"10. Seminario Angela Vinay"
L'AUTOMAZIONE DELLE BIBLIOTECHE NEL VENETO:
tra gli anni '90 e il nuovo millennio
di Giorgio Busetto
direttore della Fondazione Querini Stampalia
Il titolo generale che abbiamo dato a questo incontro avrebbe potuto anche avere
un punto interrogativo, come ha fatto osservare Igino Poggiali. L'ho pensato
senza, perché l'idea di questa tavola rotonda è nata per
me in occasione di un incontro che abbiamo avuto qualche mese fa all'Istituto
di Patologia del libro, promosso dall'Associazione Bianchi Bandinelli per
una discussione sulla legge di riforma del Ministero; e in quella circostanza
non c'era il tempo materiale per approfondire i principi in base ai quali
esprimere certe convinzioni piuttosto che certe altre. Io però mi ero
ribellato sentendo qualcuno che faceva riferimento al modello francese, che
mi sembrava assolutamente improprio applicare all'Italia: sono convinto
infatti che noi abbiamo competenza, risorse, forza, tradizione più che
sufficienti per impostare e definire il nostro modello di organizzazione.
Il problema secondo me è un altro, e io credo sia la viltà, per cui da almeno settecento anni - da Italia mia, benché 'l parlar sia indarno - ci lamentiamo di una classe dirigente: su questo c'è veramente una tradizione culturale molto forte, nei confronti di una classe dirigente che agisce esclusivamente in difesa del posseduto e che non riesce ad accettare il concetto di rischio di impresa, non è mai imprenditoriale, non sa esserlo. Negli episodi in cui, invece, ha saputo esserlo ed è riuscita ad esserlo, questa classe dirigente ha tuttavia espresso delle realizzazioni assolutamente straordinarie, alle quali anche a distanza di secoli continuiamo ad aggrapparci, per esibirle tuttora come delle risorse anche di natura economica.
L'idea che potesse essere Crocetti a rappresentare questo concetto della
tradizione italiana come tradizione policentrica, del provincialismo italiano
come un provincialismo europeo, cioè di dignità assolutamente
sovranazionale, mi pare si sia rivelata particolarmente felice. Credo che finché
questo paese riuscirà ad esprimere bibliotecari con questa capacità
di riflessione e di sintesi possiamo continuare a lamentarci ma anche, in qualche
modo, a sperare.
In tutto quanto questo l'intento era che si dovesse marcare la situazione
del modello italiano, e anche dire che, in presenza della rete e di tutti i
nuovi strumenti che le tecnologie ci rendono disponibili, forse la tradizione
italiana ci vedeva anche più forti: a me sembra che il nostro modo di
lavorare, la nostra cultura, la nostra tradizione, il modo cioè con cui
siamo stati improntati, favorisca il nostro lavoro nella rete. Credo dunque
che per noi la rete sia uno strumento veramente molto importante, perché
può valorizzare al massimo la nostra tradizione policentrica e provinciale.
Qui però si porranno una serie di problemi: una delle conseguenze della viltà è che non si fanno le grandi opere: non si pensano e non si realizzano, e quindi noi abbiamo un deficit infrastrutturale gravissimo. Questo spiega perché le prime due parti del Seminario sono state dedicate al concetto di infrastruttura: infatti mi è sembrato che l'infrastruttura fosse attualmente la questione dominante. Secondo me prima ancora della biblioteca ci vogliono le autostrade e le autostrade informatiche, cioè credo che trasporti e comunicazioni oggi siano veramente la cosa capitale; sono disposto a rinunciare ai denari per fare le sale della biblioteca, purché mi facciano le strade, purché mi facciano le linee di comunicazione informatica, in sostanza con quello stesso senso di priorità con cui la Germania si è ricostruita dopo la seconda guerra mondiale.
Siamo invece in presenza di una classe dirigente che è assolutamente incapace di esprimersi in questo senso. Qui a Venezia la mancata difesa della città, la rinuncia che si sta facendo, contro l'opinione internazionale (anche scientifica), alla difesa della città con la chiusura delle bocche di porto è un esempio clamoroso; ma chi voglia da qui arrivare a Bologna attraversando l'Appennino si ritrova con lo stesso tipo di preconcetta ostilità alla qualità della vita e ad ogni principio di buon funzionamento. Si fa il tunnel sotto la Manica ma non si collega la Sicilia al resto d'Italia, non si riesce a realizzare l'alta velocità e così via, con una strutturale incapacità. Se poi noi applichiamo questo concetto alle biblioteche, troviamo che questa viltà si riproduce in una costante mancanza di scelte: è stato citato Spadolini ma andrebbe altrettanto citato Ronchey, che secondo me è un altro grande affossatore della nostra speranza; e adesso questa ultima legge di riforma è un'ulteriore occasione mancata, un'altra grande costruzione all'insegna della viltà.
Machiavelli diceva, l'ho già ricordato in occasione di un altro seminario, che la novazione è la cosa più difficile da realizzarsi per il principe, perché trova l'acceso contrasto di tutti quelli che ne sono danneggiati o credono di esserlo, e solo il tiepido sostegno di quelli che ne sarebbero invece beneficati; e quindi si va avanti senza darci le basi per la competizione, mentre però la competizione ormai si fa stringente, forte, quotidiana e costante. Quindi la tradizione che ci insegna solo a difendere ciò che possediamo ci porterà a perderlo, perché o noi il nostro capitale lo mettiamo a rischio di impresa, oppure inesorabilmente ne perderemo tutto il valore. La situazione che stiamo vivendo è quella di un talento seppellito che non si moltiplica. La rete dovrebbe darci la possibilità di passare da situazioni di periferia e di marginalità a situazioni di cultura metropolitana: in fondo il Veneto è grande come Los Angeles. Queste sono infatti le dimensioni dell'Italia, un piccolo paese che si regge su 8000 comuni: la nostra unità istituzionale fondamentale è ancora quella dell'anno Mille, in quanto non siamo stati capaci di capire che le cento provincie ne sarebbero state il sensato sostituto, anche se napoleonico e illuminista. O noi quindi ricominciamo ad agire con un concetto di scala corretto, oppure, se pensiamo di poter conservare ciò che eravamo, ci ritroveremo battuti miseramente.
Allora il lavoro in rete dovrebbe dare a tutti una cultura cittadina nel senso metropolitano del termine, intendendo la città come luogo dell'informazione: l'abitante della città era tradizionalmente un abitante informato rispetto all'abitante di un paese, di una campagna, di una periferia. Ancora nel Seicento fra Paolo Sarpi qui sedeva tutti i giorni nella bottega di Alvise Sechini alla Nave de oro, prendendo appunti sul suo bislungo libro da tasca, perché quello era il luogo dell'informazione, perché da lì passava il mondo e passava l'informazione del mondo. Questa tradizione della città come potente centro informativo si trasferisce oggi su questo mezzo di comunicazione, che ha realmente delle immense potenzialità anche in termini di democratizzazione della cultura e di accesso all'informazione.
Qui allora si pone quest'altro problema: noi abbiamo - lo diceva bene
Crocetti - come tradizione bibliotecaria una tradizione di studio, che secondo
me è una tradizione di distanza dal pubblico comunemente inteso e di
vicinanza invece ad un pubblico remoto, cioè di appartenenza a quella
rete che dal Medioevo in poi è stata la rete degli umanisti. In questa
rete il nostro bibliotecario, di formazione sei e settecentesca prima, con la
scuola storica poi, finisce per prendere una forma definita, quella di cui ci
siamo nutriti anche noi in qualche modo: è un umanista, è un uomo
di rete, possiede una cultura di rete, ma non ha mai pensato di dover servire
chi si affacciava sulla porta della biblioteca, solo chi si affacciava sulla
porta della direzione. In questo senso la Querini di Dazzi, il Viesseux di Montale,
gli anni Trenta così felici per la nostra cultura provinciale e policentrica
vivevano quotidianamente su un doppio binario: quello dell'uomo di studio,
che era un pari del direttore e aveva quindi accesso a tutta l'immensa
potenzialità del servizio, e quello dell'utente comune, che veniva
invece il più possibile tenuto a distanza, o addirittura fuori della
porta. Di qui è venuta la nostra difficoltà ad entrare nel terreno
della pubblica lettura.
Ora credo che noi dobbiamo assolutamente salvare la tradizione, mantenendo cioè
quella che è la sua grammatica generativa e avendo giorno per giorno
la capacità di innovare senza rinunciare a quello che siamo stati e a
quello che siamo, applicando costantemente in questo la nostra intelligenza
e la nostra umanità.
Vedo che il mio tempo è scaduto e mi avvio alla conclusione. Una cosa
sola vorrei ancora aggiungere: ci si deve chiedere che tipo di lavoro va fatto
in rete, e quindi che tipo di operatore servirà. Qui credo sia importante
rilevare di nuovo la questione della viltà e la questione di come si
governa, di come quindi debbano essere assegnate le risorse. Perché lavorare
con la rete significa dover continuare a fare tutto quello che si è sempre
fatto, dover fare tutto quello che non si è mai fatto e si sarebbe dovuto
fare (e quindi qui già occorrono delle risorse aggiuntive) e infine fare
tutto quello che le nuove tecnologie ci consentono di fare, sviluppando queste
risorse immense che sono l'ipertesto e la comunicazione di rete; quindi
occorre in sostanza triplicare le assegnazioni. E allora anche qui si tratta
di capire nel nostro bilancio pubblico consolidato, a partire da quello statale,
ma anche quelli delle fondazioni bancarie, degli enti locali e così via:
questi denari come si spendono? quali devono essere le priorità? a tutte
le risorse aggiuntive che si liberano, dal lotto alle privatizzazioni, che destinazione
va data?
Se non risponderemo adeguatamente a queste domande tutto il sistema rischierà
di saltare molto rapidamente. Un esempio molto significativo: la Biblioteca
Marciana, nel momento in cui ha introdotto il recupero del catalogo cartaceo,
ha fatto fare il lavoro nelle Filippine, dove costa molto meno sviluppare questo
tipo di attività; ma anche gli archivi del catasto veneto erano finiti
in Albania, e così via. Queste cose si fa finta di non saperle, ma in
realtà esiste da noi anche quest'altro problema: non è possibile
sviluppare occupazione su questo terreno se non si affrontano quelli che sono
i nodi della rigidità concettuale - altra forma di viltà e di
difesa del posseduto - di quella che è l'organizzazione del nostro
lavoro.