"12. Seminario Angela Vinay" BibliotECONOMIA
dalla cooperazione all'integrazione
Tavola rotonda
PUBBLICO E PRIVATO: INTEGRAZIONE E/O INTERAZIONE?
Giorgio Busetto
direttore della Fondazione Querini Stampalia
Abbiamo qui come argomento "pubblico e privato": l'integrazione e/o
l'interazione pubblico-privato è chiamata anche la grande dicotomia. La
breve e secondo me bellissima voce "pubblico-privato" di Norberto Bobbio
nell'undicesimo volume dell'Enciclopedia Einaudi comincia proprio con "la
grande dicotomia" e si conclude con quella che è in qualche modo una
nuova dicotomia, che Bobbio fa iniziare da Kant e dalla sua riflessione del 1796
sulla formula trascendentale del diritto pubblico, su pubblicità e potere
invisibile, e quindi sugli arcana imperii, su pubblico e segreto come contrapposizione.
La grande dicotomia è per altri versi, a mio avviso, una piccola dicotomia,
nel senso che trovo tutto sommato piccino insistere sui concetti di pubblico e
privato e sulla loro contrapposizione.
Esistono naturalmente interessi collettivi e interessi individuali, e nel momento
in cui affrontiamo la questione delle biblioteche da questo punto di vista noi
dobbiamo, se abbiamo un certo tipo di fondamento etico, affrontarla partendo dall'utenza:
questo mi pare finalmente un dato acquisito anche dalla letteratura professionale
più recente. Allora, se partiamo dall'utenza dobbiamo partire da una collettività
di utenti che però è una somma di individualità; e ricordiamo
che il primo maestro, il più ovvio nella nostra cultura anche senza scomodare
il Perché non possiamo non dirci cristiani di Croce, il Cristo cioè
della testimonianza evangelica, in nome di un costume proprio di tutti i maestri
parla a tutti parlando a ciascuno, rendendo evidente l' individualità del
destinatario, che pure è un destinatario collettivo. Questo atteggiamento
magistrale, proprio dunque del maestro, è quello che dovrebbe avere anche
il bibliotecario, se buon bibliotecario eticamente fondato prima ancora che professionalmente
realizzato. Vale a dire che la struttura di servizio che noi dobbiamo innanzitutto
concepire e immaginare, e poi tentare di realizzare (ma senza una concezione salda
a monte la realizzazione è necessariamente deficitaria) deve avere come
primo obiettivo la soddisfazione degli utenti, intesi sì come collettività
e quindi come somma di richieste che naturalmente andranno incanalate nei vari
punti di offerta del sistema, ma anche come singoli individui, che essendo persone,
è fondamentale rispettare uno per uno. Il punto di partenza, il dato da
cui partire secondo me è dunque quello del rispetto della persona che davanti
a noi si presenta nella forma, nella veste, con il ruolo dell'utente: e questo
è un vecchio problema del bibliotecario, un vecchio problema della biblioteca.
C'è un atteggiamento tradizionale nel bibliotecario, che è un po'
quello politico generale del servizio inteso come munus principis, cioè
come qualche cosa che non è dovuto ma che è liberalmente dato, atteggiamento
che si trasferisce in modo tanto inconsapevole quanto sistematicamente diffuso
nel pubblico servitore. Il dipendente pubblico ha così la fondamentale
tendenza a lavorare per fare un favore; a essere presente - naturalmente poi ci
sono anche i casi in cui si verificano le assenze, ma lasciamoli perdere - perché
è appunto dipendente, solo perché ha quel rapporto di lavoro; a
ricevere lo stipendio come compenso per lo stabilimento del rapporto, ma poi a
lavorare solo per un atto di liberalità, che viene magnanimamente concesso
nei casi in cui viene richiesto con atteggiamenti sudditi: se l'atteggiamento
non è suddito, la concessione non avviene. Naturalmente la mia è
una generalizzazione e conseguentemente è anche assumibile come una provocazione,
ma nasce purtroppo da una serie ormai per me innumerabile di esperienze maturate
nel corso di trenta anni di attività. Ho deciso di non insegnare ma di
dedicarmi ai servizi quando da studente, dopo quattro ore di interminabile attesa
nella segreteria dell'Università di Padova, ho visto che improvvisamente
gli sportelli aperti da uno diventavano cinque solo perché era ora di andare
a mangiare, e bisognava smaltire la coda. Davanti a questa situazione, e dopo
aver sbrigato la mia pratica, ricordo di aver preteso di parlare con il capoufficio,
di avergli chiesto ragione di quella soluzione organizzativa e del come mai il
tempo dello studente non meritasse adeguata considerazione, e di aver avuto solo
delle risposte balbettanti. In questi casi io ero molto tagliente nelle mie esposizioni,
cioè sapevo provocare con molta sapienza e molta efficacia: quindi mi trovavo
spesso di fronte a gente con la faccia gonfia e il collo straripante dal colletto
(in dialetto diremmo "ingallata"), ma credo ogni volta di essere riuscito
a toccare punti sensibili, chiedendo quello che ho sempre pensato essere un mio
diritto. Mi è capitato anche, avendolo io chiesto in nome e per conto dell'Istituto
per il quale lavoravo, che qualcuno si sia rivolto al vertice dell'Istituto medesimo
suggerendo che venissi rimosso, proprio per questo mio atteggiamento di pretendere
ciò che si ritiene dovuto da persone che nulla ritengono di dovere e tutto
di potere: il poter dare, in luogo del dover dare.
Ho avuto come dolcissimo maestro nei primi anni della mia formazione in biblioteca
Giorgio Emanuele Ferrari, direttore della Biblioteca Nazionale Marciana da poco
mancato, e ricordo quanto e come egli insisteva sulla sussidiarietà del
nostro lavoro, tanto bibliografico quanto bibliotecario, e come irrideva chi aveva
pretese di chiamarlo scienza e di collocarlo in qualche modo su un piano alto
della considerazione sociale. Sono cresciuto nella convinzione di essere un cameriere
della cultura, un collega dei camerieri che mi servono a tavola nei ristoranti
(di solito male, dato che in una città come questa, in cui l'utenza cambia
continuamente, la formazione ai servizi è comunque inesistente) perché
ho sempre pensato che il mio lavoro di bibliotecario fosse in qualche modo analogo
al loro: dovevo presentarmi a chi ordinava il suo menù, e portargli se
possibile rapidamente e decorosamente il piatto. Ecco, credo che pubblico e privato
vadano necessariamente ricondotti a questo, sgomberando il campo da una grande
dicotomia che ormai mi appare meschina, dove pubblico significa soprattutto l'ossequio
a procedure generalmente insensate o comunque incapaci di garantire l'effetto
per cui sono state pensate, che è fondamentalmente un effetto di controllo.
Credo che gli eventi degli ultimi anni, con tangentopoli, abbiano denunciato non
solo l'inadeguatezza di questo principio del sistema ma reso risibili schiere
intere di magistrati, di componenti della Corte dei Conti, di dirigenti, di responsabili
a vario titolo e in vario ambito delle pubbliche amministrazioni; credo che tutti,
io compreso, ci meritiamo una grande risata davanti a quello che è avvenuto
che tuttora avviene. Salvare l'interesse collettivo è certamente un obiettivo
da darsi, ma va inteso nel senso di salvare l'interesse di una somma di individui
e non può tradursi nella negazione del servizio in ossequio alle procedure:
questo è un altro fantasma che va messo in evidenza, e che va puramente
e semplicemente distrutto.
Credo che Bassanini abbia operato egregiamente in questa direzione, e sia una
specie di santo silente che riscatta in qualche modo la complessiva viltà
del nostro sistema, della nostra classe dirigente, della secondo me scadente opera
di governo della sinistra di questi ultimi anni. Se si toglie infatti il grande,
decisivo intervento sul debito pubblico, assolutamente fondamentale e in qualche
modo giustamente premiato con le presidenze di Prodi e di Ciampi, per il resto
la sinistra a mio parere è venuta meno a quella che era in passato una
sua tradizionale capacità di elaborazione sul terreno dei servizi, e in
particolare dei servizi alla cultura. Nel campo delle biblioteche questo ha avuto
come conseguenza di nuovo situazioni risibili: penso per esempio al ministro Melandri,
che per scrivere il suo discorso da leggere all'Ateneo Veneto presentando "Fondamenta",
sceglie qualcuno che non sa distinguere tra biblioteche nazionali e biblioteche
statali. Ma d'altra parte, mi chiedo seriamente, perché avrebbe dovuto
essere migliore del ministro Bono Parrino? C'è una tradizione in questo
senso al vertice dell'amministrazione, che poi scende "per li rami":
per fare un esempio, non abbiamo nemmeno la grazia di vedere per lo meno turnati
- tutti, sempre e comunque, magari dopo 5 o 6 anni - i direttori generali.
Esiste dunque il problema del servizio, dell'elaborazione dei principi sui quali
andare a realizzarlo e dell'applicazione poi di questi principi attraverso la
sua organizzazione. Nel caso delle biblioteche si sono visti per un verso grandi
progressi: pensiamo, per esempio, a come tutto il lavoro di Angela Vinay abbia
riscattato in qualche modo il ruolo marginale tradizionalmente dato all'Istituto
Centrale del Catalogo Unico e abbia avviato la promozione di un nuovo modo di
relazionare tra le strutture e tra gli operatori, sfruttando consapevolmente lo
strumento tecnologico e creando, certo anche con dispersioni iniziali ma a mio
avviso ovvie e comunque premiate dal risultato finale, una cultura diversa nel
bibliotecariato italiano. Questo secondo me è uno dei prodotti più
forti del lavoro di Angela Vinay e di tutto il lavoro di SBN. Per portare avanti
e ripresentare questo lavoro su un piano diverso, per fargli fare cioè
un salto di qualità, è ora necessario probabilmente uno spostamento
di ottica dal terreno puro e semplice della biblioteca a quello più generale
della riforma della pubblica amministrazione e della riorganizzazione dei servizi,
con la cancellazione dell'obbligatorietà delle procedure proprie dell'area
pubblica.
Credo che qui a Venezia abbiamo avuto un esempio estremamente interessante con
la legge di riforma della Biennale, che lascia una struttura interamente pubblica
- perché la concezione culturale di quella struttura è strettamente
pubblica in ogni sua parte - in cui nulla può essere individuato di privato,
se non il fatto che la legge la definisce privata. Questo spalanca le porte ad
una riorganizzazione sostanziale dell'ente, e progressivamente all'impianto di
una nuova cultura al suo interno; si tradurrà poi nei fatti anche in un
rapido ricambio del personale, perché il personale cresciuto con una cultura
pubblicistica non sopporta un certo tipo di riforma e di riorganizzazione. E se
pure molte volte le sue motivazioni possono essere condivisibili, la sostanza
in realtà è che chi è abituato a lavorare in una struttura
pubblica ha normalmente davanti a sé obiettivi e problemi che non sono
l'interesse individuale della collettività degli utenti.
Questo è il vero nodo a cui occorre ricondursi. Bisogna dunque privatizzare
rapidamente, non necessariamente i beni ma almeno le gestioni, riportando tutto
nella sfera della procedura privata e soprattutto al merito delle questioni, quindi
a una responsabilità della dirigenza che sia non formale ma reale e nel
merito, accompagnata cioè da strumenti che la inverino in rapporto alle
politiche di personale e alle politiche di bilancio, compresa la ricerca dell'entrata.
Quest'ultima naturalmente è cosa non di poco conto, che deve essere in
qualche modo garantita almeno in parte dal sistema, che oggi la garantisce con
dei denari che però potrebbero essere spesi diversamente e meglio, laddove
non fossero più obbligatorie le procedure dell'area pubblica. Accanto a
questi, altri denari si dovranno poter richiedere ai privati, a doppio titolo:
da una parte a fronte di cessione di determinati servizi, dall'altra a titolo
di liberalità, purché esistano delle norme fiscali che questa liberalità
riconoscano e compensino, cosa che può essere fatta con opportune misure
senza danno per l'entrata dello Stato.