Il retaggio multimediale
fra hardware, software e politiche culturali
Riccardo Ridi
Non va di moda parlare del "patrimonio" bibliografico e della sua conservazione, tanto che accusare qualcuno di sostenere una "concezione patrimoniale" delle biblioteche o della cultura è diventata una offesa da lavare col sangue. Anche per questo preferisco parlare di "retaggio", termine forse leggermente meno compromesso con gli aspetti economici ed inventariali della preservazione e per di più assonante con l'ormai onnipresente ambiente reticolare telematico; ma pur sempre di conservazione e trasmissione ai posteri si tratterà in questo mio breve intervento [1].
Nel caso delle biblioteche non si tratta però di conservare singoli oggetti in copia unica come fanno i musei, o singoli documenti in originale, come fanno gli archivi storici. Con l'avvento della gutenberghiana "riproducibilità tecnica" dei documenti, compito delle biblioteche dette appunto "di conservazione" diventa la preservazione di un singolo esemplare proveniente da una tiratura di copie identiche come garanzia della "pubblicazione" dell'intera tiratura [2].
Ma cosa significa "essere pubblicato"? Prima dell'invenzione della stampa significava essere letto in pubblico o trascritto in una manciata di esemplari tutti irrimediabilmente diversi fra loro [3]. Dopo l'invenzione del Web significa giacere su un server telematicamente collegato a tutti i computer del mondo. Solo il cosiddetto "legislatore", questo polveroso scrivano che verga leggi e bandi di concorso in un cubicolo isolato dal mondo, continua a pensare che sia qualcosa di indissolubilmente legato a torchi che gemono, tipografie che sfornano tomi e prefetture che ricevono esemplari d'obbligo, cristallizzando caratteristiche legate alla sola fase gutenberghiana della produzione editoriale. Il concetto di "essere reso pubblico", riferito a un documento, è rimasto nei secoli lo stesso, ma tecnologie e metodi sono mutati non poco, per chi non si è tappato nel frattempo ermeticamente occhi e orecchi.
Si parla tanto della rivoluzione apportata nell'universo documentario (il famoso docuverso di Nelson) dall'avvento dell'editoria elettronica; ma in realtà, dal punto di vista dell'evoluzione del concetto di "pubblicazione", il cd-rom assomiglia terribilmente al libro, perchè mantiene inalterati i concetti di edizione (variante discreta di un'opera) ed esemplare (in una tiratura di copie pressochè identiche) e perchè, in biblioteca, è acquistabile, inventariabile,catalogabile, stoccabile, prestabile, perdibile e scaricabile esattamente come un libro.
Le biblioteche, finchè si occupano di supporti elettronici portatili
restano, tutto sommato, nel solco della tradizione, sovrapponendosi addirittura
parzialmente a una istituzione "cugina" che viene vista in certi ambienti
come l'incarnazione stessa della "concezione patrimoniale" della cultura:
il museo. Si tratterà di esemplari unici nel caso dei musei e di
esemplari archetipici nel caso delle biblioteche nazionali, ma pur sempre esemplari saranno, ovvero oggetti fisici (fatti di atomi, direbbe Negroponte). Il vero salto concettuale appare solo col network publishing,
con l'editoria elettronica in rete, con Internet e la conseguente radicale
riorganizzazione della classica catena documentaria sempre "locale" in
una vera e propria rete documentaria ipertestuale in gran parte "remota" [4].
Prendiamo ad esempio il tema della obsolescenza degli strumenti hardware
e software necessari per la lettura dei documenti elettronici, e soprattutto
di quelli multimediali, più sofisticati e quindi ben più
critici di un banale, ma più stabile, testo ASCII [5].
Il problema
è ben noto: la durata fisica dei supporti digitali multimediali(elettronici,
magnetici o ottici) non è nota con certezza, e rischia di rivelarsi
inferiore a quella di argilla, pietra, papiro, pergamena e carta.
Ma, se si trattasse solo della durata fisica dei supporti, "basterebbe" riversarne periodicamente il contenuto da un supporto all'altro, e l'inevitabile "dimenticanza" che certe generazioni dimostrerebbero per certi documenti costituirebbe l'inevitabile "selezione culturale" documentaria che ogni generazione applica ai testi che maneggia prima di consegnarli a quella successiva [6]. Questa soluzione supererebbe anche il problema della sempre più rapida obsolescenza - che non saprei se definire "tecnologica" o "commerciale" - delle tipologie di supporti (e di marchingegni atti a decifrarli)disponibili sul mercato.
Un problema ben maggiore, che rischia di coinvolgere tutti i documenti digitali, indipendentemente dalla valutazione che gli ambienti accademici e la società nel suo complesso possono riservare loro, è invece quello della sopravvivenza dei software capaci di tradurre i dati digitali, scritti in mille linguaggi diversi, in informazioni fruibili dai dispositivi di input umani (occhi e orecchi) e dei dispositivi hardware in grado di supportare tali programmi [7].
La mera conservazione di un cd-rom è vana, se non sopravvive con esso almeno un lettore hardware capace di accoglierlo; ma anche travasando periodicamente i dati su supporti futuribili, resta problematica la sussistenza sia di programmi in grado di comprendere tali dati e tradurli in un linguaggio umanamente comprensibile, sia di macchine su cui far girare tali programmi. Tralasciando in questa sede i pur giganteschi problemi della trasmissione temporale di messaggi linguistici di qualsiasi natura e su qualunque supporto (sottoposti ad esempio al rischi o che nel frattempo si sia persa memoria della lingua in cui sono stati codificati), i documenti elettronici devono affrontare almeno quattro ulteriori rischi specifici, che attentano alla loro persistenza nel tempo:
1: Scarsa durata fisica dei supporti per la memorizzazione dei dati
(cd-rom, floppy, nastri, ecc.).
2: Obsolescenza dell'hardware per la decodifica dei supporti
(lettori, drive, ecc.).
3: Obsolescenza del software per l'interpretazione dei dati
(word processor, programmi di grafica, browser, Acrobat, ecc.).
4: Obsolescenza dell'hardware per l'esecuzione dei programmi di interpretazione (microprocessori, computer, ecc.).
Due sono le principali strategie possibili per affrontare questi problemi di conservazione dei documenti digitali: "la prima consiste nel tradurli informe standard indipendenti da qualsiasi sistema informatico; la seconda nel mantenere la leggibilità dei documenti estendendo la longevità dei sistemi informatici e del loro software originale. Purtroppo entrambi i metodi presentano gravi inconvenienti" [8].
La prima soluzione somiglia un po' troppo, a mio avviso, ad altre grandi utopie come la lingua universale o la traduzione automatica per essere considerata realistica [9]. La seconda, per quanto conti fra i suoi sostenitori anche autorevoli studiosi di cose bibliotecarie [10] , che riallacciano questa nuova funzione di archeologia informatica a quella più classica di filologia bibliologica  [11], rischia di essere altrettanto irrealistica, almeno in Italia, viste le condizioni in cui versano la maggior parte delle nostre biblioteche dal punto di vista tecnologico (per tacere, pudicamente, di altri aspetti). Difficile pensare, ad esempio, che le due biblioteche nazionali centrali italiane, già sufficientemente provate dalla gestione del materiale cartaceo proveniente dal deposito legale, riescano ad assolvere decentemente anche i compiti di biblioteche-musei in cui conservare e mantenere funzionanti i prodotti software e hardware estinti [12].
Un cambiamento radicale di prospettiva si verifica passando dal possesso di supporti portatili come floppy e cd-rom all'accesso remoto ai documenti elettronici messi a disposizione più o meno gratuitamente via Internet. In ambiente reticolare l'edificazione di musei di archeologia informatica perde priorità, mentre torna d'attualità il controllo bibliografico universale almeno delle principali versioni dei documenti che incessantemente vengono aggiornati in rete, spesso anche migrando rapidamente di server in server.
Server e indirizzi cambiano, client e browser pure, ma i file corrispondenti ai documenti possono conservare in rete una notevole stabilità, almeno dal punto di vista della leggibilità del formato, soprattutto se si è avuto l'accortezza di non snaturare in nome del perfezionismo della resa grafica standard originariamente orientati alla sola struttura logica dei documenti come HTML, XML e SGML [13] . Un file HTML standard, non infarcito di tag proprietari e di stratagemmi per "congelare" una determinata visualizzazione grafica, è leggibile con browser di tutte le marche e su tutti i sistemi operativi, indipendentemente dal tipo di supporto su cui risiede o viene copiato [14] . E' un buon punto di partenza per ipotizzare un discreto livello di leggibilità anche da parte delle prossime generazioni di software.
Ma ben poco si consoleranno storici e comuni lettori del futuro di poter leggere facilmente le antiche pagine web tramandate loro, se la loro consistenza quantitativa sarà troppo esigua. Se nessuno si occuperà di "archiviare Internet", ovvero di preservare e catalogare almeno le principali varianti dei documenti disponibili in rete che si sono susseguite nel corso del tempo, il World Wide Web sarà per sempre condannato a vivere in un eterno presente di documenti aggiornati, privi di qualsiasi dimensione storica. Per non parlare, anche a prescindere da "edizioni" e "varianti" di documenti comunque ancora disponibili, di quelle pagine web che scompaiono repentinamente nel nulla dopo un periodo più o meno lungo di permanenza in rete, senza lasciare alcuna traccia.
Fra l'illusione della automuseificazione a tappeto di certi utopici progetti americani [15] che affrontano con molto entusiasmo e un pizzico di superficialità gli enormi problemi di stoccaggio, conservazione, accesso e catalogazione di un ipertesto distribuito, enorme e costantemente mutevole come il Web e il fatalismo di chi pensa, non del tutto a torto, che i documenti realmente importanti sopravviveranno comunque grazie ad aggiornamenti, riedizioni, citazioni, copie locali e trasferimenti su altri media, si può tentare una terza via. Si potrebbe tentare di conservare per le generazioni future almeno i documenti elettronici disponibili in Internet (non solo pagine web ma anche archivi di mailing list e newsgroup, gopher ecc.) che si considerano più stabili, compiuti, identificabili e descrivibili, proprio come in quasitutti i paesi del mondo si cerca di ottenere in ambiti più tradizionali il controllo bibliografico universale e la disponibilità universale delle pubblicazione mediante le due armi delle bibliografie nazionali e del deposito legale, che coprono una vasta percentuale, ma mail a totalità, dei documenti prodotti.
La prima soluzione che viene in mente è che i medesimi soggetti che ricevono il deposito legale cartaceo ricevano e gestiscano anche quello elettronico. Nonostante la banalità dell'idea, pare che non sia ancora diffusissima [16], ma forse si può escogitare anche qualcosa di meglio.
In passato ho sostenuto che una biblioteca può legittimamente inserire nel proprio catalogo solo quei periodici elettronici di cui conserva in locale, nei propri scaffali elettronici, tutte le annate indicate, appunto, nell'OPAC [17] . Faccio autocritica. Questo approccio è quasi sempre troppo oneroso per una sola biblioteca. Allora bisogna rassegnarsi a confidare, per il futuro accesso ai fascicoli, nella continuità dei nostri abbonamenti all'annata corrente e nelle imperscrutabili politiche di archiviazione degli editori? No, la soluzione è piuttosto la cooperazione fra biblioteche per la creazione di emeroteche digitali centralizzate e condivise [18] .
Questo approccio è ampliabile anche ai documenti elettronici non periodici, e potrebbe condurre a buoni risultati, purchè si sia imparata la lezione, in negativo, di SBN e di altri giganteschi progetti nazionali eternamente incompiuti e ci si orienti, piuttosto, su nuclei di biblioteche cooperanti più ristretti e più omogenei (per vicinanza geografica, disciplinare, tipologica, ecc.).Potrebbe così sorgere, con un opportuno coordinamento e l'individuazione di un sottoinsieme di documenti pertinenti, una biblioteca nazionale digitale distribuita [19] , che garantirebbe catalogazione, accesso remoto e stoccaggio di garanzia a prova di ripensamenti autorali o editoriali e potrebbe anche condurre esperimenti in ambito PURL [20].
Ricapitolando, sette sono le principali contro mosse che si possono opporre ai rischi specifici che i documenti elettronici affrontano cercando di opporsi alle insidie del tempo che scorre:
1: Travaso sui supporti digitali man mano correnti.
2: Traduzione nei linguaggi e software man mano correnti.
3: Adozione di linguaggi e software standard.
4: Creazione di biblioteche di software, musei di hardware e biblioteche
di
emulatori software di hardware.
5: Preferenza per la distribuzione in rete rispetto a quella su supporti portatili.
6: Adozione di linguaggi standard orientati alla struttura logica del documento.
7: Istituzione di un deposito legale digitale distribuito per i documenti distribuiti in rete.
L'estensione e il rafforzamento della distribuzione in rete dei documenti sarà uno dei principali mezzi per garantire la trasmissione ai posteri di almeno una parte del retaggio multimediale contemporaneo e futuro. Ma è rischioso - si obbietterà - diventare troppo dipendenti da qualcosa di così aleatorio e fragile come le reti telematiche. E' vero, ma non è forse altrettanto vero anche per altri tipi di reti, di cui non sapremmo ormai più fare a meno, come quella elettrica e quella telefonica?
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