"11. Seminario Angela
Vinay"
BibliotECONOMIA
L'economia della cooperazione bibliotecaria
Intervento di
di Giorgio Busetto
direttore della Fondazione Querini Stampalia
Mi sembra abbastanza evidente dagli interventi che mi hanno preceduto che
il vero problema che noi abbiamo davanti è come sempre un problema
di cultura: la cultura italiana costruisce in sostanza dei sistemi per anomalie,
cioè tutto quanto quello che noi presentiamo è ogni volta
un fatto anomalo rispetto a quello che oggi possiamo prendere come riferimento,
e che possiamo chiamare l'ordinarietà europea. Per esempio, in questo
Seminario è anomalo il fatto che l'Onorevole Galan, Presidente della
Regione che ha mantenuto il referato della cultura, oggi non si sia presentato,
e non ci abbia fatto avere i dati regionali relativi alla spesa per le biblioteche;
un'altra anomalia, ricordata dall'Onorevole Castellani, è il fatto
che il bilancio dello Stato non sia organizzato per centri di costo, ciò
che lo rende illeggibile al fine di conoscere l'effettiva spesa per le biblioteche.
È evidente cioè che nel nostro sistema si ritiene di poter
lavorare senza i bilanci, senza i dati, i quali sono una cosa che ancora
non si dà volentieri agli addetti ai lavori esterni all'area della
contabilità, perché in qualche modo non sta bene che se ne
discuta; tanto è vero che abbiamo deciso di aprire questa nuova linea
dei Seminari Vinay, per cui adesso per qualche anno ne discuteremo, cercando
di capire come vengono spesi i soldi per le biblioteche in Italia, e in
particolare nel Veneto.
Per cominciare a mettere ordine in queste questioni bisognerebbe disegnare
un sistema bibliotecario italiano: è evidente che su questo il nostro
governo è ancora culturalmente molto indietro, se guardiamo ad alcune
risibili proposte che, se pure sono generose nell'intenzione rispetto all'oggetto
libro, non esprimono neanche la più lontana idea di cosa sia la cultura
e quindi di quale posizione il libro possa avere al suo interno. È
chiaro che manca il tessuto, mancano i riferimenti culturali, i quali tendenzialmente
rimangono i medesimi che aveva il Ministro Bono Parrino; c'è dunque
una fortissima arretratezza della nostra cultura, anche della nostra cultura
politica, e anche della cultura della sinistra italiana - non parliamo della
destra, che mi sembra radicalmente assente su questo terreno.
Però è evidente che o noi riusciamo a trovare una base su
cui appoggiarci e fare lo sforzo per realizzare alcuni salti, alcuni passaggi
strategici, oppure nella competizione globale verremo scalzati: questo tipo
di problema infatti non è solo delle biblioteche o del sistema bibliotecario
italiano, ma appartiene a tutta la nostra cultura organizzativa, ed è
il problema della sua incapacità di riconoscere i fatti strategici
e moltiplicativi. Certamente nella competizione globale la capacità
educativa e la capacità informativa del Paese sono un fatto di una
rilevanza straordinaria, e il peso specifico che devono avere oggi le biblioteche
- e dietro alle biblioteche anche gli archivi e i musei come fonte di informazione
- deve cambiare radicalmente, perché radicalmente è mutato
lo scenario in cui si muove il mondo della produzione. Questi sono dunque
i riferimenti che vanno posti a monte.
Il sistema bibliotecario italiano chiede allora una sua limpida definizione,
e il primo dato è che questa limpida definizione passa necessariamente
sul corpo, direi perfino fisico, dei bibliotecari statali. Voglio dire che
non è ammissibile, per esempio, che noi abbiamo due Biblioteche Nazionali
Centrali e non abbiamo una nostra lending library: perché gli inglesi
ce l'hanno e noi no? E' possibile che non siamo in grado di organizzare,
e quindi riorganizzare, i nostri servizi in questi termini? Qualcuno potrà
dire che, anche se noi istituiamo la italian lending library, poi però
abbiamo le poste che non funzionano, e quindi non si riuscirà lo
stesso a fare i prestiti; oppure ci sarà un mansionario per cui l'addetto
non farà più di sei pacchetti al giorno, e comunque il libro
non potrà partire. Dico questo nel senso che sappiamo bene di avere
dei problemi generali per cui non è possibile riformare una parte,
cioè il sistema bibliotecario italiano, senza riformare anche tutte
le altre; ma se è vero che le cose devono andare di concerto, è
anche certamente vero che a noi come bibliotecari spetta non di riformare
le poste, ma di riformare il sistema bibliotecario italiano, rispondendo
alla solita, banalissima domanda: a chi serve, e a che cosa serve? O noi
partiamo da qui, oppure non ci siamo: ed ecco che anche dall'intervento
di Bertoni risulta una modellistica della biblioteca che è probabilmente
diversa da quella che noi abbiamo. Quindi è fondamentale che noi
ridefiniamo il nostro modello di servizio, ma su questo ritornerò
più avanti.
C'è poi il problema del superamento dello steccato tradizionale tra
biblioteche, archivi e musei, ormai autorevolmente posto anche in termini
di contributi europei, dal momento che biblioteche, archivi e musei sono
tutti oggi delle strutture informative che devono essere riconcepite nel
loro insieme; quindi a monte del disegno della modellistica deve stare l'idea
che non possiamo più parlare di conservazione, ma dobbiamo parlare
di informazione. La conservazione infatti deve essere uno strumento dell'informazione,
e non può più costituire il punto di partenza e di arrivo
del nostro lavoro: il monumento va assunto dunque come documento, e questo
diventa un dato di trapasso culturale senza il quale non siamo in grado
di aprire un ragionamento sulla modellistica e sul sistema bibliotecario
italiano.
C'è d'altra parte una funzione educativa permanente, in una società
con esigenze di aggiornamento e di informazione completamente nuove, che
ci assegna secondo me un ruolo fondamentale, cioè quello di gestire
- sul terreno della competizione globale - dei servizi che garantiscano
la quotidianità, la normalità dell'accesso all'informazione
e al documento, con l'uso continuo, corrente e costante di tutte le basi
informative disponibili.
E c'è ancora un altro problema, che deriva dall'introduzione delle
nuove tecnologie, le quali appunto sparigliano tutto il sistema e impongono
di ripensarlo in chiave diversa; direi che i tre elementi cardine ne sono
il digitale, l'ipertesto e l'Internet, elementi che secondo me comportano,
grossolanamente parlando, una triplicazione della spesa. Abbiamo qui, per
esempio, una telecamera digitale con la quale registriamo tutte le nostre
attività, e disponiamo ormai delle tecnologie sufficienti per poter
immaginare di cominciare a mettere in rete, in diretta e in differita, tutto
quanto quello che facciamo, conferendo una portata e uno spessore completamente
diversi al nostro modo di lavorare. Un altro esempio di questo genere mi
è suggerito dalla presenza che noto in sala della dottoressa Stouraiti,
che sta curando una esposizione relativa ai fondi di cultura greca postbizantina
presenti nelle nostre raccolte, con la quale la Biblioteca si affianca a
una mostra di icone che importiamo dal Museo Benaki di Atene: tutto quanto
questo deve avere oggi una ricaduta anche nel web, diventando uno strumento
di formazione di basi di dati e alimentando un'attività che una volta
non esisteva e che va ad aggiungersi a tutte le altre.
Perché parlo di triplicazione della spesa? Perché le nuove
tecnologie ci impongono innanzitutto di fare quello che si è sempre
fatto, quindi di fare quello che non si è mai fatto, ma che si sarebbe
sempre dovuto fare (e questo è un dato cospicuo della nostra situazione
di lavoro); solo su questa base possiamo e dobbiamo applicare poi le nuove
potenzialità offerte dall'informatica, aprendo un terzo grande capitolo
di spesa. Bisognerebbe certo fare delle analisi più puntuali, ma
credo che parlare di triplicazione della spesa sia del tutto coerente con
le effettive necessità.
Ci sono inoltre delle ricadute sulla questione del lavoro, e in particolare
del lavoro giovanile, che non sono di secondaria importanza, e rispetto
alle quali allora occorrerà vedere come potrebbero meglio intervenire
i finanziamenti.
Infatti io credo che dei soldi ci siano, anche se probabilmente non ce ne
sono abbastanza; certamente però il Paese è ricco, e 55 anni
di pace gli hanno dato una ricchezza tale che per tracimazione arriva anche
alla cultura. Nessuno si è sognato certo di mettere la cultura in
testa alle priorità, ma c'è abbastanza grasso che cola, e
quindi dobbiamo cercare di raccoglierlo, di usarlo al meglio, di dargli
un minimo di organizzazione. Abbiamo lo Stato, gli Enti locali, la scuola,
l'università e tutta quanta una serie di situazioni, ognuna delle
quali dovrà darsi un ordine rispetto a questo fenomeno, ma potrà
darselo solo a condizione che noi siamo capaci di fornirne le specifiche,
cioè spiegare che cosa si deve fare per funzionare. Se non ne siamo
capaci, secondo me tutti sono motivati a fare le sciocchezze che stanno
facendo; è cioè colpa anche nostra, che non siamo evidentemente
in grado né di dire che cosa va fatto, né di farci ascoltare.
Il fatto stesso che cominciamo ad avere dei parlamentari della Commissione
Cultura presenti ai nostri lavori significa che esistono i canali per poter
comunicare e arrivare in sede legislativa, e spero che questo possa valere
anche per la sede amministrativa, perché ce n'è un grande
bisogno; e peraltro, o c'è un forte intervento legislativo sulle
autonomie, oppure i soldi vanno buttati per forza. Ma perché il bilancio
non dà il centro di costo? Perché il bilancio non dà
la spesa di personale? Perché in realtà questo è funzionale
al mantenimento di un Ministero strutturato come è attualmente, cioè
per una sua sostanziale inutilità; la parte viva, forte, utile del
Ministero è infatti quella tecnica, sono gli Istituti Centrali (ne
vorrei anche un altro, quello del prestito), tutto il resto non mi serve.
Troviamo dunque il modo di cancellarlo, perché è una spesa
inutile, rendiamoci conto che se paghiamo il personale e lo mandiamo a casa
comunque ci costa di meno, perché almeno non paghiamo gli uffici.
Queste cose bisogna cominciare a farle, introducendo di qui l'idea della
riforma.
C'è poi un nuovo elemento straordinario: oggi l'Italia ha un sistema
fondazionale tra i più ricchi del mondo, in cui ci sono delle fondazioni
bancarie che hanno relativamente poche lire, come quella veneziana, ma ci
sono anche delle fondazioni bancarie che hanno da spendere ogni anno centinaia
o addirittura migliaia di miliardi. O ne teniamo conto, e cominciamo a discutere,
per esempio, con la Fondazione del Monte dei Paschi su come spende le migliaia
di miliardi che ha ogni anno il dovere di spendere, oppure continuiamo a
rivolgerci all'assessore comunale. Ma sappiamo bene che oggi la ristrutturazione
della spesa sanitaria determina una ricaduta sulle spese di assistenza a
carico dei Comuni che ne drena le risorse e le sottrae alla cultura, perché
questi sono in realtà i meccanismi che regolano i bilanci
Oggi
dunque il vero assessorato alla cultura è la fondazione bancaria:
quello il referente che va chiamato a spendere, e a spendere per la biblioteca.
Vorrei infine offrire ai parlamentari presenti un dono di 40 miliardi in
aggiunta alle disponibilità dello Stato su questo bilancio nel 1999,
o di 900 miliardi in tre anni; secondo me infatti basta ripensare l'uso
dei fondi del lotto, e moltiplicare per due quella cifra. E come si fa?
Si fa togliendo il potere dal Ministero e passandolo ai privati, cioè
compensando la defiscalizzazione dei contributi alla cultura con le entrate
del lotto. Si fa dando una regimazione alle spese, cioè, almeno per
cominciare, autorizzando per i privati tre sole destinazioni di spesa: la
spesa per gli Enti pubblici, la spesa per le ONLUS e quella per i beni notificati
ai sensi della legge 1089 del 1939. Se noi consideriamo, per esempio, la
legge Costa della cosiddetta rottamazione edilizia, vediamo che anche solo
con il 41% di incentivo ha già mobilizzato tutto quanto un sistema;
nel nostro caso invece bisogna andare al 100%, cioè vanno tolte dall'imponibile
tutte le spese fatte per la cultura. Qui è evidente che occorre una
rivisitazione della questione con i tecnici delle finanze, per stabilire
le modalità di coordinamento tra la minore spesa e la minore entrata:
però se io passo i 40 miliardi del lotto del 1999 alla defiscalizzazione
degli interventi per le biblioteche, fino a prova contraria vengo a disporre
di 80 miliardi. Questo secondo me dovrebbe essere l'asse di ragionamento
sul quale lavorare.
Tutto questo però ha senso solo se c'è l'autonomia, perché
senza l'autonomia quale spinta ha il mio modello di biblioteca, e come può
determinare l'attrazione delle risorse e di segmenti di pubblico su specifici
progetti? È chiaro che il quadro si tiene solo in questo senso: il
sistema bibliotecario nel suo insieme va a corrispondere a tutte le esigenze
dell'utenza, mentre al suo interno la singola biblioteca (almeno per il
modello tipologico che copre un segmento di pubblico) con la struttura ad
essa preposta recupera sul mercato, vendendo immagine, le risorse del privato.
Le risorse pubbliche rimangono così le medesime che la biblioteca
ha oggi, con la richiesta di trovare altrove, presso le fondazioni bancarie
per esempio, eventuali risorse aggiuntive. Per questo l'autonomia diventa
il cardine del sistema, perché significa autonomia di bilancio e
autonomia di politica di personale, usando ovviamente i contratti che ci
sono ma assumendo e licenziando secondo le esigenze della singola struttura,
con la responsabilità in capo a chi la dirige e che non necessariamente
sarà il direttore, ma può essere il Consiglio di Amministrazione.
Anche qui l'innovazione legislativa comincia a rendere disponibili i patrimoni
pubblici, per esempio, per le fondazioni di partecipazione; noi oggi abbiamo
dunque già in mano una serie di strumenti, ai quali occorre aggiungerne
qualcun altro. La defiscalizzazione e l'autonomia sono due di questi e sono
fondamentali, dopodiché possiamo veramente andare ad un ridisegno
del sistema policentrico, facendo sì che ogni centro si disegni il
suo pezzo di sistema, purché ci sia, perché qui serve, l'autorità
centrale, cioè un ufficio studi adeguato, una capacità di
coordinamento da parte del Ministero che sappia mettere a confronto fra
loro le varie regioni, le varie situazioni, i vari modelli. Quello che occorre
infatti è un Ministero che faccia politica, non che proponga valigie
di libri, o distribuisca contributi a pioggia, o magari comperi le riviste;
perché, pensiamoci, siamo ancora a questo: il Ministero ci compra
le riviste.