My thesis is that the meaning of any existing thing depends on the interpretative key rather than on the essence of the object. This is true also for that kind of objects that we call documents, even the ones born to transfer information, because this quality exists only for the one, or the community, sharing with them the cultural horizon, language, symbolic systems. I think that the focus resides not so much in the ontological intentionality of the document, that exists, rather than in the context ('luogo significante') that makes the transmission of information possible.
Il presente testo è un breve contributo alla conversazione ospitata da questa rivista fra chi scrive, Riccardo Ridi, Claudio Gnoli e Alberto Salarelli sulla natura dei documenti. [1] Riccardo Ridi, in Documenti e raccolte: molteplicità e complessità delle pressioni sociali [2], afferma:
L'appartenenza di un determinato oggetto alla classe dei "documenti nativi" non è infatti sempre
indiscutibile e permanente, ovvero: un conto è asserire che tale classe esista (e su questo concordo con Gnoli), un altro essere certi che tutti saremmo sempre d'accordo sul fatto che un certo oggetto vi appartenga o meno (e su questo punto ho l'impressione che lui sia più ottimista di me).
Claudio Gnoli nel suo contributo Due categorie di documenti e raccolte: il contributo dell'ontologia, scrive [3]:
Questo ci induce ad individuare due tipi assai diversi di documenti, aiutandoci a sciogliere meglio la storica ambiguità tra i diversi sensi della parola documento: (A) i "documenti" nati come tali - libri, statue, film, siti web -, che sono quelli solitamente discussi dalla teoria della documentazione; e (B) i "documenti" assunti come tali ai fini di un'indagine conoscitiva (una perizia giuridica, una ricerca scientifica, un'esposizione divulgativa). Solo per questi ultimi è corretto dire che a determinarne la natura di documento sia il contesto della raccolta. I documenti nativi, invece, mantengono sempre in sé la propria natura espressiva, che essa venga o meno interpretata in un particolare momento. Un libro contiene sempre sia il livello materiale che quello culturale, anche se viene usato da una persona non acculturata per accendere un fuoco. Non riconoscerlo, riducendo tutto a una questione di interpretazioni, significherebbe appiattirne la natura ontica.
Di conseguenza, anche le raccolte documentarie esistono in due tipi molto diversi: quelle che conservano documenti portanti in sé fin dall'origine una propria natura espressiva, come le biblioteche o le gallerie e i musei d'arte; e quelle che conservano oggetti di altra natura, solo successivamente assunti quali veicoli di conoscenza, come i musei storici e naturalistici e gli archivi in cui sia conservata una lista della spesa. A permetterci questa distinzione è il riconoscimento dell'esistenza del livello culturale di realtà, che le filosofie materialiste e riduzioniste tendono a negare. In fin dei conti, l'alieno che osservando i documenti del tipo A non li riconosca come tali è... un alieno ignorante, nel senso che la sua conoscenza presente di quella cultura non gli basta a comprendere compiutamente la natura dell'oggetto, il che non significa che essa non esista.
La mia considerazione è che siamo sempre alieni ignoranti, quando non conosciamo la chiave interpretativa di una qualsiasi manifestazione dell'esistente e non ne possiamo comprendere, quindi, l'intenzionalità. Se, affinché un documento sia "nativo", deve essere un manufatto nato "per veicolare informazioni" [4], tra la comunità umana vi possono essere differenze tali, temporali e/o spaziali, da rendere ciò che oggi è per noi indiscutibilmente tale domani, o anche oggi, ma altrove, oggetto del tutto privo di tali caratteristiche. Ancora, tutto ciò che esiste potrebbe essere documento nativo, ossia nato per veicolare informazioni (ma non manufatto, e umano intenzionale, chiaro), per chi ne conosca le intenzionalità: in questo universo l'organico esiste in quanto espressione del suo codice genetico, l'inorganico grazie a legami chimici che distinguono un elemento da un altro: a noi umani non è dato capire l'eventuale intenzionalità di tali codici, ma solo appurarne l'esistenza. Chi può affermare con assoluta certezza che i codici in questione non siano altrettanto intenzionali? Il piano, qui, è prettamente filosofico, e rischia di diventare metafisico, ma anche restando solo all'interno del paradigma antropologico, l'intenzionalità è evidente a chi condivide le chiavi interpretative di tale intenzione, altrimenti si diventa alieni ignoranti. [5]
Se, come credo, siamo sempre alieni ignoranti quando smarriamo la chiave interpretativa, continuo a ritenere che il focus risieda non tanto nell'ontologica intenzionalità dell'oggetto, che esiste, come dicono Gnoli e Ridi [6], ma che appunto per questo potrebbe essere condizione propria di tutto quanto esiste, quindi fattore che si elide, quanto nella possibilità interpretativa dell'osservatore. Secondo quanto scrissi a suo tempo [7] continuo a ritenere che sia l'osservatore, quindi il contesto, dunque "la potenza costitutiva dei luoghi", a rendere qualcosa documento, a prescindere dalla sua genesi. In tal senso anche io, come Ridi scrive a Gnoli, accetto di buon grado la definizione del mio approccio come "relativista" e "postmoderno" [8], poiché ritengo che tutto sia determinato dai parametri di osservazione e giudizio, non dalla natura dell'oggetto osservato, proprio poiché è colpa dell'alieno se non afferra la natura dell'oggetto, non dell'oggetto che ontologicamente ha una sua determinazione.
Alberto Salarelli, coinvolto nella discussione [9], afferma [10] esistere una "certificazione di documentalità" che nasce da un processo collettivo di significazione di un qualcosa come documento, e aggiunge:
come per gli individui, così per le società tali forme di riconoscimento emergono, vengono soppresse, si trasformano: non esistono, in tal senso, canoni oggettivi, rigorosi e universali. Il riconoscimento collettivo del valore documentale è un processo indiscutibilmente dinamico: millanta potrebbero essere gli esempi da tirare in ballo. Per questo motivo qualsiasi categorizzazione in merito ai luoghi ove questo riconoscimento ha luogo, e in merito anche allo loro potenza di certificazione, non può che collocarsi in un tempo e in uno spazio ben delimitati. La potenza di certificazione dei luoghi necessita essa stessa di "certificazione di documentalità". [11]
In questo senso:
Aggiungendo magari che man mano che i documenti "nativi" diventano prevalenti, diminuisce proporzionalmente la "potenza costitutiva dei luoghi"? [12]
Concordo con tale affermazione di Ridi quando si parli, comunque, entro paradigmi condivisi e noti i quali, a mio vedere, vicariano la potenza costitutiva del luogo, in quanto sono essi stessi il luogo. Un domani niente ci vieta di pensare che sarà necessario lo stesso sforzo interpretativo sulla Gioconda che su un antilope, quando il paradigma culturale che la produsse, ed in cui noi oggi, ancora, viviamo, dovesse perdersi totalmente, e con esso la sua natura di documento nativo. Forse ho letto troppa fantascienza?
Paola Rescigno, Biblioteca Walter Bigiavi - Università degli Studi di Bologna, e-mail: paola.rescigno@unibo.it
[1] Ho già espresso, in modo più approfondito, le mie considerazioni relative al tema nell'articolo Archivi, biblioteche, musei: potenza costitutiva dei luoghi, "Bibliotime", 12 (2009), 3, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/num-xii-3/rescigno.htm>. In tempi recenti Claudio Gnoli ha ripreso le questioni di fondo trattate in questo articolo, a sua volta nato a seguito dalla discussione avviata con Ridi durante la stesura del suo Il mondo dei documenti: cosa sono, come valutarli e organizzarli , Roma-Bari, GLF editori Laterza, 2010, a cui rimando per i contesti e la bibliografia di riferimento.
[2] Riccardo Ridi , Documenti e raccolte: molteplicità e complessità delle pressioni sociali.
[3] Claudio Gnoli, Due categorie di documenti e raccolte: il contributo dell'ontologia,
[4] Riccardo Ridi, Documenti e raccolte, cit. D'altra parte sia Alberto Salarelli che Claudio Gnoli hanno correttamente ricordato come, nonostante le "istituzioni della memoria" (archivi, biblioteche e musei, ma anche cineteche, mediateche, centri di documentazione, ecc.) giochino un importante ruolo nell'individuazione di ciò che una determinata società (in un determinato momento storico) sceglie di trattare come un "documento" degno di costose attenzioni in termini di conservazione, catalogazione e valorizzazione, esistano peraltro certe categorie di manufatti che "nativamente" si propongono come documenti, in quanto appositamente creati per veicolare informazioni.
[5] Mi piace qui riportare alcune righe di Gnoli, scritte informalmente in una mail di corredo al suo articolo, ma che mi permetto di citare per il loro indubbio valore,e nelle quali ribatte efficacemente alle mie affermazioni (e ringrazio lo stesso quando mi dedica uno splendido frontespizio seicentesco che recita "quid non informat? sovrastante un insieme di elementi naturali, messaggio altrettanto significativo):
"Naturalmente informazione può significare anche forma, struttura che si trasmette da un qualsiasi fenomeno a un qualsiasi altro, come la struttura e forma di un cristallo che gli si trasmettono per effetto delle proprietà fisico-chimiche degli atomi che lo costituiscono, o come l'informazione genetica che viene trasmessa dal DNA al meno popolare RNA e da questo alle proteine. A me sembra che comunque in un dizionario questo senso di informazione1 debba continuare a stare separato dall'informazione di cui si occupano le scienze dell'informazione; e che a monte della struttura di un cristallo non sia necessario postulare entità comunicanti intenzionalmente (perché l'intenzionalità emerge nell'evoluzione del mondo solo a partire dal livello degli animali potrebbe aver inserito in ogni cosa".
[6] "L'appartenenza di un determinato oggetto alla classe dei "documenti nativi" non è infatti sempre
indiscutibile e permanente, ovvero: un conto è asserire che tale classe esista (e su questo concordo
con Gnoli), un altro essere certi che tutti saremmo sempre d'accordo sul fatto che un certo oggetto
vi appartenga o meno (e su questo punto ho l'impressione che lui sia più ottimista di me)"; Riccardo Ridi, Documenti e raccolte cit.
[7] Paola Rescigno, cit.
[8] "L'approccio 'relativista' e 'postmoderno'… (gli aggettivi sono di Gnoli, ma non mi tiro indietro, accettandoli
anzi molto volentieri" (Riccardo Ridi, Documenti e raccolte, cit).
[9] In particolare Alberto Salarelli, Biblioteca e identità: per una filosofia della biblioteconomia, Milano, Editrice Bibliografica, 2008, p. 23.
[10] "Nel ragionare attorno al concetto di 'documento' sono anch'io convinto, come Ridi, che la contraddizione sia solo apparente nel porre da un lato il rapporto che il singolo intrattiene con l'oggetto (creandolo intenzionalmente allo scopo di veicolare informazioni, oppure identificandolo successivamente come portatore di informazioni) e dall'altro le condizioni sociali del suo riconoscimento e della sua eventuale inclusione in una istituzione della memoria. Quando questo processo di significazione esce dalla dimensione individuale e viene a collocarsi in un più ampio riconoscimento collettivo, allora siamo di fronte a quella 'certificazione di documentalità' che la società può estrinsecare in molti modi, uno dei quali è rappresentato dall'inclusione dell'oggetto in specifici luoghi di raccolta le cui caratteristiche istitutive sono più o meno dichiaratamente orientate allo scopo di rilasciare tale patente di valore. Più o meno: è infatti senz'altro vero che, attorno agli oggetti, "la funzione 'costitutiva' delle istituzioni della memoria possa agire su di essi talvolta con maggiore e talvolta con minore potenza ed efficacia" (Ridi). Come per gli individui, così per le società tali forme di riconoscimento emergono, vengono soppresse, si trasformano: non esistono, in tal senso, canoni oggettivi, rigorosi e universali. Il riconoscimento collettivo del valore documentale è un processo indiscutibilmente dinamico: millanta potrebbero essere gli esempi da tirare in ballo (Alberto Salarelli Sul concetto di documento).
[11] Ivi.
[12] Riccardo Ridi, Documenti e raccolte, cit.