«Bibliotime», anno XV, numero 1 (marzo 2012)

Precedente Home Successiva



Alberto Salarelli

Sul concetto di documento



Abstract

Objects acquire the status of "documents" when is recognized their value as means of information transfer. An important difference should be stressed when such recognition is due to a community rather than a single individual: in this case the institutions of collective memory (libraries, archives, museums) are involved. Their criteria for document selection and management change with the times and social conditions.

Nel ragionare attorno al concetto di "documento" sono anch'io convinto, come Ridi, che porre da un lato il rapporto che il singolo intrattiene con l'oggetto (creandolo intenzionalmente allo scopo di veicolare informazioni, oppure identificandolo successivamente come portatore di informazioni) e dall'altro le condizioni sociali del suo riconoscimento e della sua eventuale inclusione in una istituzione della memoria, rappresenti una contraddizione solo apparente.

Infatti, che innanzitutto sia la dimensione individuale a dover essere tenuta in conto nell'interpretazione degli oggetti che popolano il mondo è, mi pare, abbastanza scontato. Lo spiega bene Remo Bodei quando scrive che

Al pari del ramoscello secco descritto da Stendhal in De l'amour (che, lasciato per qualche tempo nelle miniere di salgemma di Salisburgo, si ricopre di splendidi cristalli, quale allegoria delle qualità che l'immaginazione proietta sulla persona amata), qualsiasi oggetto è suscettibile di ricevere investimenti e disinvestimenti di senso, positivi e negativi, di circondarsi di un'aura o di esserne privato, di ricoprirsi di cristalli di pensiero e di affetto o di ritornare un ramoscello secco, di arricchire o impoverire il nostro mondo aggiungendo o sottraendo valore e significato alle cose [1].

Nella più arida prosa scientifica, si potrebbe affermare che questo processo di attribuzione o sottrazione di significato agli oggetti sia riconducibile alla potenzialità che un dato oggetto ha di rispondere alle esigenze di chi lo ha creato e alle domande di chi lo consulterà alla luce della sua capacità di farsi veicolo di informazione: "The informativeness is thus a relation between the question and the thing. No thing is inherently informative. To consider something information is thus always to consider it as informative in relation to some possible questions" [2].

Quando questo processo di significazione esce dalla dimensione individuale e viene a collocarsi in un più ampio riconoscimento collettivo, allora siamo di fronte a quella "certificazione di documentalità" che la società può estrinsecare in molti modi, uno dei quali è rappresentato dall'inclusione dell'oggetto in specifici luoghi di raccolta le cui caratteristiche istitutive sono più o meno dichiaratamente orientate allo scopo di rilasciare tale patente di valore. Più o meno: è infatti senz'altro vero che, attorno agli oggetti, "la funzione 'costitutiva' delle istituzioni della memoria possa agire su di essi talvolta con maggiore e talvolta con minore potenza ed efficacia" (Ridi).

Come per gli individui, così per le società tali forme di riconoscimento emergono, vengono soppresse, si trasformano: non esistono, in tal senso, canoni oggettivi, rigorosi e universali. Il riconoscimento collettivo del valore documentale è un processo indiscutibilmente dinamico: millanta potrebbero essere gli esempi da tirare in ballo. Per questo motivo qualsiasi categorizzazione in merito ai luoghi ove questo riconoscimento ha luogo, e in merito anche allo loro potenza di certificazione, non può che collocarsi in un tempo e in uno spazio ben delimitati. Aggiungerei anche in una peculiare tradizione nel modo di pensare tali istituzioni. Bisogna allora porsi innanzitutto il problema sollevato da Marc Bloch:

Nonostante ciò che talora sembrano credere i principianti, i documenti non saltan fuori, qui o là, per effetto di chissà quale imperscrutabile volere degli dèi. La loro presenza o la loro assenza, in un fondo archivistico, in una biblioteca, in un terreno, dipendono da cause umane che non sfuggono affatto all'analisi, e i problemi posti dalla loro trasmissione, nonché non essere soltanto esercizi per tecnici, toccano essi stessi nell'intimo la vita del passato, perché ciò che si trova così messo in gioco è nientemeno che il passaggio del ricordo attraverso le successive generazioni [3].

Ma poi è necessario andare oltre, non solo considerando come nel tempo siano mutati i criteri di organizzazione degli archivi, delle biblioteche e – aggiungiamo pure – dei musei. Bisogna stabilire l'origine e il senso di queste stesse istituzioni e della loro presenza nel mondo che noi siamo abituati a percorrere il quale, certamente, non è tutto il mondo abitato dai nostri simili.

Il passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva è un passaggio importante. Proprio lì, insomma, si colloca una piega del discorso ove può annidarsi una di quelle apparenti contraddizioni a cui fa riferimento Ridi. Apparenti per lui e anche per me. Non per altri che – perlomeno sul piano lessicale – preferiscono attribuire il nome di "documento" solo a quegli oggetti socialmente ritenuti tali. È questa la prospettiva di Ferraris e, soprattutto, di Derrida al cui pensiero il filosofo italiano apertamente attinge: i documenti, per loro, sono oggetti sociali iscritti e idiomatici. Su questa medesima linea, mi pare si possa collocare anche un recente contributo di A. V. Sokolov [4].

Lo stesso Bodei è molto cauto nell'utilizzo del termine documento: riferendosi al rapporto che ciascun singolo individuo può intrattenere con i materiali che lo circondano, egli preferisce parlare di "oggetti" (il mero aspetto fisico dei materiali) e di "cose" (oggetti caricati di significato).

Sul versante di coloro che invece attribuiscono il valore di "documento" a quegli oggetti che anche il singolo può identificare come tali stanno invece diversi studiosi attivi nell'ambito della semiotica, da Peirce a Eco, ma anche del mondo della biblioteconomia e della documentazione: da Otlet a Briet, da Buckland a Hjørland. Mi pare che ciò debba essere ascritto ad una contiguità molto stretta tra semiotica e biblioteconomia attorno al ruolo del segno e dell'interprete.

In ogni caso, ed è buon segno, la discussione si muove nel novero di una dialettica dei distinti, non degli opposti.

Alberto Salarelli, Dipartimento dei Beni Culturali e dello Spettacolo - Università di Parma, e-mail: alberto.salarelli@unipr.it


Note

[1] Remo Bodei, La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 23.

[2] Birger Hjørland, Information: objective or subjective/situational?, "Journal of the American Society for Information Science and Technology", 58, 10 (2007), p. 1448–1456: 1451 (corsivi nell'originale).

[3] Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969 [ed. or. 1949], p. 74.

[4] A. V. Sokolov, The epistemology of documents (A methodological essay), "Automatic documentation and mathematical linguistics", 43, 2 (2009), p. 57-68.




«Bibliotime», anno XV, numero 1 (marzo 2012)

Precedente Home Successiva


URL: http://static.aib.it/aib/sezioni/emr/bibtime/num-xv-1/salarelli.htm