After a brief review about the influence of the Foucault's ideas on the LIS field, the paper takes into account some insights dedicated by the French philosopher to books and libraries, and in particular: an analysis of the Borges' ''Chinese Encyclopedia''; an interpretation of Don Quixote as a symbolic product of his library; an inquiry on the topic of the universal library; an examination of the Flaubert's Temptation of Saint Anthony; a survey on the concept of the library as heterotopia.
L'influenza esercitata da un intellettuale e filosofo come Michel Foucault – dai primi anni Sessanta ai nostri giorni – è stata enorme in molti contesti del mondo contemporaneo: la sua straordinaria personalità, le sue idee decisamente anticonvenzionali, e in alcuni casi anche il suo impegno militante, hanno segnato dei momenti di straordinaria importanza nell'odierno dibattito culturale.
Al pari di altri settori, anche quello bibliotecario è stato investito da questo ciclone, venendone influenzato da molteplici punti di vista: le argomentazioni di Foucault – e in primo luogo la sua eterodossa concezione del sapere – hanno infatti spinto numerosi osservatori ad affrontare in modo diverso la realtà delle biblioteche, non solo mettendo in discussione la tradizionale immagine che esse hanno di sé, ma "decostruendo" gli stessi presupposti su cui finora si era basata l'analisi biblioteconomica. L'ampia bibliografia riportata di seguito lo dimostra in modo evidente.
In queste note, dopo una breve indagine sull'influsso che le idee di Foucault hanno avuto sull'analisi biblioteconomica, s'intende dar conto di quei passaggi in cui il filosofo francese si sofferma con maggior attenzione sul mondo dei libri e delle biblioteche, individuando una serie di argomenti che gettano una luce originale - e come sempre controcorrente - su questo mondo.
Partiamo dunque dal primo punto, relativo alla lettura che dell'opera di Foucault è stata fatta da alcuni studiosi della scena bibliotecaria, i quali hanno guardato in maniera non convenzionale alla biblioteconomia e alla scienza dell'informazione, contribuendo a delineare quella visione "postmoderna" della biblioteca che ha caratterizzato in modo significativo l'attuale dibattito professionale (Santoro 2006; 2015a; 2015b).
In particolare, Foucault è stato chiamato in causa per la sua concezione della realtà come qualcosa di socialmente costruito; per le sue indagini sul rapporto tra sapere e potere; per le sue nozioni di discorso, di archeologia, di esclusione e di controllo (Hannabus 1996; Budd 2006; Bushmann 2007); e infine per i suoi frequenti richiami a istituzioni quali l'archivio, il museo e la biblioteca, aspetto quest'ultimo su cui torneremo più diffusamente in seguito.
E fra queste tematiche, di considerevole rilievo appare il concetto di discorso che, nell'analisi foucaultiana, indica quell'insieme di "regole che, in una data epoca e società, determinano di che cosa è possibile parlare, che cosa si può costruire come sfera del discorso e quali sono le pratiche discorsive ammesse ed esercitate di fatto" (Fusaro 2003): i discorsi, scrive insomma lo stesso Foucault, sono "pratiche che formano in modo sistematico gli oggetti di cui parlano" (Foucault 1969).
Siamo di fronte a una prospettiva che, applicata al mondo bibliotecario, dà vita a un'interessante riflessione sulle attitudini e i comportamenti che si sviluppano in questo ambito professionale, e che influenzano di conseguenza la stessa indagine biblioteconomica.
Bernd Frohmann, in particolare, ha approfondito questa forma di analisi rilevando come, nel contesto bibliotecario, tali discorsi siano costituiti da una serie di "atti linguistici" che vengono messi in campo da "interlocutori istituzionalmente privilegiati" (Frohmann 1994): è almeno dalla metà del secolo diciannovesimo, afferma infatti l'autore, che i discorsi di natura bibliotecaria s'intrecciano con quelle dinamiche di carattere istituzionale attraverso cui si è esercitato – e si continua ad esercitare – un vero e proprio potere sull'informazione, sugli utenti e sulla loro fruizione della biblioteca.
Ciò conduce lo studioso – perfettamente in linea con le idee di Foucault – a sostenere che tale situazione non solo ha generato comportamenti volti alla sorveglianza e al controllo su consuetudini e attività bibliotecarie, ma ha condizionato a fondo la dimensione biblioteconomica, privilegiando un approccio strumentale e favorendo forme di conoscenza chiaramente subordinate a pratiche di potere (Frohmann 1994; 2001; Foucault 1976b; 1977; 1994c).
A sua volta Gary Radford – spesso in collaborazione con altri autori – ha affrontato questi argomenti ribadendo che il discorso in quanto tale è un oggetto d'indagine assolutamente legittimo, e che questo tipo di analisi costituisce un mezzo assai efficace per decostruire una serie di pratiche finora ritenute normali e socialmente accettabili (Radford 1992).
Alla luce di ciò, l'autore si concentra su alcune realtà bibliotecarie, considerandole come forme di discorso sostanzialmente totalizzanti e autoritarie; tra queste vi è non solo l'idea della biblioteca come discorso teso alla sorveglianza e al controllo, ma anche l'insieme delle pratiche legate all'organizzazione delle raccolte, che rispondono a criteri volti a creare formazioni discorsive coerenti con l'ordine del sapere – o, per dirla con Foucault, con l'episteme – presente e dominante nelle varie epoche (Radford 1992; 1998; 2003; Radford-Radford 1997; 2001; 2003; Radford-Lingel 2012).
Anche in ambito bibliotecario, dunque, appare di grande importanza la relazione fra sapere e potere. Si tratta di un tema che, specie in una fase avanzata della sua riflessione, assume un ruolo fondamentale per il filosofo francese (Foucault 1976b; 1977; 1994c). Difatti la quantità di discorsi presenti in ogni società
si inserisce in una trama di rapporti di potere che permea queste società: essi sono pratiche che dipendono dal potere, ma che generano anche potere, e ciò significa che sapere e potere sono indisgiungibili, in quanto l'esercizio del potere genera nuove forme di sapere e il sapere porta sempre con sé effetti di potere. Si tratta però di un potere impersonale, onnipresente, che non ha dimora fissa, ma opera tramite meccanismi anonimi in ogni anfratto della società. Sotto questa luce, il potere è un insieme di rapporti di forza, diffusi localmente, non riconducibili ad una sola sede (Fusaro 2003).
Applicate al contesto professionale, queste idee servono a esprimere il legame che esiste tra una visione onnicomprensiva e totalizzante del sapere e le pratiche di organizzazione di tale sapere all'interno delle biblioteche, se è vero che queste ultime hanno accolto e fatto proprie le forme di conoscenza tipiche del modello conoscitivo dominante, trasformandole in metodi di ordinamento e di gestione – ma anche di sorveglianza e controllo – pienamente conformi a questo modello (Black 2005; Lingel 2010; Santoro 2015a).
Questi punti di vista sono declinati con varietà di accenti dai diversi studiosi del mondo bibliotecario. Secondo Frohmann, ad esempio, i principi di neutralità ed obiettività proclamati in maniera così veemente dalle biblioteche non sono altro che la manifestazione di un approccio tipicamente positivista e modernista che, mirando a formulare leggi di validità generale per le diverse attività bibliotecarie, dichiara in modo evidente il rapporto fra i processi conoscitivi e quelli volti a esercitare autorità e controllo (Frohmann 1992).
In maniera analoga si esprime Peter Pierre, il quale considera illusoria la pretesa dei bibliotecari di esercitare le proprie funzioni – ed in particolare quella del reference – in forme oggettive e neutrali, nonostante le affermazioni degli stessi bibliotecari e le prese di posizione delle istituzioni a cui appartengono. Difatti, scrive l'autore,
oggi è la norma, piuttosto che l'eccezione, ascoltare un bibliotecario che mostra a qualcuno come condurre una ricerca sulla basi di dati ed aiutarlo in questo senso. Non viene offerta alcuna guida per interpretare le conoscenze che vengono portate alla luce; in molte biblioteche universitarie c'è un'esplicita policy che vieta di fornire assistenza interpretativa. Ma questa versione professionale della Svizzera è chiaramente un miraggio. Come bibliotecari comprendiamo la fallacia della nozione di neutralità, ma poiché siamo "intrappolati nelle nostre formazioni discorsive", siamo incapaci di capire chiaramente cosa sta accadendo alle nostre istituzioni (Pierre 2005, p. 149).
Ma ancora più incisiva è l'analisi di Gary e Marie Radford che, citando il Foucault di Sorvegliare e punire, rilevano come all'interno della biblioteca
gli utenti si trovino immersi in "rituali" di sovrapotere, alle prese "metodi" specializzati di ricerca e di recupero dell'informazione. Essi devono imparare a comprendere i "protagonisti e i loro ruoli" (cioè il bibliotecario e l'utente). Devono impegnarsi nel "gioco delle domande e delle risposte" (l'intervista di reference) e nella natura del "sistema di classificazione". Analogamente all'indagine di Foucault, l'edificio completo dell'esperienza bibliotecaria trova le basi di un intero ambito di sapere e di un intero tipo di potere (Radford-Radford 2001, p. 303-304; Foucault 1976b).
Partendo da questi presupposti, gli autori esplorano il rapporto fra sapere e potere esaminando gli stereotipi che investono le biblioteche e i bibliotecari, e che sono particolarmente diffusi nella letteratura e nel cinema. Ma tale rappresentazione, scrivono Radford e Radford, non è altro che un esercizio di potere, una sorta di "violenza simbolica" messa in campo contro i pericoli di un discorso secondo cui le biblioteche, lungi dal rimanere un baluardo contro ogni deviazione dalla norma, possono in realtà andar fuori dalle tradizionali forme di controllo istituzionale e sociale.
A parere degli autori, infatti, può esistere la tentazione di interpretare il discorso bibliotecario come "qualcosa di positivo, di ottimistico e di amichevole", ma ciò cozza contro i codici socioculturali e le altre formazioni discorsive esaminate da Foucault, che invece esprimono "la vera identità della biblioteca e dei bibliotecari": un'identità che viene interpretata "attraverso le metafore del controllo, della tomba, del labirinto, dell'obitorio, della polvere, del silenzio e dell'umiliazione" e che, fuor di metafora, rivela la duplice condizione delle biblioteche, che da un lato esercitano il potere attraverso i propri metodi di organizzazione del sapere, mentre dall'altro sono impotenti di fronte a un potere/sapere assai più vasto e pervasivo (Radford-Radford 2001).
La rassegna fin qui condotta (breve e necessariamente incompleta) evidenzia la diversità fra la tradizionale analisi biblioteconomica ed un approccio di tipo foucaultiano che, rovesciando consolidati presupposti e punti di vista, dà vita a prospettive nuove e interessanti. Rinviando ai testi citati in bibliografia per ulteriori approfondimenti, ci sembra ora opportuno esaminare quei momenti in cui Foucault rivolge una speciale attenzione al mondo dei libri e delle biblioteche, offrendoci una visione originale e come sempre anticonformista di questa realtà.
Iniziamo il nostro percorso con la lezione inaugurale che Foucault ha tenuto al Collège de France nel 1970, ed in cui è presente un'importante caratterizzazione della biblioteca, intesa come un istituto volto a creare e mantenere forme di controllo discorsivo. Per realizzare ciò, scrive l'autore, è necessario un preciso "supporto istituzionale", che è dato da "pratiche come il sistema dei libri, dell'editoria e delle biblioteche", e che vengono confermate "dal modo in cui il sapere è messo in opera in una società, dal modo in cui è valorizzato, distribuito, ripartito, e in certo modo attribuito" (Foucault 2004, p. 9).
Siamo di fronte a una chiara identificazione del ruolo della biblioteca, volto ad un controllo del sapere attraverso una sua specifica organizzazione: e ciò, con ogni evidenza, non può avvenire prescindendo da strumenti tipicamente bibliotecari come sono i cataloghi e gli schemi di classificazione, grazie ai quali "ogni pratica discorsiva trova il proprio posto rispetto ad ogni altra, all'interno di un più vasto universo del discorso" (Radford-Radford 2001, p. 305).
Questo riferimento alla classificazione appare particolarmente significativo, tanto più perché calato in una specifica dimensione bibliotecaria e documentale. Da parte di Foucault tuttavia ciò non implica un riconoscimento di prospettive di tipo tassonomico, volte a rappresentare sistematicamente il reale, a riprodurre "un ordine prestabilito delle cose" fondato su determinati modelli di organizzazione del sapere, se è vero che nei confronti di questi ordinamenti egli "ha sempre nutrito un atteggiamento di scettico distacco" (Gigante 2015).
Tale diffidenza verso le pretese epistemologiche delle classificazioni è dimostrato in modo palese nella prefazione ad una delle sue opere più conosciute, Le parole e le cose: in essa il filosofo richiama la paradossale ripartizione che Jorge Luis Borges immagina essere contenuta in una "enciclopedia cinese che s'intitola Emporio celeste di conoscimenti benevoli" (Borges 1984, p. 1004-1005), ed in cui gli animali risultano suddivisi in
a) appartenenti all'Imperatore,
b) imbalsamati,
c) ammaestrati,
d) lattonzoli,
e) sirene,
f) favolosi,
g) cani randagi,
h) inclusi in questa classificazione,
i) che s'agitano come pazzi,
j) innumerevoli,
k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello,
l) eccetera,
m) che hanno rotto il vaso,
n) che da lontano sembrano mosche.
"Nello stupore di questa tassonomia", scrive dunque Foucault, "ciò che balza subito alla mente, ciò che, col favore dell'apologo, ci viene indicato come il fascino esotico d'un altro pensiero, è il limite del nostro, l'impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo" (Foucault 1994, p. 5).
Tuttavia questa sorta di deriva gnoseologica – se così vogliamo chiamarla – non è data tanto dall'insensatezza dello schema, dalla sua mancanza di ogni criterio di interpretazione, quanto dalla "insistenza del caso a costituirsi come ordine identificativo degli elementi che esso include" (Gigante 2015): per citare ancora Foucault, "la mostruosità fatta circolare da Borges nella sua enumerazione consiste nel fatto che proprio lo spazio comune degli incontri vi si trovi ridotto a nulla. Ciò che è impossibile non è la vicinanza delle cose, ma il sito medesimo in cui potrebbero convivere. L'assurdo vanifica l'e dell'enumerazione rendendo impossibile l'in in cui le cose enumerate potrebbero ripartirsi" (Foucault 1994, p. 6-7).
Ma per Foucault, in fondo, cosa rappresenta questa impossibilità ad un tempo logica, ontologica ed epistemologica che lo schema evidenzia tanto chiaramente? Secondo alcuni studiosi, essa costituirebbe un'adesione del filosofo a una forma di relativismo epistemologico, se è vero che l'impossibilità di pensare a un ordine così diverso dal nostro implica che anche il nostro ordine debba risultare impossibile a chi è inserito in un ordine completamente diverso (Shumway 1989). Altri autori invece interpretano in termini più radicali la lettura foucaultiana dell'enciclopedia cinese, ritenendola espressione di un totale scetticismo verso la validità di ogni ordinamento che tenda a riflettere una presunta realtà e oggettività delle cose (Sheridan 1980).
In ogni caso, è innegabile che Foucault utilizzi la classificazione borgesiana per contestare l'idea della presenza immanente di strumenti in grado di realizzare ogni forma di ordinamento possibile e, di conseguenza, ogni discorso che ad esso possa essere riferito (Wicks 2003; Gigante 2015). Come ha scritto Judith Revel,
non possiamo costruire un oggetto che corrisponda a quell'enciclopedia cinese: essa non è oggettivabile, nessun oggetto sarà mai costruito dal pensiero a partire dall'elenco che ne fornisce la composizione, perché il meccanismo che presiede all'enumerazione consiste paradossalmente nel pervertire e rendere impossibile ogni forma di totalizzazione, di inclusione e di riduzione all'unità. Non potendo costruire quell'oggetto, non si può produrre nessun discorso di sapere su quell'oggetto (Revel 2003, p. 46).
Nella stessa opera, a poche pagine di distanza, Foucault ci offre un'altra, straordinaria rappresentazione di come determinate pratiche discorsive - che non a caso attengono al mondo dei libri - possano entrare in gioco fino a sconvolgere e travolgere un individuo: siamo infatti messi di fronte, con un ritratto di grande vigore espressivo, all'immagine di don Chisciotte.
È ben noto infatti che il personaggio di Cervantes è il prodotto della sua biblioteca, avendo subìto la nefasta influenza dei libri di cavalleria, la cui lettura lo conduce rapidamente alla follia. E non è un caso che si tratti di libri dissociati dalla realtà, portatori di un'istanza fantastica alla quale don Chisciotte tenta di rimanere ostinatamente aggrappato: difatti lo sforzo patetico e disperato del protagonista è teso a dimostrare che le sue letture corrispondono al vero, e ciò lo spinge a cercare nel mondo reale precise corrispondenze con il suo mondo fantastico, obbligandosi a trovare nella banalità della vita quotidiana le meravigliose immagini presenti nei libri.
Per non mettere in discussione l'autorità del suo credo letterario, e dimostrare così la fallacia della sua costruzione libresca, egli è dunque costretto a rifiutare tutto quello che avviene realmente, considerandolo effetto di magia ed opponendosi risolutamente a esso. E per non uscire dal suo mondo di romanzesca follia, è allora condannato a ripercorrere indefinitamente lo stesso cammino, a ripetere all'infinito se stesso: ed è proprio ciò che mette in luce Foucault quando afferma che
don Chisciotte non è l'uomo della stravaganza ma piuttosto il pellegrino meticoloso che fa tappa davanti a tutti i segni della similitudine. È l'eroe del Medesimo. Non riesce ad allontanarsi dalla familiare pianura che si stende attorno all'Analogo, proprio come non riesce ad allontanarsi dalla sua angusta provincia. Incessantemente la percorre, senza mai varcare le frontiere nette della differenza né raggiungere il cuore dell'identità. Egli stesso è fatto a somiglianza dei segni. Lungo grafismo magro come una lettera, eccolo emerso direttamente dallo sbadiglio dei libri. L'intero suo essere non è che linguaggio, testo, fogli stampati, storia già trascritta. È fatto di parole intersecate; è scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose (Foucault 1994, p. 61).
Ecco dunque delineato il personaggio dell'uomo-libro, foggiato dai testi della sua biblioteca e quindi costretto a "fornire la dimostrazione" che questi testi "dicono il vero e sono il linguaggio del mondo", ad "adempiere alla promessa dei libri", a "rilevare sull'intera superficie della terra le figure che mostrano che i libri dicono il vero" (Foucault 1994, p. 62).
Ma ciò, rileva Foucault, non può proseguire indefinitamente: nella seconda parte del romanzo infatti don Chisciotte "incontra personaggi che hanno letto la prima parte del testo e che riconoscono in lui l'uomo reale, l'eroe del libro". Egli dunque si ripiega ancor più su di sé, dovendo "essere fedele al libro che lui stesso è diventato", per proteggerlo "dagli errori, dalle contraffazioni, dalle contaminazioni apocrife". Come scrive brillantemente Foucault,
egli che, a furia di leggere libri, era divenuto un segno errante in un mondo che non lo riconosceva, eccolo divenuto, suo malgrado e senza saperlo, un libro che detiene la sua verità, annota esattamente tutto quello che egli ha fatto e detto e veduto e pensato, e che consente infine di riconoscerlo, tanto somiglia a tutti i segni la cui scia incancellabile esso ha lasciato dietro di sé (Foucault 1994, p. 63).
E non è un caso se per Foucault il Chisciotte rappresenta "la prima delle opere moderne": essa infatti è l'espressione della rottura di una episteme, quella che fino al secolo XVI ha interpretato il mondo sulla base di similitudini e somiglianze (argomento affrontato nelle pagine precedenti de Le parole e le cose), ed a cui subentrano nuovi criteri di lettura della realtà. Come è stato osservato al riguardo,
don Chisciotte interpreta il mondo secondo una configurazione epistemica che nel 1600 è ormai destituita poiché alla legge della Similitudine è sopraggiunta quella della Rappresentazione. Quindi, il celebre cavaliere errante non solo non è in grado di interpretare le cose per quello che sono, ma non riesce neanche ad ottenere il giusto riconoscimento che le sue imprese meriterebbero: piuttosto che un nobile cavaliere, l'eroe di Cervantes appare un personaggio folle e insensato che trova la sua verità nelle "pagine sbiadite di un libro" (Iacomini 2009).
Proseguendo nel suo percorso volto ad analizzare le cause che determinano il passaggio da un'episteme a un'altra, il Foucault de Le parole e le cose ci offre una nuova, importante caratterizzazione della sfera bibliotecaria: ma stavolta essa non è più condotta da un punto di vista realistico-discorsivo, né fa riferimento a iperboliche ipotesi tassonomiche o a insidiosi stati di follia provocati dai libri. Per contro, la visione di Foucault si richiama a un tòpos di lunga lena com'è quello della leggibilità del mondo, che da sempre si è incarnato nella metafora – o meglio nella "famiglia di metafore" – legate alla "concezione del mondo come libro" (Bodei 1989, p. 10).
Il classico studio di Hans Blumenberg fornisce un'ampia analisi di questa "metaforica del libro", prendendo in esame una quantità di immagini che vanno "dal "Libro della Natura" scritto da Dio, a quello degli eventi storici o dei sogni, opera dell'uomo; dall'universo come "romanzo" completamente riscritto, quale è considerato dai romantici tedeschi al codice del DNA delle cellule" (Bodei 1989, p. 10; Blumenberg 1989).
È infatti evidente, nota Remo Bodei, che "l'idea di leggibilità del mondo implica il manifestarsi della realtà in forma intellegibile, al di là delle apparenze dei sensi e al di qua di una spiegazione completa ed esaustiva" (Bodei 1989, p. 11): ed è in tal senso che "il libro del mondo" può identificarsi ora con il libro sacro della tradizione cristiana, e quindi parlare la lingua della rivelazione; ora con un libro compilato in un nuovo alfabeto, come sosterrà Galilei affermando che il libro della natura è scritto in caratteri matematici; ora con altri e assai più complessi codici o formulari.
A questo libro poi se ne possono aggiungere molti altri, dando così vita alla metafora – ancor più suggestiva e complessa – della biblioteca; e a questa verrà infine associata l'immagine tipicamente settecentesca dell'enciclopedia, intesa come modello onnicomprensivo delle conoscenze (Santoro 2003a; 2003b) o, per dirla con Umberto Eco, come "l'insieme registrato di tutte le interpretazioni, concepibile oggettivamente come libreria delle librerie, dove una libreria è anche un archivio di tutta l'informazione non verbale in qualche modo registrata" (Eco 1984, p. 109). L'enciclopedia infatti, osserva a sua volta Ezio Raimondi, "porta alle estreme conseguenze l'idea di un libro che non può più essere un singolo libro, ma un insieme in cui si deposita un sapere ordinato e che solo da quell'ordine ricava il senso per ogni parte una volta che si stabilisca una rete di relazioni che sono portatrici di altrettanti significati" (Raimondi 1993, p. 8).
Ed è rilevante che, per introdurre questo denso nucleo metaforico, Foucault faccia riferimento a Charles Bonnet, naturalista svizzero del diciottesimo secolo noto per i suoi studi di biologia e di botanica, ma anche di psicologia, di epistemologia, di tassonomia e di linguistica (Anderson 1982; Mazzacut-Mis 2014).
Difatti, è proprio il rapporto che Bonnet istituisce tra le forme di ordinamento delle conoscenze e la loro rappresentazione in un determinato linguaggio ad essere colto da Foucault quando parla del "potere che l'età classica attribuisce al linguaggio": un potere che consiste nella capacità "di dare segni adeguati a tutte le rappresentazioni quali che esse siano, e di stabilire fra queste tutti i nessi possibili. Nella misura in cui il linguaggio può rappresentare tutte le rappresentazioni", prosegue infatti il filosofo, esso "è di pieno diritto l'elemento dell'universale" (Foucault 1994a, p. 101).
Da ciò ne discende che "deve esistere un linguaggio per lo meno possibile che accolga fra le sue parole la totalità del mondo e inversamente, il mondo, in quanto totalità del rappresentabile, deve poter divenire, nel suo insieme, Enciclopedia". Ed è appunto questo, afferma Foucault, "il grande sogno di Charles Bonnet", che "coglie ciò che il linguaggio è nel suo nesso e nella sua inerenza alla rappresentazione" (Foucault 1994a, p. 101). Delineato così il quadro, il filosofo può dunque richiamare direttamente le parole del naturalista ginevrino:
Mi diletto a considerare la moltitudine innumerevole dei Mondi come altrettanti libri la cui collezione compone l'immensa Biblioteca dell'Universo o la vera Enciclopedia universale. Comprendo che la gradazione meravigliosa che vi è fra questi diversi mondi facilita alle intelligenze superiori, cui è stato dato di percorrerli o piuttosto di leggerli, l'acquisizione delle verità di ogni sorta che essi racchiudono e pone nella loro conoscenza quest'ordine e questa concatenazione che ne fanno la principale bellezza. Ma questi Enciclopedisti celesti non possiedono tutti in uguale misura l'Enciclopedia dell'Universo; gli uni non ne possiedono che alcuni rami; altri ne possiedono in numero maggiore, altri ne colgono ancor più; ma tutti hanno l'eternità per accrescere e perfezionare le loro conoscenze e sviluppare tutte le loro facoltà (Bonnet 1764, citato in Foucault 1994a, p. 101).
Ed è interessante che Bonnet abbia espresso la sua visione scientifica ricorrendo alla metafora della biblioteca – o dell'enciclopedia – universale, in ciò raccordandosi idealmente a quanto, pochi decenni prima, ha fatto un pensatore da cui lo stesso Bonnet è stato profondamente influenzato, vale a dire Gottfried Wilhelm Leibniz (Savioz 1948; Rieppel 1988).
Il filosofo di Lipsia, infatti, non solo ha tracciato "analiticamente il piano di una biblioteca quale enciclopedia di tutte le facoltà, scienze, arti, dottrine e lettere" (Rosa 1990, p. 193), ma ha fornito un'importante caratterizzazione dell'idea di biblioteca universale nel celebre frammento dell'Apocatastasi (Blumenberg 1989, p. 141-169; Celada Ballanti 2001; De Robbio 2004; Givone 2005).
Rinviando alle fonti sopra citate per ulteriori approfondimenti, in questa sede possiamo notare che per Leibniz tale biblioteca – grazie agli strumenti dell'ars combinatoria che aveva studiato nei suoi anni giovanili – si costituisce attraverso una serie di combinazioni e permutazioni delle lettere dell'alfabeto, da cui appunto hanno origine "tutti i libri immaginabili" (Blumenberg 1989, p. 150). Il risultato è dunque una biblioteca universale ma non infinita, essendo il numero dei libri che la compongono necessariamente finito, sia perché scaturiscono da un alfabeto finito sia perché sono di ampiezza prestabilita.
Ora, ci sembra che proprio questa finitezza bibliotecaria – che deriva da una finitezza alfabetica e quindi linguistica – soddisfi alla condizione posta da Foucault perché si possa avere una biblioteca universale: ossia che debba "esistere un linguaggio per lo meno possibile che accolga fra le sue parole la totalità del mondo".
È dunque l'immagine della biblioteca universale – o, come scrive Foucault, della "Enciclopedia assoluta" – che rappresenta lo sfondo ideale su cui "gli umani costituiscono forme intermedie di universalità composta e limitata: enciclopedie alfabetiche le quali dispongono la maggior quantità possibile di conoscenze nell'ordine arbitrario delle lettere; pasigrafie che consentono di trascrivere nei termini di un solo e medesimo sistema di figure tutte le lingue del mondo; lessici polivalenti che stabiliscono le sinonimie fra un numero più o meno ragguardevole di lingue" (Foucault 1994a, p. 101-102), tutte forme profondamente radicate nell'episteme classica, e volte a fornire una rappresentazione univoca dell'esistente guardando al modello della biblioteca universale.
Ma Foucault esercita ancora la sua capacità di stupirci quando, negli stessi anni de Le parole e le cose, prende in esame una delle opere più originali della letteratura occidentale, ossia La tentazione di Sant'Antonio: un'opera che ha accompagnato il suo autore, Gustave Flaubert, per circa un trentennio, diventando oggetto di continue revisioni fino all'edizione finale del 1874 (Foucault 2010; Flaubert 2013).
Sappiamo che il testo – un mix di romanzo, poesia e dramma – è stato ispirato dall'omonimo dipinto di Brueghel il Giovane [nell'immagine seguente], che lo scrittore ha visto nel 1845 a Genova riportandone un'impressione fortissima, tanto da dichiarare di essere stato enormemente turbato da quell'"insieme formicolante, grondante e sogghignante in modo eccessivo e grottesco" (Hervé 2014), confidando poi ad un amico: "darei un'intera collezione, e ancora 100.000 franchi, per poter avere quel quadro" (Orlando 2015).
Gli studiosi hanno ritrovato nel testo flaubertiano influenze di Byron e soprattutto del Faust di Goethe, specie in rapporto al celebre episodio della Notte di Valpurga. Ma ciò che qui interessa segnalare è la straordinaria erudizione dispiegata dallo scrittore nel descrivere le allucinazioni, le ossessioni e i deliri che colpiscono l'eremita: tormentato dai ricordi, incapace di dimenticare il passato, Antonio è preda di un'infinità di tentazioni, di immagini di lussuria, di seduzioni di potere o di piacere. E ancora più inquietante è la comparsa del suo discepolo Ilarione che, nel presentare "tutti gli dèi, tutti i riti, tutte le preghiere, tutti gli oracoli", mette in evidenza le contraddizioni della Scrittura. E quando, sotto il nome della Scienza, il diavolo gli svela i segreti dell'universo, per un attimo l'eremita desidera annullarsi nell'infinità delle cose, fondersi nella materia di cui percepisce la straordinaria profusione. Ma infine, nel disco del sole che sorge, Antonio vede risplendere il volto di Cristo e trova finalmente la pace.
L'opera di Flaubert, con ogni evidenza, si presta ad essere esaminata da numerosi punti di vista: e fra tutti, Foucault si concentra sugli elementi eruditi e al tempo stesso fantastici di cui è intessuto il testo. Infatti, da un lato sottolinea come "La Tentation formi una prodigiosa riserva di violenze, di fantasmagorie, di chimere, di incubi, di figure farsesche", prestandosi ad essere letta "come il protocollo di una fantasmagoria liberata"; dall'altro mette in luce la sua natura erudita, descrivendola come "un monumento di sapere meticoloso" perché costruita su una pluralità di documenti strettamente intrecciati fra loro (Foucault 2010, p. 134-135).
Siamo dunque di fronte, prosegue Foucault, a un'inedita sintesi di fantasmagoria ed erudizione, che appare decisamente sconcertante se si pensa a come è stata finora rappresentata la dimensione del fantastico. Con Flaubert infatti si assiste a un radicale cambiamento di passo: questo "nuovo luogo di fantasmi che è La Tentation", scrive infatti lo studioso, "non è più la notte, il sonno della ragione, il vuoto incerto spalancato davanti al desiderio; è al contrario la veglia, l'attenzione continua, lo zelo erudito, l'attenzione sempre vigile" (Foucault 2010, p. 136). Il che equivale a dire che la produzione letteraria dell'immaginario passa da un approccio ingenuo, istintivo, passionale ad una modalità, erudita, libresca, tutta radicata nei testi:
il chimerico ormai nasce dalla superficie nera e bianca dei segni stampati, del volume chiuso e polveroso che si apre su un volar via di parole obliate; si dispiega con cura nella biblioteca attutita, con le sue colonne di libri, i suoi titoli allineati, i suoi scaffali che la limitano da tutte le parti ma che per un altro verso si spalancano su mondi impossibili (Foucault 2010, p. 136).
E per indicare questo distacco, questa separazione che La Tentation mette in atto in forme così estreme, Foucault impiega un'espressione memorabile quando scrive che nell'opera di Flaubert "l'immaginario si situa fra il libro e la lampada" (Foucault 2010, p. 137). Infatti, continua l'autore,
non si ha più il fantastico nel proprio cuore; non lo si attende più dalle incongruità della natura; lo si attinge all'esattezza del sapere; la sua ricchezza attende tra i documenti. Per sognare, non bisogna chiudere gli occhi, bisogna leggere. La vera immagine è conoscenza. Sono parole già dette, recensioni esatte, masse d'informazioni minute, particelle infinitesime di monumenti e di riproduzioni di riproduzioni che portano nell'esperienza moderna i poteri dell'impossibile (Foucault 2010, p. 138).
Nell'episteme del diciannovesimo secolo, insomma, l'immaginario si trasforma in sapere scritto, organizzato e strutturato, disponibile a chi ne faccia richiesta e già pronto, per dir così, a tramutarsi in fantasticheria: difatti, prosegue Foucault, "l'immaginario non si costituisce contro il reale per negarlo o compensarlo; si stende tra i segni, da libro a libro, nell'interstizio delle ripetizioni e dei commentari; nasce e si forma nell'intercapedine dei testi. È un fenomeno da biblioteca" (Foucault 2010, p. 138).
Ed è proprio questo fenomeno da biblioteca, questa visione normalizzante e tecnocratica del sapere, che impronta di sé l'età moderna: un'età, è ben noto, che si riconosce nella razionalità, nel valore positivo della scienza e nel senso progressivo dello sviluppo storico (Santoro 2006; 2015a), e che pochi autori sono riusciti a raffigurare come Gustave Flaubert.
È dunque in questo senso, osserva a sua volta Blumenberg, che La Tentation costituisce un rovesciamento della metafora del libro come mondo: infatti l'opera flaubertiana, caratterizzandosi per "la peculiare mancanza di spontaneità del materiale, per la sua affinità col letterario", non è più in grado di creare l'immaginario "dalla propria opposizione al reale", e quindi di rappresentare l'universo come dimensione astratta e fantastica (Blumenberg 1989, p. 332).
Difatti sono proprio questi aspetti, chiamiamoli così, realistici e borghesi che portano al "fallimento del tentativo flaubertiano di dare al libro la qualità di mondo" (Blumenberg 1989, p. 332), mentre invece si accentua la capacità tipicamente moderna di stratificazione e organizzazione delle conoscenze, che a sua volta si riflette nell'attitudine tecnoburocratica messa in campo dalle biblioteche. Ed è ciò che Foucault coglie con il consueto acume quando scrive:
Si capisce come La Tentation può essere il libro dei libri: compone in un "volume" una serie di elementi di linguaggio che sono stati costituiti a partire dai libri già scritti, e che sono, per il loro carattere rigorosamente documentario, la ripetizione del già detto; la biblioteca è aperta, inventariata, catalogata, ripetuta, e combinata in uno spazio nuovo: e questo "volume" dove Flaubert la fa entrare, è al tempo stesso lo spessore di un libro che sviluppa il filo necessariamente lineare del suo testo, ed una sfilata di marionette che si apre su tutta una profondità di visioni reciprocamente inserite (Foucault 2010, p. 149).
Se dunque La Tentation è il prodotto di una dimensione tecnocratica e modernista, non appare giustificata la conclusione che Gary Radford trae dalla lettura foucaultiana dell'opera di Flaubert. Per lo studioso americano infatti tale lettura autorizza una visione del tutto opposta rispetto alla concezione – tipicamente positivista – che ha finora condizionato il mondo bibliotecario: una concezione, scrive l'autore, che tiene rigorosamente separate "la biblioteca e la fantasia", e che quindi "non può immaginare una biblioteca in cui le raccolte siano temporanee piuttosto che universali, soggettive piuttosto che oggettive, mentre segue strutture di razionalità che possono essere molto diverse da quelle imposte dal sistema bibliotecario" (Radford 1998, p. 629; 631).
Invece, prosegue Radford, è proprio a partire da un'idea di "biblioteca fantastica" di tipo foucaultiano che si possono riconoscere le pratiche discorsive di stampo modernista operanti nel mondo bibliotecario, arginare i rapporti gerarchici esistenti fra bibliotecari ed utenti, e arrivare a una trasmissione del sapere più orizzontale e dialettica: in questo nuovo modello di biblioteca, sostiene infatti l'autore, la "ricerca di conoscenza" basata sui tradizionali strumenti bibliotecari può essere sostituita da una nuova "costruzione di conoscenza nell'esperienza della fantasia" (Radford 1998, p. 629).
Si tratta di un'idea della biblioteca che lo stesso Radford non esita a definire postmoderna, ma che stride notevolmente con i risultati dell'analisi di Foucault, se è vero che la metafora del libro-biblioteca fuoriesce dai confini della "età classica", non riuscendo più a incarnare l'idea del libro come mondo, mentre si colloca nel solco della modernità e aderisce strettamente all'episteme del diciannovesimo secolo.
Siamo ad un passo, a ben guardare, da quelle trasformazioni che fra Otto e Novecento modificheranno in modo rilevante l'immagine della biblioteca, e che saranno sia di tipo architettonico-organizzativo (basti pensare alle teorie di Della Santa), sia legate a una nuova, totalizzante organizzazione del sapere, che troverà la sua incarnazione nelle grandi classificazioni di Dewey e Otlet (Solimine 1997; 1998; Santoro 2009): un rivolgimento che Foucault sembra cogliere a pieno e che sintetizza efficacemente quando scrive che, nel regno della modernità, "la biblioteca è aperta, inventariata, catalogata, ripetuta, e combinata in uno spazio nuovo".
Da quanto finora esposto, si ha la sensazione che Foucault abbia una precisa conoscenza della realtà bibliotecaria: ed è una sensazione che viene pienamente confermata dai biografi, i quali evidenziano la sua frequentazione di importanti biblioteche in Francia e negli Stati Uniti (Macey 1993; Eribon 1991). Come è stato scritto al riguardo,
proprio di fronte alla Senna e all'Île Saint-Louis, quindi nella zona più centrale di Parigi, si intravede l'austera facciata dell'Arsenal, un edificio severo che ospita una formidabile biblioteca, una delle più importanti di Francia, e che racchiude nelle lunghe file di scaffali scuri una quantità impressionante di documenti. Quattordicimila manoscritti, un milione di volumi, quasi centoventimila stampe, migliaia di "papiers" degli archivi della Bastiglia, la più completa raccolta di opere del teatro francese dalle origini (250.000 documenti). Questo luogo calmo e silenzioso, nonostante la sua centralità, era uno dei rifugi preferiti di Michel Foucault. In realtà, la pratica storica ha attraversato tutta l'opera del filosofo francese, che manteneva il rigore delle ricerche fatte sulle fonti di prima mano. Ecco perché la Bibliothèque Nationale, quella dell'Arsenal e la moderna e silenziosa biblioteca dei Domenicani erano le sue miniere d'informazioni (Papa 2004).
Ma, ai nostri fini, è ancora più interessante il contributo di David Macey, il quale sottolinea come, per oltre trent'anni, Foucault abbia frequentato la Bibliothèque Nationale di Parigi,
il grande edificio di Henri Labrouste in Rue de Richelieu, con le sue eleganti colonne e gli archi del ghisa. Il suo posto preferito era nell'emiciclo, la piccola sezione rialzata di fronte all'ingresso, al riparo dalla sala di lettura principale, dove un corridoio centrale separa le file di lunghi tavoli suddivisi in singoli spazi di lettura. L'emiciclo offre maggiore tranquillità e privacy. Per trent'anni, quasi ogni giorno, Foucault prosegue qui le sue ricerche, con occasionali incursioni al dipartimento dei manoscritti e in altre biblioteche, e litiga con il bizantino sistema di catalogazione: due cataloghi a stampa, incompleti e superati, a cui si aggiungono armadi contenenti un'infinità di schede, molte delle quali manoscritte. Le biblioteche sarebbero diventate l'habitat naturale di Foucault, "quelle istituzioni verdognole in cui i libri si accumulano e dove cresce la fitta vegetazione del loro sapere" (Macey 1993, p. 49).
Queste testimonianze mettono in luce non solo lo stretto rapporto che Foucault intrattiene con le biblioteche, ma anche la notevole padronanza delle procedure (specie quelle legate alla ricerca e al recupero dell'informazione), mostrandoci un utente esperto, esigente e attivo nella sua interazione con le diverse strutture documentarie. E questo, se da un lato ci fa intendere meglio le sue pagine sui libri e le biblioteche, dall'altro ci permette di affrontare con maggiore consapevolezza una delle tematiche più interessanti che egli abbia mai dedicato a questa realtà, ossia quella della biblioteca come eterotopia (Bonnet 2014; Radford-Radford-Lingel 2015).
Foucault introduce il concetto di eterotopia nella prefazione de Le parole e le cose, per poi riprenderlo un anno più tardi, nella conferenza tenuta al "Cercle d'éudes architecturales" intitolata Des espaces autres (Foucault 1994a; 1984). In essa l'autore definisce eterotopie "tutti quei luoghi che hanno la particolare caratteristica di essere in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che consente loro di sospendere, neutralizzare e invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano" (Foucault 1994b, p. 13).
Lo studioso chiarisce la nozione di eterotopia utilizzando un esempio ampiamente comprensibile com'è quello dello specchio: qualcosa, cioè, che esiste realmente ed in cui ci vediamo, ma che appare anche uno spazio virtuale, perché in realtà non siamo dentro di esso. Lo specchio dunque, prosegue Foucault, "funziona come un'eterotopia perché rende questo posto che occupo, nel momento in cui mi guardo nel vetro – che è a sua volta assolutamente reale – connesso con tutto lo spazio che l'attornia, ed è al contempo assolutamente irreale poiché è obbligato, per essere percepito, a passare attraverso quel punto virtuale che si trova là in fondo" (Foucault 1994b, p. 14).
Ma il filosofo precisa ancor meglio l'idea di eterotopia contrapponendola a quella di utopia: quest'ultima infatti è volta a connotare quegli "spazi privi di un luogo reale", che intrattengono "con lo spazio reale della società un rapporto di analogia diretta o rovesciata", e che quindi rappresentano "degli spazi fondamentalmente ed essenzialmente irreali". Le eterotopie invece sono "dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell'istituzione stessa della società", ma che al tempo stesso costituiscono "una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali vengono rappresentati, contestati e sovvertiti" (Foucault 1994b, p. 13-14).
Già ne Le parole e le cose Foucault aveva affermato che "le utopie consolano", in quanto "si schiudono in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili, anche se il loro accesso è chimerico". Invece "le eterotopie inquietano, perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi" e "inaridiscono il discorso" (Foucault 1994a, p. 7-8). Ora, lo studioso trasporta questa analisi da un ambito conoscitivo e linguistico ad uno più latamente spaziale, assegnando al concetto di eterotopia un valore assai più denso e rilevante.
E per definire meglio la sua tesi, Foucault individua sei principi in grado di caratterizzare questa nozione. Il primo riconosce il valore universale delle eterotopie, che sono esistite in ogni società e in ogni epoca, mentre il secondo individua i modi in cui le società possono farle funzionare. Il terzo mostra come in esse possano convivere spazi e luoghi apparentemente incompatibili. Il quarto principio – quello che più c'interessa – sottolinea che le eterotopie "sono connesse molto spesso alla suddivisione del tempo", e quindi assumono il ruolo di "eterocronie" (Foucault 1994b, p. 17-18). E se il quinto principio rileva che eterotopie prevedono un sistema di apertura e chiusura che le isola da altri spazi pur lasciando intatta la loro permeabilità, il sesto ribadisce che esse hanno una precisa funzione in relazione con ogni altro spazio.
A giudicare dagli esempi portati da Foucault, le eterotopie appaiono contrassegnate da "una certa potenza di accumulo fantasmatico che esse raccolgono, concentrano e trasmettono, o custodiscono", configurandosi come "il luogo in cui trovano spazio territori ontologicamente ibridi sospesi tra reale e immaginario" (Bellasio 2014), e al tempo stesso "portatori di una carica eversiva in grado di deflagrare, sospendere, neutralizzare o ribaltare la percezione di questi rapporti spaziali" (Mattioni 2008).
Se dunque le eterotopie – alla luce delle molteplici e creative definizioni che se ne possono dare – si presentano come "luogo fuori da ogni luogo", come "altrove ben localizzato", come "luogo che neutralizza tutti gli altri spazi", in che modo la biblioteca si configura come tale? in che termini essa può rientrare in queste fattispecie?
Per rispondere a questi interrogativi, è utile richiamare l'idea della biblioteca come luogo, che assegna un'importanza particolare agli aspetti architettonici e spaziali, e di conseguenza alla maniera con cui essi sono percepiti e fruiti dagli utenti (Solimine 1997; 1998; Santoro 2011; 2013; 2014, Vivarelli 2010; 2013). Come è stato efficacemente rilevato, l'edificio bibliotecario, la sua architettura e il suo design costituiscono "parte di un momento comunicativo caricato semioticamente" (Thomas, 1996, pag. 27): e ciò, va da sé, può valere tanto in senso negativo – se gli spazi sono tesi a rappresentare requisiti di gerarchia, di ordine e di controllo, e quindi a definire la biblioteca come intangibile tempio del sapere – quanto in senso positivo, laddove l'organizzazione spaziale si piega a un approccio più lineare, amichevole e centrato sull'utente.
Ma Foucault ovviamente adotta altre strategie per caratterizzare la biblioteca come eterotopia trasportandoci, come di consueto, in una dimensione assai più vasta e suggestiva. Abbiamo già visto che, con il quarto principio, lo studioso istituisce uno stretto rapporto fra l'ambito spaziale e quello temporale, tant'è che, "per pura simmetria", introduce anche il termine di eterocronia.
A parere del filosofo infatti "l'eterotopia si mette a funzionare a pieno quando gli uomini si trovano in una sorta di rottura assoluta con il loro tempo tradizionale", ed è in tal senso che "eterotopia ed eterocronia s'organizzano e si combinano in modo relativamente complesso" (Foucault 1994b, p. 18). Ed è proprio in questa diversa prospettiva spazio-temporale che Foucault inserisce la realtà delle biblioteche le quali, al pari dei musei, vengono a costituire una forma di eterotopia "del tempo che si accumula all'infinito" (Foucault 1994b, p. 18).
Le biblioteche infatti, prosegue lo studioso, "sono eterotopie ove il tempo non smette di accumularsi e di raccogliersi in se stesso, mentre nel XVII secolo, e fino al termine di esso, erano espressione di una scelta individuale" (Foucault 1994b, p. 18). Siamo di fronte a una precisa determinazione cronologica, che colloca nell'età moderna questa nuova dimensione della biblioteca: una dimensione definita dall'accumulazione e dalla concentrazione del tempo (ossia dal sovrapporsi in un unico luogo dell'eredità del passato) e che, in termini bibliotecari, si traduce nella continua acquisizione e nell'indefinita stratificazione delle raccolte. Ed è ciò che viene immediatamente confermato da Foucault quando scrive che
l'idea di accumulare tutto, l'idea di costituire un luogo per ogni tempo che sia a sua volta fuori dal tempo, inaccessibile alla sua stessa corruzione, il progetto di organizzare così una sorta di accumulazione perpetua e indefinita del tempo in un luogo che non si sposta, tutto ciò appartiene alla nostra modernità. Il museo e la biblioteca sono eterotopie tipiche della cultura occidentale del XIX secolo (Foucault 1994b, p. 18).
La biblioteca insomma è il luogo in cui il tempo si accumula, si addensa e in qualche modo si sospende, perché viene per dir così capitalizzato nello spazio, convogliato "in un luogo che non si sposta", proprio perché in questo spazio si concentra tutto il sapere in forma documentaria. E tale spazio a sua volta si predispone per accogliere tutto ciò, ossia per organizzare, catalogare e indicizzare la sterminata molteplicità delle conoscenze, in una incarnazione efficientista e moderna di quella biblioteca universale – immensa ma al tempo stesso finita – magistralmente delineata da Leibniz.
E che poi questa biblioteca sia radicata nell'episteme moderna è un aspetto che Foucault ribadisce con precisione, e che trova conferma nella rivoluzione architettonica delle strutture bibliotecarie, che si organizzano non solo per accogliere la smisurata quantità di documenti finora prodotta, ma per mettere in atto sistemi di sorveglianza e controllo.
Per quanto riguarda il primo punto, basti pensare a un progetto com'è quello realizzato da Henri Labrouste per la Biblioteca Nazionale di Parigi [di seguito nell'immagine]: in essa, scrive infatti Maurizio Boriani, i libri e gli scaffali sono allontanati dalla sala di lettura, perdendo così il proprio "ruolo rappresentativo: la biblioteca si fa macchina di scienza, funzionale agli obiettivi di progresso della cultura del XIX secolo" (Boriani 1984, p. 17).
Ma ancora più significativo è il secondo elemento, che sottolinea come la dimensione architettonica sia posta al servizio di una precisa volontà di sorveglianza, in una palese commistione fra sapere e potere che è caratteristica dell'età moderna. Ed è ancora Maurizio Boriani a rilevare come siano le stesse, vertiginose dimensioni delle nuove biblioteche a travalicare
le capacità di comprensione e di controllo dei singoli utenti. Così come travalicano le capacità di controllo del personale bibliotecario, cui si tenta di ovviare con soluzioni di spirito un po' troppo carcerario per sedi che dovrebbero essere il luogo del libero pensiero: si veda, ad esempio, il modello a panopticon adottato per la Nazionale di Washington o quello proposto da M. Piacentini per la Nazionale di Roma. Ormai la biblioteca, come istituzione autonoma, pubblica, tipologicamente definita è compiuta, nello spirito della grande rivoluzione borghese trionfante (Boriani 1984, p. 16).
Sono parole – controllo, spirito carcerario, panopticon – che sembrano uscite dal vocabolario di Foucault e che, riteniamo, il filosofo sottoscriverebbe volentieri per ribadire la sua visione della biblioteca nella modernità: ossia un'istituzione in cui il tempo collassa nello spazio al fine di garantire un'accumulazione onnicomprensiva del sapere, una sua organizzazione in forme totalizzanti, e una sua somministrazione rigidamente gerarchica e controllata. Ed è forse in tal senso che va letta la sulfurea definizione della New York Public Library – uno dei templi mondiali del sapere, che Foucault frequenta attivamente nel 1973 – la quale gli appare come "una biblioteca con quasi tutti i morti del mondo al centro di una città con quasi tutti i vivi" (Dal Lago 2004).
Michele Santoro, Biblioteca Interdipartimentale di Matematica, Fisica, Astronomia e Informatica - Università di Bologna, e-mail: michele.santoro@unibo.it
* Le opere di Foucault sono citate in traduzione italiana; per ognuna di esse, in bibliografia, è indicato l'anno dell'edizione originale. Le traduzioni da testi stranieri sono nostre. In alcuni casi le citazioni dei brani riportati sono state leggermente modificate. Le virgolette basse segnalano brani originali all'interno di citazioni. La funzionalità dei link è controllata al 15 dicembre 2015.
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