento, una parte dei crediti deve
essere obbligatoriamente destinata ad attività di tirocinio; mentre noi,
per addestrare una persona, abbiamo bisogno di qualche mese. È questa
differenza la difficoltà sostanziale che, secondo me, può essere
superata strutturando la presenza degli studenti in termini formativi più
articolati e complessi, con una parte anche teorica e quindi con una moltiplicazione
del profitto maturato. Questa è una linea di lavoro che, io credo, sarebbe
interessante provare a praticare.
Accanto al tema del volontariato c'è quello dei doni. La biblioteca continuamente riceve dei doni o delle proposte di donazione addirittura di intere biblioteche, e questo pone di nuovo tutta una serie di problemi; secondo me potrebbe però aprire anche una linea di lavoro collegata con la vendita dei libri vecchi e con lo scambio dei libri fra biblioteche. L'ideale sarebbe poter saldare l'offerta di volontariato con l'offerta di doni, affidando ai volontari la gestione della vendita e dello scambio. C'è già un sito dell'AIB che si occupa dello scambio dei libri vecchi, e una delle biblioteche aderenti li vende anche.
L'ultima osservazione che vorrei fare è quella sul mecenatismo ovvero
sulle donazioni, ad esempio, della propria casa, cioè la donazione con
riserva di usufrutto o il lascito ereditario.
La biblioteca è un elemento della vita sociale capace di una fortissima
fidelizzazione in chi la frequenta: noi sappiamo che pochi frequentano la biblioteca,
ma quelli che la frequentano lo fanno intensamente e per sempre, anche quando
smettono di frequentarla. La biblioteca rimane cioè un elemento della
loro vita, al quale rimangono fedeli. Posso citarvi casi di persone, anche molto
umili, che hanno lasciato in eredità la propria casa alla biblioteca
perché motivate dal rapporto stretto che avevano con essa.
Per il museo è diverso, sono più frequenti le proposte di donazioni
di beni artistici (ad esempio, ultimamente abbiamo ricevuto la donazione di
una collezione di porcellane). Anche in questo caso non è possibile ricevere
la donazione e basta: la donazione può rappresentare, sia per il museo
che per la biblioteca, un grosso costo di stoccaggio e un appesantimento dei
magazzini, se non si riesce a far fiorire sulla donazione una serie di iniziative
che la rendano riconoscibile e che rendano più forti il museo o la biblioteca.
In questo modo si possono inoltre attirare altre donazioni o piccoli doni comunque
coerenti con il fondo acquisito.