"10. Seminario Angela Vinay"
L'AUTOMAZIONE DELLE BIBLIOTECHE NEL VENETO:
tra gli anni '90 e il nuovo millennio
di Carlo Federici
direttore dellIstituto Centrale per la Patologia del Libro
In genere sono convinto di essere fortunato, ma oggi la giornata
non appare troppo favorevole, visto che mi tocca di prendere la parola dopo
una relazione, quella di Luigi Crocetti, di grande raffinatezza e di elevato
respiro culturale; come se ciò non bastasse il destino mi costringe
ad intervenire dopo Giorgio Busetto, che considero come una sorta di inesauribile
Pizia alla quale è sempre possibile chiedere un oracolo capace di fecondare
il nostro lavoro per diversi mesi.
Confesso oltretutto che, ancora ieri, non avevo capito quale concreto contributo
avrei potuto dare al Seminario Vinay di questanno; oggi fortunatamente
mi è stato spiegato che questa tavola rotonda è nata proprio
nellambito di un incontro tenutosi presso il mio Istituto e che - forse
proprio per questo - mi è stato chiesto di parteciparvi.
Mentre ringrazio per linvito, debbo subito precisare che le iniziali
perplessità erano connesse con i programmi dei Seminari Vinay di questi
dieci anni, analizzando i quali avevo riscontrato che un cenno allidea
di conservazione vi compariva solo due volte: una volta, nel 1990, associata
a Stefania Rossi Minutelli in quanto conservatrice dei manoscritti della Biblioteca
Marciana; unaltra quando, con riferimento al corso di laurea in conservazione
dei beni culturali, ci furono, nel 1996, due interventi, uno di Giovanni Morelli
e laltro di Rosaria Campioni.
Fatta eccezione per questi due episodi - nei quali comunque la conservazione
appare più come un pretesto che come un problema per cui prefigurare
qualche soluzione - non cè più nulla.
Daltra parte, obiettivamente, la conservazione nellera digitale
significa poco o nulla, perché in realtà essa dovrebbe attuarsi
come conservazione dei numeri, dei digits appunto, e la conservazione dei
numeri si fa in modo informatico. Dunque io, o meglio le competenze che rappresento,
centriamo ben poco con queste tematiche.
Se lintervento di Igino Poggiali era indirizzato a chiamarmi in causa,
confesso subito che non è questo il mio mestiere: non so nulla della
conservazione dei dischetti di plastica che hanno una decadenza informatica
superiore a quella fisica e dei quali, dopo 5 anni, non interessa più
nulla a nessuno. Chi legge più oggi i dischetti da 5 pollici e un quarto
- ve li ricordate? - quelli flessibili da cui viene il nome floppy disk? Già,
perché adesso quelli da 3 pollici e mezzo mica sono floppy, sono rigidi
anche se noi continuiamo a chiamarli floppy. E fra un po non serviranno
più neanche quelli, visto che ormai gli ultimi Apple pare non abbiano
più neppure il drive per il dischetto. Per non parlare poi dei compact
disc che oggi sembrano i padroni del mercato e di cui, tra qualche anno, non
rammenteremo più neppure la forma poiché saranno stati sostituiti
da qualche altra diavoleria più capiente e più veloce che ci
obbligherà a cambiare i nostri computer divenuti - come avviene ormai
ogni cinque anni - irrimediabilmente obsoleti.
Ieri comunque si è parlato due volte di conservazione: una volta ne
ha parlato lonorevole Castellani, il quale, in riferimento alla riforma
del Ministero, ha affermato che tutela e conservazione sono cose importanti;
poi si è fermato lì, naturalmente. Quindi ne ha parlato Giorgio
Lotto che, per sottolineare lalto numero di incombenze cui deve far
fronte ogni giorno un bibliotecario, ha accennato alla conservazione del materiale
antico (con tutta evidenza annoverandola tra quelle più pesanti e irrazionali),
da lui definito come «patrie glorie». Al termine del suo intervento,
quando gli ho chiesto di spiegarmi meglio il senso della polemica, peraltro
abbastanza esplicita, mi ha chiarito che per i bibliotecari delle biblioteche
di pubblica lettura, già carichi di problemi, il fondo antico costituisce
un peso, una sorta di appendice cecale: tutti sanno del resto che gli anatomisti
non sono ancora riusciti a spiegare la funzione dellappendice giustificandola
solo come una sorta di fossile filogenetico (non è un caso che nei
rettili sia molto sviluppata). Oltre tutto, la conservazione di queste patrie
glorie è cosa alquanto complicata (le appendici talvolta si infiammano
e allora bisogna ricorrere al chirurgo), segnatamente quando si vorrebbe occuparsi
soltanto di business information.
Insomma confesso che non è facile prendere la parola in un ambito in
cui si discute soprattutto di automazione, informazione, gestione, catalogazione
le quali - almeno così come sono impostate - paiono avere assai poco
a che fare con il libro come bene culturale. Questo infatti è il punto:
il libro, per chi si occupa di queste tematiche, è un oggetto duso,
non un bene culturale.
Ho portato con me il nuovo Testo unico che è stato distribuito qualche
giorno fa al Consiglio Nazionale dei Beni Culturali e al quale accennava ieri
lonorevole Castellani. Lart. 1 recita: «I beni culturali
che compongono il patrimonio storico e artistico nazionale sono tutelati secondo
le disposizioni di questo titolo in attuazione dellart. 9 della Costituzione»;
allart. 2 si afferma: «Sono beni culturali a norma di questo titolo...
(omissis) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli,
gli incunaboli nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi carattere
di rarità e pregio». Tutto qui. Poi ci sono le ville, i parchi
ecc.; altre cose sono invece beni archivistici. Non condividendo questa impostazione
- che trovo decisamente datata e che considera il libro come bene culturale
solo allorché esso è assimilabile ad un opera darte -
ho già preannunciato la mia opposizione che cercherò di esprimere
in seno al Consiglio Nazionale. Per evidenziare lincongruenza di tale
impianto, vorrei citare come esempio lEmeroteca nazionale: dei giornali,
che dovrebbero essere conservati anche se sono stati stampati pochi giorni
fa, chi si occupa?
La concezione della biblioteca che nella giornata di ieri mè
parsa affatto egemone, assimila in tutto e per tutto il libro ad un oggetto
duso: come un frullatore si adopera per preparare frullati e un trapano
per fare fori, allo stesso modo il libro viene utilizzato per trarne informazioni.
Il libro oggetto sembra non esistere, nonostante le nostre biblioteche trabocchino
di libri oggetto. Credo di non dire nulla di nuovo affermando che la maggior
parte delle nostre biblioteche è bicipite, una testa è quella
della pubblica lettura, dellinformazione da elaborare e da diffondere,
laltra quella del fondo antico, delle patrie glorie di cui parlava Lotto.
Questultima costituisce lambito del libro oggetto, quello non
digitalizzabile, nel quale la componente materiale gioca il ruolo fondamentale
e costituisce il bene culturale da conservare: ogni giorno mi confermo nella
convinzione che il resto della biblioteca - nel quale si persegue e si pratica
la information, con o senza business - potrebbe essere gestito anche da unagenzia
di informazioni.
Vi invito a riflettere su questo tema: lappartenenza delle biblioteche
al mondo dei beni culturali è legata proprio a quelle patrie glorie,
senza le quali la biblioteca si trasformerebbe in una più o meno efficiente
agenzia di informazioni, con una sua base di dati e con laccesso a una
serie, ogni giorno più ampia, di basi di dati in linea. È evidente,
a questo punto, che la biblioteca tradizionale è destinata a divenire
una sorta di museo degli oggetti libro, dato che i testi potrebbero essere
accessibili in linea, consultabili da stazioni remote, da casa o da centri
di informazione: cosa fare allora di questi fondi antichi, tenuto conto che
non basta digitalizzarli, perché si digitalizza linformazione
testuale, ma i beni culturali non sono solo informazione testuale, anzi sono
soprattutto materialità?
Immagino che tutti conoscano Cesare Brandi come grande storico dellarte
e soprattutto come teorico del restauro: cè una frase molto importante
nella sua Teoria del restauro che da sola basterebbe a garantirgli limmortalità.
Si tratta dellaffermazione «il restauro è il momento metodologico
di riconoscimento dellopera darte». Se si sostituisce -
spero senza troppo forzare il pensiero dellautore - lespressione
«opera darte» con «bene culturale», il restauro
diviene il momento metodologico di riconoscimento del bene culturale: vale
a dire solo i beni culturali si restaurano (mentre gli oggetti duso
si riparano, va da sé unicamente quando la riparazione costa meno di
un nuovo acquisto). Sicché i libri nelle biblioteche di pubblica lettura
si riparano, mentre si restaurano soltanto i libri che siano stati riconosciuti
come beni culturali. Ma beni culturali non sono solo i libri collocati nei
fondi antichi, come vorrebbe questo Testo unico che, come ho già detto,
presenta appunto numerose carenze: si restaura, in quanto bene culturale,
anche il giornale, anche Il Corriere della Sera di ieri, almeno
allorché esso appartenga allEmeroteca nazionale.
Restaurare significa mantenere tutte le informazioni materiali che ci sono
in quelloggetto, in maniera che larcheologo del cinquantesimo
secolo possa sapere come erano fatti i giornali alla fine del ventesimo; questa
è uninformazione importante che nel passato si trascurava, ma
che noi adesso non possiamo più sottovalutare. Nei fatti la conservazione
dei giornali non la pratica nessuno: in tutte le biblioteche ci sono cataste
di giornali ma nessuno li conserva in modo sistematico e adeguato. Quel giornale/bene
culturale però in nulla differisce dalla cinquecentina o dallincunabolo
se si esclude il fatto che mentre questi ultimi erano costruiti
per durare secoli, il primo è stato progettato come oggetto effimero
del quale, dopo 24 ore, non interessa più nulla a nessuno o quasi.
Sicché la conservazione di questi beni così effimeri richiede
metodiche ancora più complesse di quelle indispensabili per tutelare
le patrie glorie di cui sopra: cè bisogno di aggiungere che.
essendo fondata sulle loro componenti materiali, richiede di essere oggetto
di una specifica formazione? Daltra parte sappiamo bene che la formazione
dei bibliotecari è basata su una concezione tradizionalmente umanistica
della cultura dalla quale sono da sempre bandite le cognizioni mutuate dalle
scienze della natura. Purtroppo però per conservare una carta bisogna
sapere come è stata fabbricata e come le componenti di cui è
costituita reagiscono alle sollecitazioni dellambiente circostante.
Poiché gli attuali bibliotecari non hanno ricevuto alcuna formazione
di questo tipo è indispensabile che la didattica legata alla conservazione
dei beni culturali (non solo del libro dunque, perché la situazione
muta poco o nulla nel settore degli archivi, o nelle arti e nellarcheologia)
sia riorganizzata e credo sia opportuno che tutto ciò avvenga al più
presto.
Quando Chiara Rabitti e Giorgio Busetto mi hanno invitato a partecipare a
questo Seminario avevo pensato di raccontare la cronaca di un fallimento consumatosi
proprio qui a Venezia, dove, presso la locale Università, ho insegnato
per quattro anni una disciplina che si chiama «Restauro del libro».
Riprendo ora, in chiusura del mio intervento, quellidea per spiegare
in cosa è consistito questo fallimento. Lanno passato ho deciso
di lasciare linsegnamento perché non sono riuscito (dovrei dire,
non siamo riusciti, visto che le persone coinvolte erano numerose, ma sono
sempre più convinto di non essere riuscito in prima persona, visto
che probabilmente ero lunico a considerarla assai rilevante) a realizzare
uniniziativa che, ne ero convinto, avrebbe potuto modificare sostanzialmente
la didattica della conservazione dei beni culturali in Italia.
Il progetto era quello di organizzare un laboratorio di conservazione e restauro
del libro presso la Fondazione Cini nellisola di S. Giorgio Maggiore.
La Regione del Veneto aveva già dato il proprio assenso alloperazione
e si era detta disposta a sostenerla con importanti finanziamenti. In quella
struttura si sarebbero fusi il laboratorio della Biblioteca Marciana e un
laboratorio regionale che avrebbe potuto servire le biblioteche venete bisognose
di consulenza e di guida nella soluzione dei problemi conservativi. La sua
utilizzazione nella didattica universitaria avrebbe consentito agli studenti
dei corsi di laurea in conservazione dei beni culturali di vedere finalmente,
magari anche di toccare, quei beni culturali che dovrebbero imparare a conservare
e che oggi, nella migliore delle ipotesi, vedono qualche volta in diapositiva.
Questo progetto poteva contare sullaccordo del Ministero dei beni culturali,
sullappoggio dellIstituto di Patologia del Libro, dellUfficio
Centrale e della Marciana stessa; sul finanziamento della Regione del Veneto;
sugli spazi messi a disposizione dalla Fondazione Cini; sullinteresse
dellUniversità che avrebbe finalmente potuto utilizzare questa
struttura per fare didattica. Ciò nonostante, inspiegabilmente, esso
non è giunto a buon fine. Costava troppo, mi è stato riferito,
e poi non si sapeva bene come organizzarlo
Il progetto di massima era stato steso da chi vi parla cui, un certo giorno,
è stato comunicato che esso era irrealizzabile: non cè
stata alcuna trattativa per verificare se erano possibili soluzioni graduali
o intermedie, perché - ormai ne sono convinto - in realtà i
discorsi sulla conservazione sono belli da farsi sui giornali o nelle conferenze,
ma interessano a pochissimi.
E questa è unaltra responsabilità storica che istintivamente
mi viene fatto di annoverare tra la diverse viltà di cui parlava pochi
minuti fa Giorgio Busetto; certamente è uno degli aspetti con i quali
in futuro qualcuno, soprattutto tra i giovani, potrebbe chiederci ragione.
Grazie.