Carlo Federici
Direttore, Istituto centrale di patologia del libro, ROMA
"Se si facesse un bilancio delle energie spese per il benessere dei luoghi
di conservazione e quello per la realizzazione di eventi, forse alla fine potremmo
convenire che, per tutelare e valorizzare il nostro immenso patrimonio sarebbe
meglio sospendere per qualche anno le attività espositive di visibilità
e prestigio per concentrarsi sulla cura di questi luoghi e la realizzazione
di strumenti repertoriali."
Cosi scriveva, a poche centinaia di metri da qui, circa tre mesi or sono, Tiziana
Plebani, responsabile della conservazione della Biblioteca Marciana ("Il
manifesto", 11 dicembre 2000).
Il secondo omaggio alla città è legato ad una tesi redatta, qualche
anno fa, da uno dei miei studenti del corso di Restauro del libro che ho tenuto,
fino al 1997 a Ca' Foscari. L'infelice - l'unico maschio tra la decina di allieve
delle cui tesi sono stato relatore - aveva accettato di occuparsi dei dati del
restauro librario in Italia utilizzando, a questo scopo, una sorta di banca
dei dati raccolti presso l'Istituto centrale di patologia del libro nella quale
avrebbero dovuto trovarsi tutte le informazioni sul restauro librario effettuato
nel nostro paese.
Uso il condizionale poiché - nonostante si tratti di un atto dovuto,
prescritto dalle relative circolari ministeriali, e nonostante i miei ripetuti
solleciti in questo senso - solo una parte delle biblioteche italiane adempie
regolarmente a quell'obbligo. Sicché nella nostra banca non ci sono tutti
i dati che dovrebbero esserci, ma, tenuto conto che l'afferenza è casuale,
l'attendibilità statistica può essere considerata, in qualche
maniera, accettabile, visto, tra l'altro, che risultano rappresentate più
di due terzi delle biblioteche pubbliche statali.
Ebbene l'elaborazione di questi dati ha condotto alla conclusione che il costo
medio di un intervento di restauro su un singolo libro era - ma i dati sono
di tre-quattro anni fa - di poco inferiore ai due milioni di lire, per l'esattezza
un milione, 881 mila, 892. Poiché le tariffe, da allora, non mi risulta
siano diminuite, oggi dovremmo aver superato i due milioni.
Ultimo dato - ma questo non a nulla a che vedere con Venezia e la sua Università
- per il quale non si hanno però elementi concreti vista la concreta
inaccessibilità dei consuntivi cosiddetti pubblici, riguarda il significato
della parola conservazione intesa, a livello di enti responsabili, pressoché
esclusivamente come restauro, salvo poi destinare ad interventi di riproduzione
testuale - negli ultimi tempi, segnatamente alla digitalizzazione - somme niente
affatto irrilevanti, prelevate dalle risorse che dovrebbero essere destinate
alla conservazione vera e propria.
Il fatto che si faccia passare per intervento conservativo la riproduzione dipende
soltanto dall'ignoranza, purtroppo piuttosto diffusa, sul significato del termine
conservazione che non deve essere confusa con la tutela visto che in quest'ultima
può essere compreso l'antincendio, l'antifurto nonché, ovviamente,
la conservazione. Ma la conservazione è un'altra cosa e consiste nel
complesso delle azioni dirette e indirette volte a rallentare gli effetti della
degradazione causata dal tempo e dall'uso sulle componenti materiali dei beni
culturali. La conservazione si articola in prevenzione e restauro: mentre la
prima assicura la protezione dei beni culturali senza alterarne la struttura,
il secondo comporta sempre l'alterazione dello stato fisico e/o chimico dell'oggetto
dell'intervento.
Purtroppo i mezzi di comunicazione di massa hanno favorito l'attribuzione al
restauro di connotati palingenetici che esso non ha mai avuto. Ciò ha
circonfuso l'attività del restauratore di un'aura "magica"
ben lontana dalla realtà in ragione della quale si è verificato
da un verso l'accorrere verso scuole di restauro (troppo spesso solo sedicenti
tali) di schiere di giovani affascinati dall'idea di restituire "nuova
vita" alle opere d'arte; dall'altro verso ciò ha contribuito a mantenere
il restauro in una sorta di ghetto incantato che poco ha in comune con una moderna
attività professionistica fondata su una solida preparazione sia nel
campo delle scienze umane sia in quello delle scienze della natura cui deve
necessariamente coniugarsi un'altrettanto robusta esperienza maturata nel quotidiano
contatto con i beni culturali.
Vediamo ora in cosa consiste la prevenzione e perché, a mio avviso, convenga
prevenire piuttosto che curare - vale a dire restaurare.
Anche la prevenzione non è univoca poiché si articola a sua volta
in indiretta - che non comporta il coinvolgimento fisico dell'oggetto - e diretta
- nella quale il bene da proteggere viene trattato senza alterarne però
struttura e composizione.
Nella prevenzione indiretta rientrano:
La prevenzione ambientale
La formazione del personale addetto alla conservazione
L'educazione dell'utente.
La prevenzione ambientale si esplica fondamentalmente attraverso il controllo
dei parametri ambientali che sono, in ordine decrescente di pericolosità
per i beni archivistici e librari:
umidità relativa,
luce,
temperatura,
inquinamento.
L'umidità relativa è il massimo fattore di rischio per archivi
e biblioteche poiché, oltre a consentire lo sviluppo degli agenti microbiologici
- che, com'è noto, necessitano di elevati valori di acqua libera per
il loro metabolismo - favorisce il degrado chimico, segnatamente quello di idrolisi
acida della carta.
Si tenga conto che è tutt'altro che rara la dislocazione di depositi
di libri e documenti, in particolare nel caso di materiali di non frequente
consultazione, in locali seminterrati nei quali si verificano sovente condizioni
ambientali di elevata umidità relativa dovuta, il più delle volte,
alla risalita per capillarità delle acque a contatto con le fondazioni.
Questa pessima abitudine ha comportato (e ancora comporta) veri e propri disastri
allorché si verificano alluvioni o più semplicemente problemi
alle condotte fognarie poiché, in questi casi, i locali seminterrati
sono evidentemente quelli colpiti in maniera più grave.
Credo sia a tutti noto che i manoscritti, collocati al primo piano della Biblioteca
nazionale centrale di Firenze, non hanno riportato danni nel corso dell'alluvione
del 1966, mentre degli stampati e dei periodici (piano terra e seminterrato)
è ancora in corso il restauro. Dopo 35 anni da questa catastrofica esperienza
e nonostante ad essa sia stata data amplissima pubblicità, non si è
smesso di collocare libri e documenti in locali a rischio invocando, una volta
verificatosi il danno, l'intervento degli specialisti per la pericolosa disinfezione
e per il costosissimo restauro.
D'altra parte il rimedio parrebbe tutt'altro che complesso; basterebbe infatti:
non ubicare magazzini nei locali seminterrati
utilizzare locali asciutti
ovvero - quando ciò fosse impossibile ed evidentemente solo come soluzione
temporanea - installare una batteria di deumidificatori che garantisca, costantemente
(vale a dire giorno e notte), all'interno dei depositi valori accettabili di
umidità relativa.
La luce è il secondo, in ordine di importanza, dei fattori di rischio
poiché soprattutto le radiazioni ultraviolette determinano il rapido
degrado dei materiali organici che costituiscono com'è noto, libri e
documenti.
Pur essendo nota da tempo agli specialisti la perniciosità della luce,
non è raro osservare nuove biblioteche progettate con pareti vetrate
prive, va da sé, di ogni tipo di schermatura. Ciò dipende probabilmente
dal fatto che gli architetti che si occupano di questi edifici ritengono che
la funzione principale delle grandi biblioteche nazionali sia quella della lettura,
aspetto certo importante, ma sicuramente secondario, rispetto a quello della
conservazione. Basti materializzare per un attimo la struttura architettonica
della nazionale centrale di Roma - progettata pochi decenni or sono - o, meglio
ancora, della Bibliothèque nationale de France, la cui realizzazione
si è conclusa negli anni Novanta, per concludere che questa battaglia
è ancora tutta da combattere. Si pensi che l'architetto Perrault, cui
si deve il colosso parigino, quando si è accorto dell'errore, ha interposto
tra le vetrate e le scaffalature un'intercapedine costituita da molti strati
di materiali isolanti fino a raggiungere - a quanto mi è stato narrato,
poiché fino ad oggi non ho avuto la possibilità di visitare i
magazzini della nazionale francese - uno spessore superiore al metro.
Non c'è bisogno di sottolineare che la migliore soluzione per quanto
riguarda gli infissi, in un deposito di libri o di documenti, è la loro
assenza vale a dire il muro pieno, possibilmente coibentato, il quale non solo
impedisce il passaggio della luce, ma costituisce anche un buon isolante contro
gli sbalzi termoigrometrici, anch'essi esiziali per l'ottimale conservazione.
Ove l'imprevidenza architettonica non abbia tenuto conto del problema luce non
è complesso porvi rimedio: dalla semplice tenda alle pellicole filtro
(queste ultime ormai capaci di eliminare più del 90% delle radiazioni
ultraviolette e la maggior parte di quelle infrarosse), la soluzione non dipende
che dalle risorse finanziarie di cui si dispone.
L'influenza della temperatura è stata per molti anni sopravvalutata a
causa, soprattutto delle ricerche in campo biologico le quali attribuivano particolare
rilevanza ad essa come fattore di sviluppo dei microrganismi. Personalmente
sono ormai convinto che la temperatura possa essere annoverata tra i fattori
secondari di degrado divenendo significativa soprattutto in sinergia con altri
parametri, quale ad esempio l'umidità relativa. In ogni caso è
opportuno che i valori della temperatura si mantengano, in linea di massima,
nell'intervallo 20-25°C evitando, per quanto possibile il ricorso a sistemi
di condizionamento radicale.
Ancora più marginale della temperatura è l'influenza dell'inquinamento
tenuto conto che libri e documenti sono conservati in ambienti protetti dall'impatto
diretto dei gas e del particellato. Ciò nonostante qualche problema può
sorgere nei casi di frequente aerazione dei locali, procedura che sovente viene
effettuata da personale privo delle avvertenze di base per quanto riguarda la
conservazione.
A questo proposito vale la pena di correlare la ventilazione al condizionamento
tenuto conto che nei depositi e nelle sale di lettura l'immissione di aria dall'esterno
dovrebbe essere opportunamente regolata evitando l'incontrollata "apertura
delle finestre". A mio avviso infatti poiché la gran parte degli
archivi e delle biblioteche è collocata in edifici storici dotati di
robuste murature, essi potrebbero essere geneticamente predisposti a garantire
la costanza dei parametri ambientali. Le aree di debolezza corrispondono evidentemente
a quelle degli infissi, assai raramente in buono stato, che pregiudicano i benefici
determinati dalla compattezza delle strutture architettoniche. Nella gran parte
dei casi, dunque, potrebbe essere sufficiente intervenire sugli infissi per
assicurare la migliore risposta alle sollecitazioni ambientali da parte degli
edifici nei quali sono custoditi i beni culturali. Diverso è il discorso
per la ventilazione, che dovrebbe avvenire nelle condizioni meteorologiche migliori
e nelle ore della giornata più adatte a seconda della stagione (d'estate
le ore più fresche, d'inverno quelle più calde). Ovviamente si
tratterebbe di ventilazione forzata che presuppone il trattamento dell'aria
(filtrazione innanzitutto, ma, ove necessario, anche modifica dell'umidità
relativa e della temperatura). In altre parole la mia proposta si configura
in concreto come una sorta di condizionamento parziale (meglio forse sarebbe
parlare di "razionale") capace di sfruttare al meglio le caratteristiche
ambientali dell'ambito geografico/urbanistico nel quale si trova l'istituto
di conservazione senza determinare costi energetici folli quali sono quelli
determinati dal condizionamento integrale.
La formazione del personale addetto alla conservazione è un altro aspetto
molto sottovalutato della prevenzione indiretta grazie al quale, per contro,
si sarebbe in grado di dare risposte efficaci e assai remunerative alle domande
che pone il bilancio costi/benefici degli archivi e delle biblioteche di conservazione.
È evidente che il bersaglio di questa formazione è specificamente
il personale che opera negli istituti la cui missione principale è quella
della conservazione (in primis, dunque tutti gli archivi e le grandi biblioteche
statali ai quali si aggiungono organismi dipendenti da enti locali o ecclesiastici),
senza dimenticare che quasi in tutti gli istituti italiani, si rinvengono fondi
o raccolte di rilevanza storica e che dunque ogni biblioteca è, almeno
in parte, anche biblioteca di conservazione.
Va da sé che l'organizzazione e la formazione del personale addetto alla
tutela in una biblioteca nazionale centrale non saranno le stesse di quelle
adottabili in una piccola comunale, ma non dovrebbero mancare gli investimenti
in questo settore, proprio in considerazione delle economie che tali investimenti
possono determinare.
I compiti principali di cui dovrebbero farsi carico gli addetti alla conservazione
sono i seguenti:
il controllo e la regolazione ottimale dei parametri ambientali e dell'illuminazione;
l'immagazzinamento e il trasporto di libri e documenti;
l'ispezione periodica delle raccolte per verificare l'eventuale presenza di
agenti biologici (segnatamente degli insetti);
la proposta e l'organizzazione di interventi straordinari (spolveratura, disinfestazione
ecc.)
l'individuazione e la protezione delle opere a rischio;
la sensibilizzazione del rimanente personale ai problemi della tutela (manipolazione
dei volumi: prelevamento e ricollocazione, trasporto, consegna all'utenza, sorveglianza
di sala, uso dei leggii ecc.);
l'educazione degli utenti.
L'educazione dell'utente è l'ultimo - ma non il meno importante - degli
interventi di prevenzione indiretta. La sua rilevanza dipende dal fatto che
l'assunzione a pieno titolo di libri e documenti nel novero dei beni culturali
a parte intera è assai recente - degli archivi s'è già
detto e nelle biblioteche il parametro "pubblica lettura" continua,
ancora oggi, a fare aggio su quello "studio e ricerca" - e ancora
ben lontano dall'essere pienamente acquisito dalla coscienza di massa. Nella
migliore delle ipotesi essi sono considerati niente più che strumenti
"testuali" per lo studio e la ricerca, ma non essi stessi, nella loro
essenza e materialità, oggetto dello studio e della ricerca. Di qui il
loro impiego come "utensili" - piuttosto che come beni - culturali
da parte di lettori e studiosi; è evidente che un utensile si configura
come un bene strumentale e la sua valenza non va oltre il servizio reso che
è quello di testimoniare, attraverso il testo, il passato, la storia.
Non è così paradossale l'iperbole secondo la quale, una volta
digitalizzati i testi, la sopravvivenza degli originali potrebbe essere superflua.
Ma se ciò fosse attuato, diverrebbe altrettanto superflua la pratica
della conservazione che si indirizza fondamentalmente alla componente materiale
delle opere.
Dunque educare l'utente deve significare soprattutto far maturare la coscienza
che libri e documenti non sono solo testo e che la salvaguardia dell'oggetto
fisico merita la stessa attenzione che, nei secoli, è stata riservata
alla scrittura.
Ciò porta con sé una serie di conseguenze e di accorgimenti pratici
che richiamino l'attenzione del lettore sulle cure da prestare alla fisicità
dell'oggetto il quale, segnatamente nel caso dei documenti più antichi,
può presentarsi in uno stato di precarietà tale da prescrivere
una consultazione prudente e avvertita.
Passiamo ora alla prevenzione diretta nella quale, invece, si comprendono interventi
che coinvolgono, direttamente appunto, l'oggetto da tutelare; va da sé
che tale coinvolgimento si limita, nella maggioranza dei casi, al contatto fisico
con il bene e che comunque esso non dovrà comportare alcuna modificazione
del suo stato chimico o fisico.
Alcuni esempi di prevenzione diretta sono:
la realizzazione di custodie di protezione;
la spolveratura delle raccolte;
la disinfezione/disinfestazione con gas inerti.
Le custodie di protezione possono avere strutture assai diverse che vanno dalla
semplice copertura delle legature con un foglio di carta pesante (molto simile
alla foderatura dei libri scolastici in uso, credo, fino a qualche decennio
fa) alla cassetta in legno rivestita di velluto per codici di particolari dimensioni
e rarità. Tra queste due, un numero quasi infinito di varianti tra le
quali le book shoes che ricordano le custodie realizzate dagli editori per i
volumi considerati di lusso o le scatole in cartone durevole. Fino a qualche
anno fa ritenevo che le custodie di protezione costituissero una misura di prevenzione
univocamente positiva. Ancora oggi sono convinto che i pro (protezione dalla
luce, dalla polvere e quindi dalle spore fungine, dagli urti leggeri e dalle
cadute non rovinose, dal prelevamento maldestro) siano di gran lunga superiori
ai contro, ma negli ultimi tempi mi vado convincendo che, segnatamente per le
carte acide, l'aerazione potrebbe giocare un ruolo non secondario per migliorare
lo stato di conservazione delle opere. Ciò significa che chiudere un
volume le cui carte si caratterizzano per pH<4 in un ambiente limitato tenda
ad accelerarne il degrado ed è questa l'unica controindicazione che mi
sento di avanzare alle custodie.
Per la spolveratura accenno soltanto ai rischi che essa comporta allorché
venga commissionata - eventualità non remota - a semplici imprese di
pulizia. Sono convinto infatti che la spolveratura del materiale archivistico
e librario antico (ma forse varrebbe la pena di definirlo come "materiale
che deve essere conservato") dovrebbe essere realizzata soltanto da personale
specializzato nel campo della conservazione: personalmente ritengo che la spolveratura
dovrebbe essere affidata a bravi conservatori-restauratori poiché solo
essi conoscono quali sono le componenti a rischio in una legatura e sanno riconoscere
le carte le cui condizioni impongono un intervento di massima prudenza. Non
solo. Il momento della spolveratura rappresenta un'eccellente occasione per
revisionare un intero fondo archivistico o librario individuando le opere che
necessitano di un intervento di restauro, il suo rilievo e il grado di urgenza.
La spolveratura eseguita dal restauratore si configura, in altre parole, come
manutenzione nel significato più alto del termine. Oltre a definire,
nei casi cui ho accennato sopra, veri e propri "progetti preliminari di
restauro", egli potrebbe procedere a piccoli interventi di consolidamento
o, ove possibile, di restauro non invasivo. Mi fermo qui senza nascondere però
il rovescio della medaglia vale a dire i danni che una spolveratura condotta
da personale non specializzato determina alle legature, in particolare a quelle
in cattive condizioni.
Nell'ultimo periodo ha avuto eco assai più ampia rispetto al passato
la disinfestazione con gas inerti anche per le ricerche condotte dall'Istituto
centrale di patologia del libro nell'ambito di alcuni progetti internazionali.
Bisogna forse sottolineare che il dibattito sui danni determinati all'ambiente
dai prodotti chimici "cattivi", ha influenzato in modo significativo
le opzioni anche nel nostro settore sicché disinfezioni "estreme"
nelle quali si impiegavano gas cancerogeni e mutageni come l'ossido di etilene
hanno perduto gran parte della loro attrattiva. Del resto l'uso di gas sterilizzanti
di questo tipo era concepibile solo in una visione del mondo limitata visto
che il materiale, una volta reso sterile, veniva nuovamente collocato in un
ambiente comune nel quale, com'è noto, abbondano insetti e microrganismi.
Per tacere poi delle alterazioni che i gas di questo tipo determinano nei supporti
per cui, paradossalmente, una pergamena trattata con ossido di etilene subiva
trasformazioni strutturali tali da renderla, dopo la disinfezione, maggiormente
suscettibile all'attacco microbico.
Anche in questo caso la soluzione non può venire dall'applicazione assiomatica
della profilassi medica, quanto piuttosto da una concezione dialettica della
prevenzione nei depositi archivistici e librari. Se i microrganismi riescono
a svilupparsi soltanto in microambienti caratterizzati da elevati livelli di
umidità relativa - e quindi è sufficiente controllare questo parametro
per evitare infestazioni microbiche - il controllo degli insetti si basa sull'attenzione
dei conservatori, sulle ispezioni e sui controlli effettuati periodicamente
(in particolare in primavera) nelle raccolte. Circoscrivere un attacco entomatico
al suo primo insorgere, non è difficile: e, in questo caso, gas "naturali"
come l'azoto trovano l'ambito ideale di utilizzazione senza alterare né
l'ambiente, né i supporti, salvaguardando al tempo stesso la salute degli
operatori.
Anche il restauro, come la prevenzione, può essere bipartito. C'è
il restauro che un tempo si chiamava "piccolo" - oggi preferiamo l'espressione
"non invasivo" - il cui obiettivo è quello di alterare nella
misura minore possibile la struttura chimica e fisica dell'opera, e c'è
il restauro totale nel quale invece sia l'aspetto esteriore che la costituzione
dell'opera possono essere modificati in maniera rilevante.
Se in passato il restauro totale costituiva la regola, negli ultimi anni si
è incentivata assai la prassi della non invasività. L'assimilazione,
fatta poco fa, del restauro alla chirurgia non è casuale visto che, anche
in questo settore, questa scelta sembra ormai largamente condivisa. D'altra
parte essa, oltre a ridurre i traumi che qualsiasi intervento comporta, consente
di mantenere alte aliquote di quella che potremmo chiamare la facies originale
dell'opera: in altre parole - utilizzando la definizione introdotta dianzi -
offre le maggiori garanzie in ordine alla salvaguardia delle informazioni storiche
di cui le opere sono testimoni.
Quali conclusioni trarre dalle riflessioni che ho cercato di svolgere fin qui?
Credo che la prima sia quella di affrontare assai più seriamente di quanto
lo si sia fatto nel passato, il tema della prevenzione magari andando anche
oltre l'articolazione da me proposta.
Il fatto che l'espressione "salvaguardia dei beni culturali" coincida
quasi perfettamente con il restauro mi sembra oggi del tutto inaccettabile non
foss'altro perché si tratta di una peculiarità tutta italiana
visto che, nei principali paesi europei e in genere nell'Occidente industrializzato,
gli sforzi maggiori della ricerca negli ambiti della tutela vanno sempre più
orientandosi verso la messa a punto di metodiche finalizzate a privilegiare
la prevenzione piuttosto che il restauro.
Ciò avviene per un duplice ordine di motivi: il primo riguarda i costi
degli interventi che mi sembrano "individualmente" inaccettabili;
si tenga conto che l'applicazione generalizzata del "restauro di massa"
suscita infinite perplessità (al momento resto convinto che si tratti
di un ossimoro epistemologico) e che quindi il restauro si configura come un
intervento individuale.
Il secondo motivo sta nella convinzione - questa, ritengo, ampiamente condivisa
- che il miglior restauro sia il non restauro. In altre parole, come per la
chirurgia, la soluzione che tutti si augurano è quella di non entrare
in una camera operatoria dato che, sempre, qualcosa di noi resta tra le mani
e tra i ferri del chirurgo. Ma se gli esseri viventi hanno, nella maggioranza
dei casi, la possibilità di vicariare o rigenerare ciò che hanno
perduto, ciò non si può dire per i beni culturali per i quali
ogni pur minima particolarità perduta lo sarà per sempre andando
a detrimento del patrimonio storico nostro e di coloro che verranno dopo di
noi.