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"12. Seminario Angela Vinay"
BibliotECONOMIA
dalla cooperazione all'integrazione

DALLA COOPERAZIONE ALL'INTEGRAZIONE: IL LAVORO ISTITUZIONALE

Nazzareno Pisauri
coordinamento tecnico della Conferenza dei Presidenti delle Regioni


Mi scuso per aver richiesto di anticipare il mio intervento rispetto al programma, ma nel pomeriggio dovrò essere a Bologna, con l'Assessore Serrajotto, per una riunione del Coordinamento delle Regioni.
Entro quindi rapidamente in tema, non senza prima dire qualcosa su questa specie di parola d'ordine del vostro titolo," Dalla cooperazione alla integrazione", che rappresenta un bello slogan, senz'altro utile nella fase attuale, d'altra parte, come ricordava prima Chiara Rabitti: forse oggi abbiamo proprio bisogno di slogan e di parole d'ordine. Però ogni tanto quando usiamo queste parole corriamo il rischio di profferirle con una qualche accezione ideologica: integrazione sembra più forte di cooperazione, e quindi il pensiero può correre a sinonimi, derivati o associati, come per esempio omologazione. Ecco, diciamo che integrazione va bene solo se non si traduce in omologazione: deve significare anzi valorizzazione delle differenze, delle vocazioni differenziali dei servizi, della risposte a domande che oggi, più che in passato, appaiono estremamente differenziate. E ancora, integrazione può far pensare a centralismo: anche questa equazione va sventata, perché proprio gli strumenti dell'integrazione possono invece permetterci di articolare e modulare meglio situazioni che in passato, anche per ragioni tecniche, hanno comportato gradi di centralismo consistenti. Non è un caso per esempio che si stia ridisegnando l'intera struttura dell'indice SBN, proprio per evitare questa sinonimia un po' inquietante tra integrazione e centralismo.
Credo che il passaggio all'integrazione delle risorse - sia di forza lavoro che di elaborazione culturale e supporti informativi - sia importante non solo per rispondere a una nuova domanda di informazione e di comunicazione, ma anche dal punto di vista di un nuovo processo di razionalizzazione, per il quale appunto vorrei usare una parola nuova. Ascoltavo prima il professor Carinci: francamente io non sono molto soddisfatto di come vanno questi corsi di laurea in beni culturali e spero proprio che quello di cui ci parlava decolli meglio degli altri. Vedo che i corsi universitari dalle mie parti, a Ravenna, a Bologna, a Parma lasciano a desiderare: trattano dei beni culturali nel loro insieme, ma continuano a rosicchiare le solite categorie del vecchio idealismo, l'arte, gli artisti, le correnti ecc. Se vi introducono le discipline tecniche e scientifiche non le correlano ai contesti storico-culturali, né mai si attentano di coniugare un dipinto con un reperto archeologico o con un testo letterario. Il mondo è molto più complesso degli schemi di comodo di tanti docenti che riescono solo a nasconderlo. Almeno per i beni culturali ci serve altro che una università delle solite. Ci servono infrastrutture e metodologie di ricerca che non vorrei chiamare più università, ma pluriversità. Non è mio questo neologismo, è dello scrittore Stefano Benni che a Bologna gestisce da alcuni anni proprio una pluriversità, con percorsi scolari non gerarchizzati né ghettizzanti: nella pluriversità ci sono tanti nuovi linguaggi, tante nuove domande, tante nuove risposte da reperire, tanti link da fare tra materie e soggetti finora separati, e in quanto tali negati ai più. Potremmo chiamare dunque, anche noi operatori dei beni culturali,questa integrazione che può meglio razionalizzare l'impiego delle risorse culturali e informative non omologazione né centralizzazione, ma pluriversità, approntando la risposta più ampia possibile anche in termini di servizi al pubblico.
Da questo punto di vista secondo me lo stato delle biblioteche, e anche la sorte dei bibliotecari tra i quali io ancora forse sfacciatamente mi annovero, non sono pessimi. Le nostre piccole reti vanno crescendo, sono cresciute, e possono fare ancora dei grandi passi in avanti; reti come SBN, se sapremo governarle, si avviano a dare risultati importanti; affrontiamo oggi il passaggio dalla gestione dell'informazione secondaria - l'informazione bibliografica tradizionale - a quella primaria, attraverso progetti come quello della biblioteca digitale che pure qui veniva citato. In più l'irruzione delle nuove tecnologie e il terrore di esserne travolti ci hanno fatto finalmente comprendere che archivisti, bibliotecari e storici dell'arte o museologi non possono continuare a gestire le loro scarabattole in maniera assolutamente separata, non foss'altro per le simpatiche novità e vie di mezzo di tante nuove opere che assemblano vecchi supporti e tramiti nei modi della comunicazione e della creazione artistica più recente: anche questo ci sfida, in qualche modo, a mollare gli ormeggi di un passato per altro non esaltante.
Queste novità irrompono molto positivamente, a mio avviso, e grazie a questo anche il nostro mestiere è in crescita. Noi serviamo di più oggi che per il passato, perché possiamo diventare mediatori di oggetti culturali molto più numerosi e differenziati di quanto non fossero le copie sparse in giro per le mille biblioteche italiane delle solite 3- 4000 opere di cui, con la cosiddetta pubblica lettura, abbiamo continuato a occuparci negli ultimi trenta o quarant'anni. Noi oggi gestiamo molto di più di quello. Il nostro mestiere si è molto arricchito e va assumendo un ruolo strategico anche perché l'insieme dei messaggi che trascorrono il pianeta sulle reti ha un bisogno assoluto di bibliotecari. Cosa sono infatti i grandi motori di ricerca sul Web, se non il frutto di un lavorio estremamente raffinato di squadre di analisti costituite da centinaia e migliaia di documentalisti, archivisti, bibliotecari? Chiamiamoli come ci pare, ma si tratta comunque di gente che fa il nostro mestiere, un mestiere antico senza il quale rischiamo di perdere in breve tempo le nuove tracce dello scibile. Un'impresa già oggi difficilissima, come vediamo ogni giorno, che diventerà sempre più difficile perché il cumulo di questa informazione che vola in sciami perenni, capaci ormai di oscurare il cielo di ogni possibile conoscenza oggettiva, seguiterà a crescere in modo esponenziale. Sarà sempre più necessario, dunque, che qualcuno riesca ad afferrare e organizzare i capilettera di una Babele sempre più illeggibile.
Ma è proprio da questo punto di vista, forse, che noi possiamo non essere pessimisti; qui parliamo in ricordo di Angela Vinay e, per come l'abbiamo conosciuta e amata, penso che non sarebbe da queste novità tratta a pessimismo, ma anzi alla convinzione che il mondo delle biblioteche può uscire rafforzato da queste nuove sfide.
Si sente dire che è lo stato della lettura e quello della scrittura che vengono messi a repentaglio: anche qui, per quanto possibile, niente ideologia. Lo so che è difficile, ma stiamo attenti. Non è vero, per esempio, che la lettura e la scrittura siano destinate ad essere usate meno che per il passato, ma di più forse, perché chiunque di noi (ormai tutti) sta per ore davanti al computer esercita per ore la lettura e la scrittura; tutta la posta elettronica è un esercizio di scrittura, ed anzi c'è gente che non sapeva scrivere e che sta imparando rapidamente proprio grazie alla posta elettronica. Non facciamo dunque i catastrofisti per forza, anche se c'è un importante strumento del passato che forse sta venendo meno: lettura e scrittura crescono, ma senza il libro, che era l'oggetto principe della lettura e che comincia a mostrare in qualche ambito segni di superamento. Carinci parlava della editoria elettronica delle riviste scentifiche, ma ci sono anche altri elementi da considerare: ci sono per esempio tutti coloro, e cominciano ad essere un fenomeno consistente, che pubblicano i loro testi direttamente sulla rete. Forse tra dieci o venti anni il libro come lo conosciamo perderà vistosamente terreno. Magari non ci sarà più l'editore, e non ci sarà più neanche il tipografo, se andrà avanti il processo di industrializzazione di quella che è stata chiamata - forse provvisoriamente- la carta ad inchiostro digitale, della quale adesso le holding stanno verificando le possibilità di produzione per l'immissione sul mercato di massa. L'ipotesi è che ogni lettore possa confezionarsi il suo libro e metterselo in tasca, o dove vuole, dopo averlo scaricato dalla rete. In questo modo la distribuzione, l'editoria, la tipografia come tramiti tradizionali del libro scritto, potrebbero essere via via disdetti. Ma possiamo stare tranquilli: non sarà certo un fenomeno rapidissimo, non avverrà a caduta libera. Ci sarà probabilmente una lunga convivenza delle diverse forme, come è avvenuto negli altri passaggi epocali della scrittura.
Un altro segno di cambiamento, e su questo io sono invece molto pessimista, è la crisi del diritto all'accesso, che viene messo in discussione da più parti. Nella mezza riforma federalista che è stata approvata - non importa quale sia il nostro giudizio - si interpreta la sussidiarietà come privatizzazione dei servizi pubblici tout court, proprio come un'equazione; non è prescritto chiaramente da nessun testo di legge, ma così viene interpretato, e i servizi comunque diventeranno facoltativi come lo erano già prima degli anni '60, prima delle rivoluzioni culturali che, poco o tanto, hanno investito tutto il mondo occidentale. Chi non ricorda che nel dopoguerra le spese per le biblioteche comunali erano classificate formalmente come "facoltative" e che gli organi di controllo statale le depennavano d'imperio, se il bilancio comunale era in deficit? E adesso ridiventeranno facoltative, non più per tutti gli abitanti di un comune indebitato ma per riguardo al diritto del singoli utenti che non possono onorare i costi della nuova gestione privatizzata. Con la privatizzazione dei servizi bibliotecari non sarà dunque più vero che ogni cittadino ha diritto a conoscere quello che è stato pubblicato, ciò che costituisce lo scibile umano, le informazioni che servono per vivere, ragionare, avere una visione del mondo e difendersi da quanti vogliono imporre le proprie idee. Questo è grave, e lo è tanto più in un momento in cui lo slogan vincente suona: chi non c'è oggi non ci sarà domani. E' questo lo slogan, anche azzeccato, del Future show, il grande spettacolo di massa che ogni anno a primavera attira alla Fiera di Bologna migliaia di ragazzi come le cavallette.
Francamente fa rabbrividire il pensiero che chi non riuscirà ad entrare nei meccanismi della trasformazione informativa e comunicativa resterà ai margini e non si vede come potrà mai recuperare lo svantaggio che di giorno in giorno accumula. Tutto ciò non riguarda solo, ovviamente, lo iato tra il nord e il sud del mondo: certo innanzitutto questo, e anzi forse sarà proprio questo che provocherà le prossime rivoluzioni, che peraltro io mi auguro; ma anche all'interno dei paesi ricchi come il nostro si va creando una sorta di nuovo proletariato rispetto all'informazione e alla comunicazione. Potremmo chiamarlo il proletariato televisivo: chi non può vendere altro che ciò che passa sul proprio schermo televisivo - una volta il proletariato poteva vendere solo i propri figli - è destinato a diventare il nuovo proletario del sistema globale. Non credo che sarà tanto diverso dalle conclusioni di Marx, ciò che potremo capire a ritroso tra non più di una decina d'anni rispetto ai quattro quinti dell'umanità, che oggi è totalmente passiva rispetto al sistema di comunicazione-mondo. Quindi, di nuovo come nei secoli più bui, il gap culturale diventerà discriminatorio anche in termini seccamente socio-economici. E noi bibliotecari, noi mediatori culturali, dovremmo essere quelli che pongono riparo a tutti questi danni? Questa situazione ci può spaventare, certo; ma molti altri segnali ci fanno pensare che sarà possibile,e anzi inevitabile, ingaggiare forti vertenze culturali e politiche su questo terreno.
E' stato già ricordato in occasioni precedenti lo strappo - e di ciò si tratta, proprio uno strappo, uno smacco storico grave - del pagamento dei diritti sulle fotocopie, pensato per salvare categorie che sono destinate a crepare da sole: quelle appunto del libro pubblicato, tirato in tante copie, distribuito in maniera peraltro delinquenziale, bruciato non appena non tira più sul mercato. I libri sugli scaffali delle grandi catene librarie non sostano per più di due mesi, voi lo sapete, tanto è vero che adesso se ne fanno continuamente nuove emissioni, tirature supplementari: non ci sono più edizione prima, seconda e terza, ma se ne stampano alcune migliaia a seconda dell'analisi di mercato, poi se ne tirano altre copie se va bene, si bruciano quelle che rimangono se va male. Questo è uno strappo a un principio fondamentale: mentre continuiamo a martellare i paesi del sud del mondo con i principi dell'UNESCO sulla obbligatorietà dei servizi bibliotecari, sulla gratuità che favorisce l'accesso alla lettura etc., noi facciamo queste scelte difensive e miopi sul diritto di stampa, senza che né i librai, né gli editori e neppure gli autori capiscano che solo se c'è una moltiplicazione e una convivenza forte tra accesso gratuito garantito dalla biblioteca pubblica e vendita, vanno forte non solo l'editoria, ma anche la lettura e la fortuna dei testi. E' il passaparola oggi quello che conta, altrimenti nel giro di due mesi si compra o non si compra e dopo non vendi e non compri più; e il problema appunto è che ci siano le biblioteche, in cui qualcuno che non ha fatto in tempo o non ha avuto i mezzi per comprare un libro in quei due mesi possa andarselo a recuperare per leggerlo gratuitamente.
Queste sono le questioni, e vi risparmio quello che io penso della difesa del copyright: anche qui però voi sapete che ci sono forti tendenze a pubblicare in modo no copyright in giro per il mondo, e anche in Italia; sono letterature marginali, però ci sono, e penso che questa tendenza non potrà che crescere in futuro.
Per quanto riguarda il pagamento forfettario delle fotocopie alla SIAE, non so come finirà la trattativa che come Coordinamento delle Regioni abbiamo aperto in sede di Conferenza Stato-Regioni; significherebbe infatti penalizzare i poveri, quelli che non hanno i soldi per comprare i libri e devono andare in biblioteca per fotocopiarli. Ma avete visto quanto ci vuole poco ad inchiodare i maggiori tribunali del pianeta dove c'è il grande affare, la musica per esempio. Ormai le grandi case produttrici di musica cominciano a scendere a patti, a cercare di fare accordi con il consumo free che non riescono altrimenti a fermare.
Anche questi, in qualche modo, sono segnali positivi che in fondo ci riportano ad una articolazione del giudizio che sembrava schematica e vecchia e che invece riappare quantomai attuale. Le stesse contraddizioni indotte dalla cosiddetta globalizzazione ci mostrano che ancora una volta è il discrimine tra ricchi e poveri la stella polare che può orientare la nostra barra di mediatori culturali, come ci sembrava tanto giusto ed evidente negli anni '60 e '70. Ricchi o poveri non solo ovviamente di finanza, ma anche di strumenti infrastrutturali, opportunità dell'offerta e capacità soggettive di accedere alle conoscenze.

Per concludere, vorrei presentarvi l'ordine del giorno che le Regioni fra poco cominceranno a trattare a Bologna; e proprio per darvi il senso di una novità che ritengo molto positiva, vi dico che le ultime riunioni hanno visto la partecipazione di due terzi degli Assessori, mentre in passato se ne vedeva uno ogni tre anni: forse anche questo è un indizio della maggior forza di alcune nostre ragioni.
I temi di cui si discuterà anche insieme all'ANCI, che come voi ben sapete è sempre stata un'altra organizzazione fantasma rispetto ai temi della cultura, sono: l'articolo 150 del D.L.112; il progetto della biblioteca digitale come è sortito quindici giorni fa dall'incontro di Padova; il migliore coordinamento dei Saloni del libro di Torino, del restauro di Ferrara, dei beni culturali di Venezia (come non pestarsi i piedi, non rubarsi gli oggetti e i partner, cosa che finora invece è stata fatta senza quartiere e senza esclusione di colpi); gli accordi di programma stato-regioni, che vedono un paio di esempi positivi già avviati se pure con molte difficoltà; i problemi degli archivi in rapporto a quelli delle biblioteche; i problemi dell'arte contemporanea; i problemi della catalogazione dei beni culturali. Finalmente infatti è stato approvato un patto, che è poi quello che fu il patto per SBN raggiunto con Angela Vinay quindici anni fa (ecco la distanza tra una persona intelligente e coraggiosa rispetto ai burocrati di oggi) nel settore degli altri beni culturali: si tratta di un accordo non più con l'ICCU ma con l'ICCD,che per il Ministero si occupa non di biblioteche ma di musei e beni culturali. Ma nonostante il ritardo forse anche qui qualche bandierina riusciremo ad alzarla: per esempio per il fatto di essere riusciti da un po' di tempo a questa parte a coordinare i nostri lavori, fornendo strumenti tecnici a servizio di tutta la rete degli operatori culturali, indipendentemente dal fatto che lavorino nei musei, nelle biblioteche o negli archivi storici.
Grazie, e buon lavoro.


Copyright AIB, 2002-02-21, ultimo aggiornamento 2002-02-21 a cura di Marcello Busato
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