"11. Seminario
Angela Vinay"
BibliotECONOMIA
L'economia della cooperazione bibliotecaria
I
servizi all'utenza: offerta, fornitura (e tariffazione?)
di Giovanni Solimine
docente di Biblioteconomia presso l'Università della Tuscia di Viterbo
È questa
la seconda volta in pochi mesi che mi trovo a parlare di tariffazione dei
servizi.
La volta precedente - mi riferisco al convegno "Gratuità e tariffe nella biblioteca
pubblica" organizzato dall'AIB a Viareggio il 5 e 6 novembre del 1999 [1]-
ho provato un certo disagio, perché mi sono trovato a parlare all'interno
di una sessione in cui si mettevano insieme i problemi della qualità e dei
costi dei servizi, con un accostamento che temo possa risultare ambiguo e
forse addirittura pericoloso. In quella occasione provai a fare una appassionata
difesa della gratuità dei servizi: cosa che tenterò anche oggi, lo dichiaro
subito. Ma, oltre ai motivi di disagio cui facevo cenno e sui quali ritornerò,
ricordo con piacere quella occasione, perché lì ho finalmente notato alcuni
approcci nuovi al problema della tariffazione, che venne affrontato in modo
diverso da come l'ho visto trattare in altre circostanze.
Il disagio era essenzialmente dovuto al fatto che non ci sto ad affrontare
i problemi dalla coda, cioè dalla soluzione da adottare al termine di una
transazione di servizio, quando si deve chiedere o meno all'utente di pagare
per la prestazione che gli è stata erogata.
Naturalmente, so bene che le cose in effetti non stanno così e che il problema
della tariffazione investe tutta la politica di servizio della biblioteca:
ho semplificato enormemente per brevità.
Anche per questo motivo debbo iniziare con un elogio agli organizzatori di
questo seminario, che ci costringono a contestualizzare il problema delle
tariffe, facendoci discutere di economia della biblioteca e quindi di BibliotEconomia,
intesa come disciplina che si occupa della progettazione, organizzazione e
gestione della biblioteca, ivi compresa la gestione propriamente economica.
Se vogliamo aggiungere un'altra considerazione relativa al contesto, non si
può non farsi prendere dalla tentazione di citare la discussione che in questi
mesi si va sviluppando attorno alla new economy, cioè all'enorme sviluppo
che stanno avendo attività economiche legate ai servizi informatici e telematici,
alla trasmissione di saperi, all'uso del tempo libero [2].
Se è vero che sono queste le attività che oggi producono ricchezza, è altrettanto
vero che le biblioteche, a mio avviso, fanno parte pienamente di questo mondo,
specie se le si considera uno degli elementi in base al quale si può misurare
il livello di qualità della vita, e forse perfino il livello di civiltà di
un paese. Proseguendo su questa strada - e procedo sempre per rapidissimi
flash - bisognerebbe anche ricordare che la fornitura di servizi bibliotecari
e informativi andrebbe considerata all'interno delle politiche per il welfare.
Questo è un mio vecchio pallino: da anni cerco di proporre questa chiave di
interpretazione del ruolo della biblioteca nella società contemporanea e una
definizione della disciplina che professo - la Biblioteconomia, appunto -
coerente con una prassi professionale orientata in questo senso.
Con questo credo di aver spiegato il titolo del mio intervento, dove l'aver
racchiuso tra parentesi il termine "tariffazione" e l'averlo accompagnato
con un punto interrogativo non è dovuto ad una sorta di reticenza nell'affrontare
la questione, ma alla convinzione che essa possa essere affrontata solo dopo
che ci siamo chiariti sugli altri punti. Una volta che siano stati discussi
gli altri aspetti, non mi scandalizzerei affatto se si decidesse di far pagare
alcuni servizi.
Partiamo dal contesto, in onore al termine "economia".
E proviamo anche a ragionare sulle dimensioni del fenomeno [3],
sul livello attuale dell'offerta di servizi e sull'uso che ne fanno i cittadini.
In questo senso credo che non si possa non tenere conto di un dato, che a
me pare molto preoccupante. Poco più del 10% degli italiani frequenta le biblioteche
pubbliche (può essere più "forte" il dato opposto, che dice che quasi il 90%
non le frequenta) [4].
Un altro dato preoccupante è a mio avviso quello sulla spesa pubblica. Non
so dire con precisione a quanto ammonti nel suo insieme la spesa per le biblioteche
in Italia. So soltanto che recentemente si è stimato [5]
in 59 miliardi
l'anno la spesa per acquisto documenti nelle biblioteche pubbliche di ente
locale, che da sole rappresentano più della metà delle biblioteche italiane.
Ricordo che questo è l'investimento principale, quello che riguarda la materia
prima in base alla quale diviene possibile erogare servizi. Ebbene: 59 miliardi,
divisi per 56 milioni di abitanti (e questo calcolo mi pare corretto, trattandosi
di biblioteche di base, che si rivolgono a tutti i cittadini, anche a coloro
che per esigenze professionali o di studio sono utenti "anche" di biblioteche
specialistiche), danno una spesa di circa 1000 lire pro capite. Per rendere
un'idea di cosa sia possibile acquistare con 1000 lire ricordo che il prezzo
medio di copertina di un volume è di quasi 40.000 lire.
Per tutta la durata del mio intervento, cercherò di tenere sempre presente
questo dato di base, dal quale credo non si possa assolutamente prescindere,
se vogliamo discutere seriamente della eventuale tariffazione del servizio
e degli effetti che essa potrebbe avere sull'utenza. Non mi sento di escludere,
infatti, che il passaggio dalla gratuità dei servizi - che costituisce oggi
la regola generale e la prassi maggiormente diffusa - ad una loro erogazione
a pagamento - sia pure in pochi e ben determinati casi - finirebbe con l'allontanare
ulteriormente gran parte dei cittadini dalle biblioteche.
Se partiamo da questo approccio, capirete che interrogarsi sulla opportunità
o meno di introdurre tariffe diviene un dilemma molto marginale, a meno che
non esista qualcuno tanto folle da ritenere che - nelle condizioni attuali
- l'introito delle tariffe potrebbe portare ad un significativo incremento
delle risorse disponibili per gli investimenti e per l'ampliamento del servizio.
Anche il caso della Biblioteca Nazionale Marciana, che sta introitando somme
di una certa consistenza dopo il suo inserimento nel circuito museale, può
essere esteso a poche altre situazioni analoghe - ed è senz'altro augurabile
che chi può percorrere la stessa strada si affretti a farlo al più presto
- e in effetti non cambia affatto la sostanza delle questioni di cui qui si
sta discutendo, e cioè di una gestione economicamente vantaggiosa delle biblioteche
in quanto tali.
Volendo discutere seriamente di economia, dobbiamo parlare di "sviluppo delle
biblioteche" e in questo caso direi che il nostro primo obiettivo debba essere
quello di far crescere le biblioteche, di far crescere il loro volume di affari
e di creare intorno a loro una alone di interesse decisamente maggiore di
quello attuale.
Quindi nel nostro caso non può essere valido il criterio che è stato adottato
in altri ambiti dei servizi pubblici, come nella sanità, dove l'introduzione
del ticket nacque anche per moderare certi abusi che i cittadini facevano
delle prestazioni erogate dal SSN [6]. Se così fosse, potremmo
chiudere la nostra discussione prima di iniziarla, perché dovremmo prendere
atto che nel nostro campo abbiamo l'esigenza contraria, nel senso che in Italia
siamo ancora nella fase in cui si deve incentivare l'uso dei servizi bibliotecari.
Ricordo anche, per inciso, che la stragrande maggioranza delle biblioteche
italiane che offrono servizi pubblici appartiene alla pubblica amministrazione
(la Querini è in questo senso una felice eccezione) e che pertanto questi
istituti sono finanziati con danaro pubblico. Così facciamo già una prima
scoperta, ovvia: la biblioteca pubblica è già pagata. I cittadini appartenenti
alla comunità locale cui la biblioteca stessa si rivolge, l'hanno già pagata
attraverso il prelievo fiscale. Spostare l'onere del finanziamento del servizio
in tutto o in parte dall'intera comunità di riferimento sui suoi utilizzatori
può essere contrario non solo ai princìpi sui quali si fonda la mission
delle biblioteche, ma anche ad una valutazione di opportunità politica.
Ricordo, per inciso, che un passo del Manifesto Unesco sulle biblioteche
pubbliche dedicato al finanziamento di questo servizio recita così: "In
linea di principio, l'uso della biblioteca pubblica deve essere gratuito.
La biblioteca pubblica rientra nelle responsabilità delle autorità locali
e nazionali. Deve essere retta da una legislazione specifica e finanziata
dalle amministrazioni nazionali e locali. Deve costituire una componente essenziale
di ogni strategia a lungo termine per la cultura, per la diffusione dell'informazione,
dell'alfabetismo e dell'istruzione".
Credo che vada ribadito questo principio della "doverosità" del sevizio bibliotecario
da parte degli amministratori, che sono tenuti non solo ad istituire le biblioteche,
ma ad offrire ai cittadini un servizio adeguato ai loro bisogni. Non possiamo,
infatti, partire dal principio che questi servizi non siano necessari a tutti
solo perché oggi sono in pochi ad utilizzarli. Solo un potenziamento dell'offerta,
e quindi un incremento degli investimenti, può produrre servizi di qualità
e indurre una crescita della domanda. Le risorse aggiuntive che potrebbero
derivare dall'introduzione di tariffe sarebbero assai modeste e forse vanificate
da un ulteriore calo di una domanda oggi già debolissima. Mi pare, dunque,
insensato, oltre che sbagliato, prevedere che l'introito dei ticket arrivi
a coprire quote significative dei costi [7].
Facciamo un piccolo passo avanti, con un accenno ad un'altra questione cui
vorrei fare un breve riferimento. Non voglio abbondare con le citazioni, ma
ricordo a noi tutti che Paolo Traniello, nel suo volume sulle origini della
public library, indica gli elementi costitutivi della biblioteca pubblica
e la definisce come "un istituto dell'autonomia locale, che trova nel sistema
del self-government britannico il proprio fondamento"[8].
Questa connotazione mi pare che ci porti dritto dritto al tema della qualità
e ci dia una risposta al presunto dilemma tra gratuità e tariffazione. Infatti,
in una biblioteca pubblica che sia veramente la biblioteca dei cittadini di
una determinata comunità, il controllo sociale esercitato dalla comunità acquista
una importanza fondamentale.
Il forte legame che in questo modo la biblioteca pubblica acquista con la
comunità locale e le autonome istituzioni che la governano, furono la vera
chiave del successo delle public library anglosassoni. Nate in effetti
come biblioteche che si rivolgevano prevalentemente alla classe lavoratrice
- quindi più come biblioteche popolari che come biblioteche per tutti - esse
avvertirono presto la necessità di giustificare la propria esistenza agli
occhi di tutti i cittadini, di quelli che pagavano le tasse, di quelli che
ne pagavano più degli altri. Ciò le portò ad espandere il loro raggio d'azione,
a diventare veramente biblioteche per tutti. Nacque così una portentosa spinta
verso quella che oggi definiremmo strategia di marketing.
Tentando un passaggio che potrebbe sembrare ardito, ma che spero mi sarà perdonato
per amore di brevità, possiamo dire che nacque così una "politica del consenso"
che è una delle componenti delle politiche della qualità e del rapporto fra
la biblioteca e il suo pubblico. Ecco il motivo per il quale credo che vada
rilanciata la parola d'ordine dell'autonomia gestionale, cui erano legate
tante speranze all'inizio del decennio che si è appena concluso - penso ovviamente
al 1990, anno in cui venne approvata la legge 142 -, speranze che almeno in
parte sono andate deluse. Mi sia consentito un riferimento personale: ho fatto
per qualche anno l'esperienza di gestione della più grossa istituzione costituitasi
dopo l'approvazione di quella legge, quale componente del Consiglio di Amministrazione
dell'Istituzione Sistema della Biblioteche Centri Culturali del Comune di
Roma, e debbo dire che le potenzialità di questa forma di gestione autonoma
mi paiono al momento utilizzate solo in parte. Le difficoltà maggiori nell'esercizio
reale dell'autonomia si sono manifestate nei rapporti fra l'Istituzione ed
il resto della macchina comunale, oltre che nei limiti normativi che non danno
un chiaro assetto a questi organismi. C'è da augurarsi che la riforma attualmente
in discussione possa sciogliere alcune ambiguità e conferire una piena personalità
giuridica a questi istituti, favorendo anche la partecipazione di altri soggetti
accanto agli Enti locali.
Dall'insieme di queste considerazioni, unite alla preoccupazione prima manifestata
sullo scarso impatto delle biblioteche italiane, nasce la mia convinzione
dell'attualità del principio della gratuità dei servizi della biblioteca pubblica.
Ovviamente, so bene che il fatto che un servizio pubblico sia finanziato con
danaro pubblico non impedisce per nulla che esso possa sia pure parzialmente
essere sottoposto a tariffazione. Ma questo tipo di ragionamento mi induce
anche ad un'altra riflessione: quando la biblioteca sarà riuscita ad avere
un impatto maggiore sulla popolazione, allora essa potrà anche essere un veicolo
appetibile per altre operazioni e provare quindi ad attrarre l'interesse di
altri possibili finanziatori. Emblematico mi pare l'operazione che da qualche
mese a questa parte stanno facendo i provider dei servizi di rete,
che hanno deciso di non far pagare l'accesso ai Internet per incrementare
i contatti, per ampliare il loro bacino di utenza, e incassare poi con la
pubblicità e per altre vie molto di più di ciò che perdono come mancato incasso
per la gratuità del servizio.
Sono convinto, infatti, che convenga a tutti espandere le basi sociali della
lettura e del servizio bibliotecario: conviene a noi, ma anche agli editori
che forse - con colpevole miopia e probabile danno per i loro stessi bilanci
futuri - vorrebbero restringerle, imponendo ad esempio una normativa più severa
sul copyright ed eliminando alcune eccezioni che oggi consentono alle biblioteche
di mantenere la gratuità dei loro servizi.
Espandere l'influenza ed il raggio d'azione delle biblioteche non significa
solo far crescere il numero dei loro utenti, significa in primo luogo migliorare
la qualità del servizio e ampliare e diversificare l'offerta, perché solo
in questo modo esso può divenire più appetibile.
A volte, quando si cerca di distinguere tra servizi gratuiti e servizi a pagamento,
si parte da considerazioni a mio avviso discutibili, che semplicisticamente
propongono di chiedere agli utenti un contributo per alcuni servizi ad
personam (accesso ad Internet, fotocopie, prestito interbibliotecario),
dando quasi per scontato che quei servizi che richiedono l'uso di tecnologie
complesse - solo perché arrivati per ultimi e perché gravati da costi diretti
più facilmente quantificabili - siano gli unici a poter essere tariffati.
Per fortuna a volte emergono anche altre posizioni, che credo abbiano il merito
di rimettere in discussione praticamente tutto: siamo proprio sicuri, ad esempio,
che si debba dare per scontato che debbano essere gratuiti i servizi tradizionali
e di base, come il prestito di un romanzo del costo di poche migliaia di lire,
mentre debba essere sottoposto a tariffa l'interrogazione di un OPAC remoto
presente su Internet? siamo proprio sicuri che oggi sia più "di base" consentire
ad un utente di portare a casa per un mese un libro piuttosto che offrirgli
il libero accesso alle risorse informative e bibliografiche disponibili in
rete? possibile che i soli criteri discriminanti debbano essere legati alle
forme dei documenti o alle procedure e non alla natura dei servizi resi? possibile
che si debba tariffare ciò che costa di più e non ciò che può essere considerato
estraneo ai fini istituzionali della biblioteca? che senso ha proporre di
lasciare come servizi gratuiti quelli di base, cioè scadenti, e far pagare
quelli avanzati? Il discrimine può essere forse un altro: il prestito rimane
gratuito, ma si paga il recapito a domicilio; la consultazione di Internet
è gratuita, ma si paga il download su dischetto, così come la lettura
è sempre stata gratuita ma si sono sempre pagate le fotocopie; e così via.
Naturalmente la scelta alla fine spetterà alle singole strutture, tenuto conto
del contesto in cui esse operano, del modo in cui decidono di posizionarsi
nei confronti dei rispettivi bacini d'utenza, della direzione in cui decidono
di puntare. Ma ritengo che possa e debba esistere un orientamento generale,
da maturare sulle basi di una analisi che vada al di là delle singole e specifiche
situazioni. Non va trascurato, infatti, il rischio connesso ad una "politica
del caso per caso", che potrebbe creare distorsioni notevoli: se, ad esempio,
biblioteche che insistono su uno stesso territorio ed offrono servizi analoghi
decidessero di applicare politiche tariffarie estremamente differenziate,
ciò potrebbe provocare dei flussi di utenza innaturali verso quella biblioteca
che ha deciso di non richiedere alcun pagamento, intasandola ed impedendole
di fatto di operare.
Per concludere, mi pare che le biblioteche italiane siano ancora alla ricerca
del loro pubblico, dal momento che le frequenta solo un cittadino su dieci.
Esse debbono ancora investire molto per poter conquistare fasce considerevoli
della popolazione. E debbono farlo proprio su quei servizi di qualità, su
quei servizi a valore aggiunto che qualcuno vorrebbe sottoporre a tariffa.
Ma non solo, debbono investire ancora molto di più anche sui servizi tradizionali,
come abbiamo visto. Oggi l'offerta di novità librarie nelle biblioteche è
ancora troppo debole: una biblioteca che acquista poche centinaia di volumi
all'anno e che ha pochi periodici correnti non presenta alcun appeal e nessuna
capacità di aggregazione su cittadini continuamente raggiunti da una grande
quantità di stimoli, annunci, proposte attraverso i vari media.
Se vogliamo veramente potenziare il servizio e rendere più razionale la sua
gestione economica, possiamo cominciare col ridurre certi sprechi e col praticare
in modo più convinto la strada della cooperazione. Possiamo seguire l'esempio
di cui credo ci parlerà nel pomeriggio Giorgio Lotto e cercare forme di finanziamento
aggiuntivo, vendendo servizi alle altre biblioteche e alle imprese, proponendoci
come fornitori di servizi ai comuni etc.; possiamo, insomma collegare le politiche
di fund raising alle politiche di sviluppo della qualità. Il dilemma non credo
che possa essere servizi gratuiti/servizi a pagamento. Mi pare innanzi tutto
che si debba ancora decidere se vogliamo dare vita o no ad un serio servizio
di biblioteca pubblica in Italia. Proviamo ad agire prima sui finanziamenti
che sulle tariffe. Per prima cosa miglioriamo la qualità delle biblioteche,
incrementiamo i servizi di qualità, espandiamo il servizio, cerchiamo di raggiungere
quote più ampie del nostro bacino d'utenza, e solo allora potremo permetterci
il lusso di chiedere agli utenti di contribuire ai costi del servizio. Anche
perché solo allora l'eventuale introito potrebbe essere rilevante.
Note
[1] Per gli atti cfr. Gratuità e tariffe nella biblioteca
pubblica. Atti del convegno nazionale, Viareggio, 5-6 novembre 1999, a
cura della Commissione nazionale biblioteche pubbliche dell'AIB. Firenze,
AIB Sezione Toscana, 2000.
[2] Mi piace ricordare che oltre dieci anni fa Italo Calvino
aveva già posto in evidenza la "leggerezza" che avrebbe caratterizzato la
nuova fase dello sviluppo economico, scrivendo che "la seconda rivoluzione
industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali
presse di laminatoi o colate d'acciaio, ma come i bits d'un flusso d'informazione
che corre sui circuiti sotto forma d'impulsi elettronici". Cfr. Lezioni americane.
Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988.
[3] Anni addietro, intervenendo al convegno "Economia della
cultura", svoltosi a Bologna il 22-23 febbraio 1995, avevo provato a fare
qualche valutazione sul "giro d'affari" delle biblioteche. Cfr. Giovanni Solimine,
La dimensione economica delle biblioteche, "Bollettino AIB", 35 (1995),
2, p. 233-241.
[4] Se utilizziamo come indice dell'uso abituale delle biblioteche
il dato sul numero degli iscritti al prestito che hanno utilizzato il servizio
almeno una volta nel corso dell'ultimo anno, vediamo che le statistiche contenute
nelle Linee guida per la valutazione delle biblioteche pubbliche italiane
(Roma, AIB, 2000), parlano di un dato medio pari al 13% della popolazione
italiana.
[5] Per l'illustrazione della metodologia con la quale è possibile
procedere alla stima di questo e di altri dati cfr. Anna Galluzzi - Giovanni
Solimine, Le biblioteche pubbliche in Italia negli anni Novanta: dalle
misure agli indicatori e dagli indicatori ai dati, "Bollettino AIB", 39
(1999), 4, p. 455-467.
[6] Vedi l'intervento di Gianni Nigro, I processi di trasformazione
verso l'impresa culturale, al citato convegno di Viareggio del novembre
scorso.
[7] Ho diffusamente affrontato il tema nel mio intervento
Il prezzo della biblioteca, "Biblioteche oggi", 13 (1995), 6, p. 8-14.
[8] Cfr. Paolo Traniello, La biblioteca pubblica. Storia
di un istituto nell'Europa contemporanea, Bologna, il Mulino, 1997, p.
236-257.