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Le biblioteche sono davvero più brave di Yahoo Answers?

Come creare valore aggiunto nel reference al tempo della free economy

Carlo Paravano



Avvertenza: qui parlo riferendomi all'utenza della biblioteca pubblica; assumo trattarsi di una utenza non specializzata in alcuna disciplina, e che abbia come tratto comune l'appartenenza ad un territorio e ad un tempo particolari, con diritto di cittadinanza (inverato o da reclamare) in quel territorio e in quel tempo.

Il titolo di questo intervento è troppo ambizioso, e spero nessuno si aspetti davvero un'analisi tra teoria economica e teoria dell'informazione da un povero bibliotecario "da banco", ibrida figura di mezzo intellettuale, mezzo bidello e ruffiano al servizio del pensiero altrui.

In realtà il mio scopo è di esporre alcune riflessioni generali suscitate dal libro di Elena, e in generale dal lavoro di reference, ovvero dalla pratica di aiutare le persone a orientarsi e trovare informazioni a partire dal loro bisogno conoscitivo, o gap informativo, che visto da dietro il mio banco non si capisce se sia determinato dal compito che tali persone si sono dato, o da quello che gli è stato assegnato, o da quello che credono potrà soddisfare altre persone che vogliono appunto compiacere, per averne denaro, o un buon voto o un qualche tipo di carezza. O almeno così ci pare. Insomma, si tratta di un lavoro maledettamente complicato, e non stupisce che un libro come quello siamo qui a presentare sia di lettura così interessante ma così densa.

Venendo al mio intervento, mi sono chiesto perché mi sono venuti in mente queste due cose: la "free economy" e Yahoo Answers. Per quel che ne so la "free economy" è l'economia del gratis. Non sono in grado di fare un'analisi storico-teorica del concetto di "gratuito", ad ogni modo non mi pare si tratti dell'economia del dono, di forme economiche premonetarie, e per ora non voglio nemmeno far riferimento alla complessa teoria dei "common goods", i beni comuni, una teoria così importante da determinare l'assegnazione dell'ultimo premio Nobel per l'economia (di quelli che una volta davano a Milton Friedman).

Più che altro mi ha incuriosito la trattazione del gratuito che fa Chris Anderson. Chris Anderson è diventato famoso anche presso i bibliotecari da banco per via della teoria della coda lunga. Insomma Anderson è uno studioso dei mercati nell'era digitale.

Nel suo ultimo libro, appunto Gratis (distribuito gratuitamente su Scribd per il pubblico statunitense, e che io ho letto nell'edizione Rizzoli 2009, in prestito dalla biblioteca ovviamente), Anderson, attraverso vari aneddoti, ci racconta come l'economia del gratuito sia nata tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del secolo scorso, fondamentalmente come idea di marketing che prevede la vendita di una merce come soddisfazione di un bisogno indotto o amplificato o serializzato attraverso la somministrazione gratuita di un'altra merce. Per esempio: le consolle dei videogiochi costano relativamente poco, mentre i giochi che ci girano costano decisamente di più, faccio pagare poco il cellulare ma guadagno con l'abbonamento, la macchina da caffé in ufficio la offro senza far pagare, perché mi aspetto di vendere le cialde. Ciò che questa applicazione del gratis ha fatto, secondo Anderson è stato di creare un mercato di massa.

Ovviamente per me che sono vecchio, detta così, sembra un'idea piuttosto superficiale, anzi se mi posso permettere mi pare l'ennesimo tizio che ha scoperto e spiegato il mondo negli ultimi cinque minuti. Forse sono rimasto ad un'altra analisi dei mercati (tra l'altro di uno che bazzicava molto le biblioteche) e che faceva La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una "immane raccolta di merci" e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l'analisi della merce. (Karl Marx, Il capitale. Libro primo. Traduzione di Delio Cantimori. Torino, Einaudi, 1978 p.43


Gli esempi che aprono il libro di Anderson sono strettamente analogici: rasoi, gelatine di carne... Ma quello che interessa ovviamente è come questo meccanismo si presenta nel terzo millennio. Anderson parla di economia dei bit contro economia degli atomi, e rileva come l'economia dei bit sia tendenzialmente deflazionistica. Questo fa si che i modelli di business basati sul gratis stiano diventando tendenzialmente infiniti.

Gli esempi potrebbero essere migliaia, basti pensare al mondo dei media (ove però si sentono scricchiolii sinistri), della musica, o per dirne una per tutte pensiamo a Google, che fornisce gratuitamente il suo formidabile motore e tutto quel mucchio di applicazioni online che sforna di continuo, reggendo tutto con la pubblicità e pochi altri prodotti strategici.

Per inciso devo notare come gli esempi che Anderson porta siano spesso, per un profano leggermente prevenuto, casi di applicazione di strumenti manipolativi dei meccanismi del mercato, attravesro interventi sull'informazione o sul credito, più che casi reali di innovazioni di processo o di prodotto. Insomma distorsioni nel meccanismo di un mercato concorrenziale. Pensavo che dopo Lehman & Brothers avessimo smesso di guardare a questi fenomeni leggendo Wired, ma tant'è.

Però leggendo Anderson mi è venuto un collegamento spontaneo: si offre una merce gratis per venderne un'altra, per creare un mercato di massa al proprio core business.

Le biblioteche pubbliche sono gratuite, come la scuola dell'obbligo, o la profilassi collettiva delle vaccinazioni.

Cosa diamo gratis? Libri, internet, posti a sedere? Perché lo facciamo? Quale mercato vogliamo creare?

La gratuità ha sempre costituito un fattore determinante della nostra identità. Meglio di altri questo concetto lo ha espresso Crocetti nel suo celebre intervento. (Luigi Crocetti,Pubblica, in Il nuovo in biblioteca, Roma, Aib, 1994, p. 49-57; già pubblicato in, La biblioteca efficace, Milano, Editrice Bibliografica, 1992, p. 15-21).

Ricordo brevemente che Crocetti parlava di gratuità almeno "dei suoi servizi fondamentali... perché essa non eroga acqua o energia elettrica, ma qualcosa di impalpabile che si chiama cultura, la cui diffusione non è un vantaggio per il singolo, ma convenienza e guadagno di tutta la società" (p. 53). Vantaggio per tutta la società; come la salute, o la libera informazione, o quella che potremmo considerare il punto di partenza di tutto: l'alfabetizzazione di massa.

Il punto, e qui vengo al libro di Elena, è che la Biblioteca (come la scuola, il giornalismo o la medicina di base) fino a non molto tempo fa concentrava in sè a) l'universo, b) l'accesso a tale universo attraverso un linguaggio pensato per ordinarlo e comprenderlo. Il bibliotecario, esperto del linguaggio e dell'universo documentario corrispondente, poteva proporsi come naturale mediatore tra bisogni e conoscenza (quanto poi lo facesse o meno nella nostra concreta realtà professionale è tema che va affrontato in altra sede). Una società aperta dunque implicava che le biblioteche si dotassero di strumenti per mettersi in comunicazione con i "bisognosi", e tali strumenti offrissero gratuitamente. Il libro di Elena appunto ripercorre la storia e analizza il presente e il futuro di tali strumenti, e del modo in cui concretamente vengono resi disponibili.

In essi potremmo dire che il record bibliografico, che mi piace immaginare reificato nel cartoncino 12,5x7,5, e il documento da esso rappresentato era una "forma elementare", come la merce, che l'attività (gratuita) di mediazione del bibliotecario rendeva fruibile da chiunque.

Oggi, come sappiamo, si stenta ad identificare tale forma elementare, o meglio pare che l'informazione nasca già nella sua forma liquida. I linguaggi si moltiplicano e cambiano, l'accesso sembra non avere barriere. In effetti più che sembrare per molti è già così. Ogni singola informazione ha in sè una numero incredibile di metadati, e continuamente ne attira. Non sto parlando di ontologie, di set Dublin Core o cose del genere. Parlo di metadati in forma impropria: massa di relazioni, collegamenti, commenti, indicizzazioni automatizzate, social tagging e da quant'altro volete. Chi tra voi ha studiato probabilmente potrebbe mettere queste cose in forma molto più dignitosa: pensiamo allo sbriciolarsi del concetto di collezione: mio figlio non capirà mai questa mania del babbo di pensare la musica per "album" (che poi mette anche in fila per condividere le libidini classificatorie di Riccardo Ridi) invece di ammucchiare "tunes" che continuamente si ragrruppao e disperdono in mille forma diverse.; ma a parte i "bimbetti scarmanati" e la loro musica, forse qualcosa del genere non riguarda anche il concetto di articolo scientifico?

Attenti: non sto discutendo di teoria: sto solo confessando un'impressione: che nessuno creda più, almeno nel nostro pubblico di riferimento, al ruolo esclusivo di qualcun altro nel mettere ordine o nel dare un senso particolare a queste particelle, quasi come se si fosse in fisica. Non se ne può conoscere la velocità e la posizione simultaneamente. La competenza che ha fatto la storia del reference sembra essersi staccata dalla figura del bibliotecario per vagare libera ed essere afferrabile da chiunque.

Molti si aspetteranno a questo punto una lamentazione sulla "prevalenza del dilettante", ovvero sull'invasione di esperti non qualificati non verificati e non autorevoli e così via. Vi aspetterete esempi di cattiva informazione, prodotta di cattivi maestri osannati solo perché sanno vendersi a masse ignoranti (e in effetti di tali masse, in qualche misura, facciamo parte tutti). Putroppo non credo che le cose vadano in questo modo.

In realtà anche in questo caso ci troviamo di fronte a "innovazioni di rottura"

Se l'universo informativo si è atomizzato e si è aperto, come sarà diventata la mediazione?

Aperta e atomizzata, probabilmente; comunque si è riorganizzata intorno a mediazioni a geometria variabile, ma basate soprattutto su tre capisaldi:

Il terzo aspetto ha degli aspetti apparentemente positivi (affinità come vera "aderenza al contesto", naturale "coestensione domanda risposta", garanzia di specificità), ma è facile scorgerne la pericolosità, anche e soprattutto in ambienti di "swarm intelligence". Per gli altri due però c'è poco da obiettare.

Nel mio caso chi fa tutto questo è il cosidetto "reference sociale". Qui arriviamo finalmente alla domande del titolo: "Siamo davvero più bravi di Yahoo Answers?" inteso come modello di maggior successo e fama del cosiddetto "reference sociale".

Se ne è parlato in occasione del "Satellite meeting" tenutosi a Firenze nell'ambito di IFLA 2009, ovvero: Emerging trends in technology: libraries between Web 2.0, semantic web and search technology dei quali trovate i materiali online.

Vi consiglio però di guardare il blog di Virginia Gentilini, bibliotecari non bibliofili che come spesso fa ha scritto un ottimo resoconto della giornata e ha anche aggiunto delle considerazioni interessantissime.

Yahoo answers è il più famoso e diffuso servizio di "social reference" che io conosca. Molti di voi lo conosceranno: ha numeri clamorosi, stando a quanto si trova in rete: nel 2008 si parla di 5,5 milioni di iscritti in Italia, e di 135 milioni di iscritti nel mondo. Siamo nel mondo dei fantastiliardi, quindi lasciamo perdere le cifre.

La qualità delle risposte di Yahoo Answers è sempre stata contestata, tuttavia proprio a Firenze sono state presentate delle analisi e dei confronti (un po' come nel famoso confronto Enciclopedia Britannica / Wikipedia) , in particolare in riferimento a Wiki Answers. (vedi Pnina Shachaf: Social reference and library reference services) . Tra parentesi confronti del genere so che sono stati fatti anche a livello accademico, per esempio con la Cornell University (credo ci abbia studiato Perry Mason, o una roba del genere). Il risultato è che l'accuratezza e l'efficacia delle risposte spesso sono confrontabili con quelle delle biblioteche.

Ma non a caso prima ho richiamato Wikipedia, le obiezioni che sono state fatte sono simili; nessun controllo, accesso di dilettanti, fonti non autorevoli...

Sono dubbi e obiezioni che conosciamo, ma che non tolgono di mezzo alcuni fatti:

  1. le risposte faranno anche schifo (non nel caso del Wiki in inglese), ma sono a quanto pare confrontabili con quelle che si possono ottenere da una biblioteca;
  2. comunque le domande le fanno sempre più lì e meno qui;
  3. il meccanismo del "crowd-sourcing reference" riesce a mobilitare più competenze di quante di fatto non ne mobilitiamo noi

Occhio, non sono qui per farvi venire la depressione; come sottolinea la Shachaf, vi sono dei limiti: a ciascuna domanda corrispondono spesso più risposte, con possibile disorientamento, e comunque si tratta sempre di "fidarsi" della risposta ottenuta, o meglio dell'autorevolezza di chi ha confezionato la risposta.

Però non posso che condividere quanto scrive Virginia Gentilini nel suo citato blog:

"Va detto che, ad un primo sguardo, è difficile inquadrare questo servizio nell'idea mentale che abbiamo del reference, perché pare piuttosto assomigliare di più ad un utilizzo tipico da social network, consigli di tipo amicale piuttosto che consulenze informative. In ogni caso, va posta la domanda del perché domande di questo tipo non arrivino, banalmente, agli indirizzi email delle biblioteche se non ai loro servizi di reference digitale. È difficile dire, insomma, che la richiesta di informazione non ci sia, perché allora siamo così poco abili ad intercettarla?" Emerging trends in technology: libraries between Web 2.0, semantic web and search technology (2)

Del resto è il problema che si sono posti prestigiosi ed autorevoli colleghi: Slam the boards per esempio è un tentativo di fare del viral marketing in favore del reference delle biblioteche. Traducendo la descrizione che fanno dell'iniziativa:
"molto brevemente "Slam the Boards" è il tentativo di spingere i bibliotecari a fornire risposte su siti popolari come Yahoo Answers, WikiAnswers, AskVille, etc. Però sottolineamo che le risposte sono state date da bibliotecari. Questo ci dà l'opportunità di mostrare le abilità dei bibliotecari nel rispondere alle domande a utenti che non si rendono conto che i bibliotecari forniscono servizi di reference."

Caso ancora più significativo e per me ancora più importante è quello del servizio inglese Enquire della rete bibliotecaria People's network. Secondo il principio "se non puoi batterli, unisciti a loro", Enquire è diventata partner di Yahoo Answers.

In conclusione, il reference sta affrontando la medesima sfida di tanti altri settori. Quella di trovarsi di fronte a innovazioni di rottura. Vi sono prodotti e tecniche che sono più semplici e meno costose da usare delle nostre, e lamentare che tali prodotti e tecniche porteranno all'ignoranza e alla fine della cultura non ci salverà.

Che fare? Lewis forniva alcune indicazioni:

Vedi: David W. Lewis. The Innovator's Dilemma: Disruptive Change and Academic Libraries in: Library Administration & Management 18 n.2 68-74 Spring 2004

Insomma si punta molto sull'innovazione. Io però condivido un concetto che Elena riporta nelle sue conclusioni: evitare il rischio di una frattura tra il prima e il dopo internet.

Qui vorrei un pò tirare le fila e tornare al concetto originario; che cosa vogliamo vendere attraverso la gratuità? Dov'è che creiamo valore? Il valore lo creiamo non tanto e non solo nel diffondere cultura, ma dobbiamo usare il nostro "gratis" per creare cittadinanza in una società aperta. Il problema del social reference è che tende a cristallizzare alcune posizioni, e che comunque in molti casi non ha come scopo ultimo e reale la soddisfazione di bisogni informativi, ma la creazione e il rafforzamento di legami sociali. Il nostro "di più " quindi deve avere alcuni vecchi e nuovi punti di ancoraggio:

la mobilitazione dei fondi, delle collezioni e delle istituzioni; si dice che siamo troppo vicini ai documenti e poco vicini agli utenti. Ma forse dovremmo ricordare che una biblioteca è fatta di conoscenze, quelle organizzate dai bibliotecari e quella dei bibliotecari.

Elena parla di reference come comunicazione; potremmo cominciare allora a comunicare in primo luogo tra noi.

Carlo Paravano
carlo.paravano@gmail.com


Copyright AIB 2010-04-29, ultimo aggiornamento 2010-06-11 a cura di Paolo Baldi
URL: http://www.aib.it/aib/sezioni/toscana/contr/parava01.htm

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