"11. Seminario Angela
Vinay"
BibliotECONOMIA
L'economia della cooperazione bibliotecaria
Due alternative nell'avvio
al lavoro:
il progetto Mediateche 2000 e i lavori socialmente utili
di Luigi Covatta
vice presidente di Italia Lavoro
Consentitemi una premessa:
sono dieci o quindici anni che, in una veste o in un'altra, mi occupo di
questi temi, e oramai quando sento parlare di occupazione nei beni culturali
metto mano alla rivoltella. Intendo dire che mi rendo conto che forse quello
di una diversa utilizzazione del patrimonio culturale - e in questo contesto
del patrimonio bibliografico - potrebbe essere un bacino occupazionale;
ma so bene, anche, che la confusione e la retorica addensate attorno a questa
affermazione da comizio domenicale sono state tali da produrre risultati
francamente risibili. In realtà i posti di lavoro che sono stati
creati in quest'ambito nel corso di quindici anni e a fronte di investimenti
notevolissimi, si contano a centinaia (non certo a migliaia).
Cerchiamo dunque di capire perché si sia creata anche fra gli operatori
una pericolosa confusione tra l'esigenza di conservazione e quella di utilizzazione
(o valorizzazione, fruizione, distribuzione) alla quale ha corrisposto una
ancor più micidiale confusione nell'uso delle risorse e nelle loro
modalità di utilizzo.
Da un lato ci sono stati alcuni allegri burloni i quali hanno pensato che
fosse possibile assicurare la conservazione del patrimonio culturale con
risorse private, senza rendersi conto che tale funzione è una funzione
inevitabilmente pubblica, vuoi per l'entità delle risorse finanziarie
necessarie, vuoi per la sua stessa natura, visto infatti che la conservazione
è un obbligo dello Stato fissato in Costituzione.
Dall'altro lato però ci sono stati dei burloni un po' meno allegri,
che in realtà ci sono almeno dal 1939 - ma sicuramente in forma più
decisiva dal 1975 con l'istituzione del Ministero -, che ritengono invece
che pubblica debba essere anche l'organizzazione dell'utilizzazione di questo
patrimonio, la gestione dei prodotti che dalla materia prima si creano e
la loro commercializzazione; in questo modo le risorse che dovrebbero servire
alla conservazione, al restauro e al recupero servono a pagare alcune migliaia
di custodi o di addetti ai servizi di anticamera, e non sono certo i custodi
o i dattilografi quelli che possono valorizzare il patrimonio.
Annibaldi parlava prima di outsourcing: io non so quale sia l'esatto
opposto dell'outsourcing, forse l'insourcing, però
è esattamente quello che si tende a fare, innanzitutto negli istituti
dipendenti dal Ministero per i Beni e le Attività culturali, ma anche
negli istituti dipendenti dalle Regioni e dagli enti locali, i quali hanno
la pretesa appunto di gestire la questione direttamente, "in economia"
come direbbe l'Onorevole Vigneri, indipendentemente dalla disponibilità
di risorse finanziarie e umane.
Da questa pretesa, propria non solo dell'amministrazione dei beni culturali,
deriva quella specie di monstrum politico-sociale che sono i lavori
socialmente utili, i quali nascono in teoria come tentativo di realizzare
un circolo virtuoso, come esperimento di workfare, di scambio tra
prestazione alla collettività e ammortizzatore sociale garantito
dalla collettività, come tentativo di riciclaggio di mano d'opera:
gli espulsi dal processo produttivo avrebbero dovuto essere così
reinseriti nel processo di erogazione dei servizi sociali. Ma essendo questo
il paese in cui nel 1987 venne votato l'articolo 23 della legge finanziaria
(quello grazie al quale in Sicilia ci sono ancora 40.000 "articolisti"),
rapidamente il circolo virtuoso si è interrotto, dando luogo a una
specie di esercito industriale di riserva della pubblica amministrazione,
cioè a una massa di disoccupati sussidiati da utilizzare per garantire
la pretesa di gestioni in economia.
Come voi forse sapete, Italia Lavoro ha costituito con il Ministero per
i Beni e le Attività culturali una società mista, che si chiama
ALES: questa società mista ha l'obiettivo di reimpiegare i 1800 lavoratori
che in questi nove anni hanno prestato la loro opera in termini di precariato
continuativo (quando si parla di queste cose inevitabilmente si cade nell'ossimoro).
L'esperienza che abbiamo fatto nel tentativo di ricollocare questo personale
secondo una logica imprenditoriale è un'esperienza significativa,
secondo la logica dell'outsourcing, che peraltro è un po'
difficile seguire quando si ha di fronte un'organizzazione del lavoro rigida
e burocratica.
Attualmente tra biblioteche e archivi ci sono 425 LSU, variamente distribuiti
secondo criteri di cui è difficile riconoscere la logica: per esempio
quindici addetti ai servizi di anticamera presso la Biblioteca Nazionale
di Cosenza (che non mi risulta avere anticamere così capienti), una
cinquantina di dattilografi che francamente non so cosa facciano al giorno
d'oggi se non sanno usare la videoscrittura etc.
Al di là di questo, dal momento che questo personale era stato reclutato,
magari secondo logiche clientelari, ma soprattutto secondo una logica di
lavoro interinale, per andare in qualche modo a tappare dei buchi in un'organizzazione
del lavoro rigida, il tentativo di riorganizzare queste funzioni secondo
qualche criterio ci consente comunque di reimpiegare circa 200 di quei 425
lavoratori (dei quali alcuni sono intanto andati in pensione, altri hanno
trovato altre fonti di sostentamento, quindi la quasi totalità) nella
fornitura di servizi, aggiuntivi rispetto alla tradizionale organizzazione
del lavoro, ma non aggiuntivi rispetto alla Ronchey. Abbiamo avuto peraltro
una lunga discussione per stabilire se la movimentazione dei libri è
compito d'istituto o può essere esternalizzata.
Del resto questa estrema difficoltà di concepire l'outsourcing
o comunque una esternalizzazione in funzione dei servizi, nasce probabilmente
dalle origini di ALES. In prima battuta, infatti tutta questa operazione
era in realtà una partita di giro finanziaria, perché nel
bilancio del Ministero per i Beni e le Attività culturali erano stati
aggiunti dei capitoli di spesa tolti al bilancio del Ministero del Lavoro;
di fatto cioè questi lavoratori invece di essere pagati dal fondo
per l'occupazione avrebbero dovuto essere pagati dal Ministero per i Beni
e le Attività culturali, secondo una logica che in passato già
ha provocato alcuni disastri, cioè quella delle "società
scatola" a suo tempo create dalla GEPI.
È questa peraltro un'esperienza che forse finirà senza eccessivi
danni, e penso che alla fine potrà dar luogo comunque a una integrazione,
anche se certo i quindici addetti d'anticamera di Cosenza dovranno decidersi
a cambiare mestiere. [1]
Un'esperienza molto
più positiva è stata quella del progetto Mediateche, attraverso
il quale abbiamo formato 400 giovani laureati del sud i quali, incredibile
dictu, hanno accettato di riunirsi in cooperative invece di pretendere
i concorsi per avere il posto statale. Certo, alcuni inizialmente avevano
fatto persino il concorso per avere il posto da 700.000 lire al mese di
assistente museale; però quando hanno cominciato a capire si sono
convinti. Miracolo ancor più grande, questi giovani (sono ancora
tutti giovani, in quanto per partecipare al progetto due anni fa dovevano
avere meno di 27 anni) hanno saputo aspettare anche i tempi di erogazione
di incentivi pubblici, deliberati ma non conferiti.
Il CIPE ha deliberato (nel novembre del 1998) di dare a questo progetto
un contributo di quindici miliardi, subordinato, per le imprese cooperative,
alla presentazione di un piano di impresa triennale che preveda, a regime,
l'equilibrio economico della Società, e - per gli enti locali proprietari
delle mediateche - alla predisposizione di un piano operativo triennale.
Questi ragazzi dal 1998 stanno organizzandosi con gli enti locali, che dovrebbero
essere i principali fruitori di questo contributo, e comunque nessuna delle
cooperative ancora ha ricevuto i suoi soldi. Ma c'è un altro aspetto
da considerare: nella documentazione distribuita sul progetto si parla della
partecipazione, oltre che del Ministero per i Beni e le Attività
culturali, anche di vari altri Ministeri (come quelli del Tesoro e delle
Telecomunicazioni) che in realtà non sono mai stati presenti, tant'è
vero che l'unica attività che e stata fatta per il Piano d'azione
"Mediateche 2000"- che ha 10 anni di età - è stata
appunto la formazione. Con la scusa della formazione abbiamo creato le cooperative,
e come chiunque di voi abbia esperienza di formazione professionale può
facilmente immaginare, abbiamo poi avuto grossi problemi anche solo per
tenerci i computer utilizzati nelle attività formative. Anche in
questo caso c'è un uso improprio delle occasioni e delle risorse,
una necessità di adattare alle esigenze effettive strumenti pensati
per altro.
Concludo invitandovi a una breve riflessione: possiamo ragionare se si debbano
tariffare i servizi, o discutere su quali siano le risorse che devono provenire
dal denaro pubblico e quali invece quelle che si devono recuperare sul mercato,
ma un ragionamento sulla possibilità di recuperare risorse sul mercato
- e tra l'altro siamo ospiti di una Fondazione che ad esso in parte già
si rivolge - si impone secondo me con forza.
Infatti la mia impressione è che le risorse pubbliche già
esigue verranno ulteriormente ridotte, con il rischio di un effetto deprimente
su tutto un sistema che avrebbe invece l'opportunità e la necessità
di espandersi nella Società dell'Informazione; e che l'accesso, fisico
o telematico, al patrimonio che voi gestite e organizzate sia necessario
alla comunità di oggi non meno dell'erogazione del gas o dell'energia
elettrica.