Da qui, messere, si domina la valle
Ciò che si vede, è.
Dopo Duchamp, dopo Piero Manzoni, dopo l'incessante dibattito storico-artistico che ha attraversato tutto il XX secolo, il fatto che qualcosa sia arte non viene più considerato come qualità dell'oggetto, ma come statuto applicato da parte di una comunità che riconosce certi parametri di giudizio e si riconosce in essi [1]. Luciano Nanni [2], nel suo Silenzio di Ermes [3], scrive: "La Gioconda non è arte in sé. E' arte per quella cultura che l'ha delegata a rappresentare la sua idea di arte…". Analogo discorso per ciò che viene riconosciuto come documento storico, antropologico, etnografico: la definizione discende non da qualità intrinseche agli oggetti, ma da definizioni attribuite ex post. Riccardo Ridi, riprendendo un'immagine di Suzanne Briet, ci ricorda che "un'antilope che corre libera in Africa non è un documento; lo è però lo stesso animale catturato, portato a uno zoo..." [4], ossia è il contesto, inteso in ogni sua possibile accezione, a trasformare ciò che prima era un animale, un sasso, un escremento, un piatto, in un reperto naturalistico, archeologico, un'opera d'arte, un documento etnografico.
Peraltro Luciano Nanni [5] ci propone un aneddoto-esperimento paradossale, che esemplifica tali asserzioni in maniera evidente ("non è necessario realizzarlo [...] per trovarlo convincente", afferma infatti l'autore). Se si entra in un bar e si dice al barista: "poesia: Per favore, mi dà un caffè?", quale pulsione prevarrà nel povero ignaro co-sperimentatore, seguirà ciò che la cornice, il contesto indicato con la parola poesia gli indicano, e quindi resterà in ascolto, oppure farà il caffè? In questo caso la sola parola poesia crea un possibile paradigma interpretativo. Nanni ci dice che "la parola poesia […] non fa parte del testo, ma del meta-testo; è fuori dal testo e vicaria i luoghi dell'arte [6]. Al posto dell'indicazione poesia possiamo porre qualsiasi luogo, reale o virtuale, che sostituisca la frase: "questa è arte".
E' grazie a simili fenomeni di traslazione di senso che una performance di Marina Abramović, magari la sua passeggiata sulla muraglia cinese [7], diventa opera d'arte, mentre nessuno considera tale un'arrampicata di Reinhold Messner, poiché questi non ha mai detto di voler fare arte, ma arrampicate in montagna. Così per i ready made di Duchamp, le zuppe e le merde d'artista di cui siamo ormai forse anche tutti un po' saturi, ma che ribadiscono sempre lo stesso concetto: è arte ciò che alcuni individui ritengono tale in un certo tempo, in un certo luogo. Illuminanti le riflessioni di Nelson Goodman su che cosa definisce tale un'opera d'arte, e la sua ardita conclusione che la giusta domanda non sia tanto
Un analogo processo di trasformazione epistemologica viene subito da tutto quanto venga inserito in contesti significanti: oggetti naturali, resti fossili, manufatti preistorici, resti umani, tutto può diventare - e diventa - documento se inserito in una cornice, reale o virtuale che sia, che lo dichiari come tale.
L'esposizione in una vetrina di un certo tipo di museo sostituisce la frase: "questa è un'opera d'arte", "questo è un documento archeologico", "questo è un reperto naturale"… Non cambia l'oggetto, muta il contesto. Il museo è quindi un paradigma significante per quella comunità che è in grado di decifrarlo. Ciò che entra nel museo d'arte è arte, se non per tutti, comunque per molti, perlomeno per coloro che in prima persona siano artefici di tale definizione, quindi critici, storici d'arte, collezionisti, e il pubblico che nei loro giudizi si riconosce. Un piatto che entri in un museo archeologico, oppure della civiltà contadina, perde la sua condizione nativa di oggetto d'uso quotidiano e ne acquista altre, e con esse modifica radicalmente il suo statuto giuridico, il suo valore commerciale, il suo significato in senso ampio, diventa altro.
Il museo non è l'unico luogo dove si compiono simili mutazioni epistemologiche: analogo potere possiedono, ad esempio, le aste, le gallerie, le esposizioni temporanee. Analogo, ma non uguale. Ciò che fa la differenza è il modo in cui il museo contiene oggetti (o eventi), il fine, lo scopo: nel momento stesso in cui qualcosa entra nel museo diventa, grazie a questo solo ingresso, oggetto di memoria. Il museo è luogo della fruizione presente che già preconizza quella futura, contesto significante in grado di attribuire a quanto in esso contenuto uno status di riconosciuta e condivisa autorevolezza, un'aura tipica di ciò che in sé racchiude fin dal suo apparire un messaggio ai posteri. Come esemplificato da Nanni con il suo aneddoto, il luogo sostituisce la frase, pronunciata con assoluta autorità: questo è…, e sarà, aggiungerei, per tutti, dove il tutti indica sempre coloro i quali si riconoscono nel messaggio, e il tempo futuro una dichiarazione di consegna di senso come missione fondante ed imprescindibile.
Ancora, l'oggetto inserito in una collezione instaura relazioni con ogni altra componente della stessa, acquista nuove suggestioni, perde la sua univocità per entrare in un dialogo in fieri con tutto quanto lo circonda, in un continuo gioco di rimandi voluti o inconsapevoli che ne fanno altro da sé. L'opera appena licenziata dall'artefice, quando entra a far parte di un insieme più ampio e così fortemente strutturato e regolato come un museo, una biblioteca, un archivio, espande il suo significato originario, a volte lo perde per acquistarne altri, sicuramente muta. Sappiamo di quanto aumenti il valore commerciale di un'opera non appena quella, o altre dello stesso artefice, entri in collezioni permanenti, e di quanto potere abbiano i critici d'arte nel creare o distruggere movimenti includendo o escludendo dal museo.
Tale potere definitorio viene esercitato anche in negativo: la grande fortuna degli Impressionisti nacque proprio dal rifiuto loro opposto da quello che al tempo era il luogo deputato a consacrare lo status di artista, il Salon dell'Académie des Beaux-Arts, a cui Monet e compagni contrapposero a loro volta il Salon des Refusés [9]. Analogo tipo di potere è sempre stato quello degli storici: per secoli, a partire dalle Vite del Vasari, soprattutto dalla seconda edizione (1568, la storia dell'arte italiana ha coinciso in larga misura con la strada maestra tosco-romana, finché altri critici e storici, in primis Roberto Longhi con i suoi Lavori in valpadana [10], non hanno riportato alla luce artisti che erano stati esclusi o fortemente sottovalutati. L'oblio nei secoli moderni difficilmente è un fatto casuale, quasi sempre risponde a scelte estetiche, politiche, religiose che portano a tramandare certi nomi, fatti, date, piuttosto che altri.
Il museo è quindi strumento politico oltre che culturale, e di questo erano ben consapevoli i suoi fautori del XIX secolo, che lo vedevano come elemento fondante della fisionomia dei nascenti stati nazionali [11]. Quindi museo come luogo della memoria, ma anche come contenitore significante di oggetti che in esso e per esso diventano altro, luogo, reale o virtuale, che attribuisce autorevolezza ad un giudizio estetico o scientifico che sia, sorta di fruitore collettivo molto esperto.
Abbiamo parlato di musei perché il loro potere costitutivo ha un'evidenza più immediata, ma biblioteche ed archivi sono anch'essi luoghi della memoria, nel momento in cui si riconosce loro una funzione non di mero deposito, quanto di selezione, organizzazione, trasmissione e conservazione di senso attraverso tutti quegli strumenti, cataloghi, repertori, indici, che consentono e consentiranno il recupero delle fonti, purché si mantengano vive le chiavi interpretative. Gli stessi materiali che si trovano in una biblioteca possono essere in larga misura reperiti in libreria, reale o virtuale che sia, ma nessuno afferma che libreria e biblioteca siano la stessa cosa; ciò che le distingue non sono gli oggetti che trattano, ma il modo in cui li trattano, e non è solo, o tanto, questione di commercializzazione del documento o sua fruizione pubblica.
Ciò che fa di peculiare una biblioteca è compiere scelte, costruire reti di relazioni tra i documenti, indicizzarli, attribuire loro metadati semantici e gestionali. Ciò che è ospitato in biblioteca espande le sue potenzialità, viene introdotto in un nuovo universo, anzi in mille nuovi universi che si creano e ricreano a seconda delle infinite, possibili domande a cui deve rispondere. La "biblioteca come conversazione" [12], come servizio o comunque la si voglia definire, implica sempre un concetto di relazione tra documento, biblioteca come media e utente finale. La biblioteca è un luogo di fruizione immediata e insieme di passaggio, in cui ciò che si deposita oggi diventa - ed è già destinato a diventare - un documento storico, persino nella sua assenza, comunque significante. Ridi infatti ci dice che
Abbiamo bisogno, insomma, di quello che ho definito un fruitore collettivo molto esperto; allora anche la biblioteca, come il museo, ha una fondamentale missione sociale: fra tutto quanto viene pubblicato oggi quanto resterà, sarà reperibile in modo facile, economico, pertinente dall'utenza futura?
Siamo arrivati a toccare i termini della discussione su che cosa, oggi, fa ancora della biblioteca un servizio insostituibile versus Google [14]. Individuiamo, tra gli elementi a favore della preservazione dell'istituzione biblioteca, anche nella sua fisicità e presenza materiale sul territorio, i servizi di intermediazione, la diffusione e lo sviluppo di banche dati, di aggregatori di risorse, fonti analogiche e digitali. La pensiamo come uno spazio riconoscibile, pubblico, democratico, dove le informazioni si recuperano e si direzionano e, infine, dove ogni operatore, come un odierno Virgilio, consenta all'utente - a rischio di information overload - di non perdersi o, perlomeno, di ritrovarsi. Ancora, si riconosce alla biblioteca la funzione di certificazione scientifica, dove una citazione che non può essere comprovata non è spendibile, problema che presenta oggi nuove sfumature e scenari ieri impensabili, quando gestiamo fonti che possono cambiare aspetto ad ogni minuto e che, per poter essere adoperate correttamente, richiedono quindi nuove modalità di verifica e controllo.
Infine, da tutto quanto detto o solo accennato in trasparenza, emerge la connotazione decisamente politica della biblioteca, là dove ciò che non si potrà più recuperare è scomparso per sempre, non sarà mai nemmeno esistito, oppure avrà aspetto multiforme ed indiscernibile, e si prospetta in lontananza, ma con una sua terribile evidenza, uno scenario possibile di intenzionale manipolazione della memoria, come immaginato una volta per tutte da Orwell in 1984 [15]. La biblioteca appare un baluardo di resistenza verso il pericolo di cadere in un soggettivismo radicale, come afferma Ridi, di ritrovarci anche noi nella Biblioteca di Babele di Borges [16], dove troppa informazione generi nessuna informazione: se tutto potenzialmente può essere documento qualcuno, che ne abbia l'autorevolezza, deve fare delle scelte. Nel famosissimo racconto abbiamo una Marina Abramović biblioteca infinita, che di fatto coincide con un possibile universo, metafora potente dell'eterno ritorno, tema caro allo scrittore che ne L'Immortale [17] ha fatto di Omero un uomo ormai ridotto al mutismo a causa della dilatazione eterna del tempo; questo secondo racconto si conclude dicendo: "Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve, sarò tutti: sarò morto". Senza una forma di ordinamento, di cui massima espressione è il tempo, nulla ha più senso, tutti possono essere e sono Omero, ma esserlo o meno, a questo punto, non ha più alcuna importanza; avere una direzione, un ordine, una sequenza è ciò che attribuisce senso alla vita e ad ogni suo prodotto. Se, restando con Borges, un tempo senza fine non ha un ordinamento e quindi tutto perde di senso, allora ecco che è l'ordinamento ad attribuire il senso: la missione ancora valida e fondamentale delle biblioteche nel terzo millennio può essere quindi di continuare a costruire l'incessante trama di relazioni fra documenti ed utenti per conservare un senso, una direzione, una scala di valori.
Per questo i musei, le biblioteche e gli archivi sono destinati a divenire essi stessi documenti di cultura materiale, testo di studio per museologi e storici in senso ampio: ogni scelta, ogni inclusione ed esclusione denunciano una poetica, una intenzionalità più o meno cosciente, una epistemologia. Nessun curatore oggi si azzarderebbe a toccare un allestimento senza tenere nota di quanto sta per cancellare, senza lasciarne documentazione visiva e scritta, poiché sa bene di fare un intervento significativo su di un documento: vi sono ordinamenti talmente autorevoli nel loro dettato storico che ben difficilmente potrebbero essere intaccati senza sollevare, giustamente, innumerevoli discussioni , poiché a volte si deve decidere se prevale il contenuto o il contenitore, o, comunque, il loro legame. Ha senso riportare i marmi del Partenone in Grecia, oppure ormai rientrano a tal punto nella cultura occidentale là dove sono da secoli che spostarli comporterebbe una perdita di senso inaccettabile? Chi sposterebbe la Venere di Botticelli dagli Uffizi, e per portarla dove? Oggi sembra scontato affermare ciò per un museo: la recente museologia [18] sconsiglia fortemente operazioni di decontestualizzazione in un senso e nell'altro, in molti casi è il museo ormai il luogo da preservare e da cui non sottrarre, oppure spostare di collocazione, oggetti che in esso hanno acquisito da tempo il proprio orizzonte culturale, perdendone l'originario, magari non più recuperabile.
Meno immediato tale ragionamento sulle biblioteche, mentre su molte fra queste, sicuramente le più celebri ed evocative, dotate di allestimenti ormai paradigmatici, nessuno oserebbe intervenire senza grande riflessione e rispetto filologico; ogni qualvolta si intervenga sui criteri di classificazione e/o di collocazione di documenti entro un istituto, anche il più piccolo e remoto, si fanno i conti con la sua storia, presente, passata e futura, si compie un intervento distruttivo e costruttivo insieme, e bisogna esserne pienamente consapevoli, salvo fare sicuramente danni, e gravi .
Per noi che viviamo in questo tempo, in questa parte di mondo, un libro è un libro (raccogliamo sotto questo termine ogni prodotto assimilabile, analogico o digitale che sia), anche fuori da una biblioteca. Un'opera d'arte è un'opera d'arte, anche quando è appena terminata nello studio dell'artista: in questo secondo caso, però, abbiamo già accettato un'attribuzione di senso nel considerare il suo artefice un artista, abbiamo già espresso un giudizio che vicaria il luogo, come potremmo altrimenti ammettere nei nostri musei ruote di bicicletta, scatole di zuppa e ascoltare in teatro 4 minuti e 33 secondi di silenzio [19]? Accettiamo la necessità di contesti significanti che ci autorizzino a chiamare arte un oggetto o un evento (altrimenti tornerebbero zuppa, ruota di bicicletta, assenza di suono), e non per il materiale librario, che sembra essere tale in sé. Ancora, accettiamo che il sasso raccolto nell'ambito di una spedizione archeologica si trasformi in un reperto, e che altrettanto avvenga delle ossa raccolte da un paleontologo; più difficile ragionare in termini simili su ciò che riteniamo si definisca in base al proprio codice genetico. Ridi ci aiuta a comprendere questa resistenza quando ci dice che un libro è "portatore intenzionale di informazioni a priori" [20], mentre un reperto fossile era un cavalluccio marino prima di essere tale, e ciò che per noi, oggi, è un oggetto artistico preistorico o africano, nelle intenzioni di chi lo ha creato era magari un oggetto di culto, o altro che a noi oggi non risulta più, avendo perso la chiave interpretativa.
Quindi il potere costitutivo del luogo-museo, e del luogo-archivio (quando accolga ciò che non nasce come documento intenzionale), sembra superiore a quello della biblioteca, nata per accogliere oggetti che crediamo si definiscano da soli, senza bisogno alcuno di attribuzione di senso. In verità, però, che libri e periodici, analogici e digitali siano documenti intenzionali è ovvio per noi, oggi, che usiamo determinati codici alfanumerici per comunicare e veicolare informazioni ma, se concordiamo con quanto detto finora, l'essenza documentaria in sé non esiste, come non esiste l'essenza artistica in sé; solamente per noi, qui, ora, l'essere documento è qualcosa di cui non dubitiamo poiché siamo dentro al paradigma culturale che produce i documenti. A noi che condividiamo la chiave interpretativa sembra scontato che un libro sia un libro, ma per un indigeno di qualche paese dove non siano mai state scritte pagine, analogiche o digitali, un libro cartaceo potrebbe essere materiale utile per accendere un fuoco, ed un documento digitale qualcosa di totalmente inaccessibile e, quindi, affatto interpretabile.
Forse che i libri siano contenuti in una biblioteca potrebbe essere un metadato semantico necessario per futuri esploratori dello spazio, o nostri lontani eredi, che potrebbero non avere altre chiavi interpretative del senso dei documenti se non l'essere contenuti in un certo luogo con determinate modalità: rischierebbero altrimenti di finire come gli esploratori dello spazio del divertentissimo racconto di Leo Szilard, Rapporto sulla Stazione Centrale di New York [21] i quali, dopo lunga riflessione e mille ipotesi, concludono che i bagni a pagamento della Central Station di New York dovessero essere un luogo di culto con offerte votive... Per chi condivide un determinato orizzonte culturale, ed utilizza determinati segni per comunicare, che i libri siano oggetti portatori di informazione è scontato, ma che cosa potrebbero essere per civiltà non terrestri, o per terrestri che partecipino di altre culture, se accettiamo il principio che siamo tutti costruttori di mondi, e quindi ogni osservatore crea propri documenti [22]? Non è affatto detto che per l'alieno (o il nostro futuro discendente) esista una categoria che possa condurre ad interpretare nulla come documento, e che esista il concetto stesso di documento…
All'interno dell'orizzonte culturale che abbiamo fin qui definito, musei, archivi e biblioteche sono i garanti della conservazione, quanto più si spera corretta ed imparziale (ma, lo abbiamo appena ricordato, la neutralità dell'osservatore, da Heisemberg in poi, è stata dichiarata impossibile), di quanto prodotto dalla comunità umana, oppure ritenuto significativo e meritevole di essere tramandato ai posteri, a prescindere da valutazioni politiche, religiose, economiche… Da questo punto di vista credo che le biblioteche abbiano un raggio di azione più ampio rispetto ai musei, che sono obbligati ad attenersi strettamente a criteri di selezione fortemente precoordinati per ovvie necessità: questi infatti non potrebbero mai contenere tutte le opere d'arte, di design, tutte le pietre di una montagna, tutti gli esemplari di imenottero, salvo finire ancora a creare una mappa, per citare ancora Borges, che sia esattamente uguale al territorio [23], e tentare di far coincidere in tutte le faccette l'universo con il docuverso, per citare ancora un' espressione di Ridi. In questa direzione l'unico museo possibile sarebbe l'universo stesso, ma l'unico curatore museale, o bibliotecario, o archivista in grado di stenderne il catalogo sarebbe dio.
Le biblioteche cercano di salvare quanto più possibile, potenzialmente tutto (tutto rispetto ad un insieme dato, un territorio geografico, una disciplina…), senza esprimere un giudizio a priori: saranno i posteri a valutare, di volta in volta, che cosa interesserà, l'importante è offrire la possibilità del recupero. Non a caso sono le biblioteche, tramite numerosi progetti collaborativi internazionali, ad essersi poste il problema della conservazione del digitale, a chiedersi come e che cosa conservare di quanto appare sul web, a mettere in pratica massicce operazioni di metadata harvesting [24]. Agli editori commerciali il futuro, vicino o lontanissimo, dei propri prodotti non interessa, chi trova oggi PC dotati di driver per floppy disk? Dove finiranno le nostre registrazioni VHS? I bibliotecari, e con questo intendo tutti coloro che si occupano di informazione in senso ampio, da subito hanno recepito la questione come fondamentale, perché il nodo è sempre la scomparsa, o la mistificazione della memoria, quindi della cultura e del mondo come lo intendiamo oggi.
La stessa funzione oggi forse più che i musei, dotati dei loro inevitabili limiti di spazio, costi e possibilità, possono averla, ad esempio, progetti quali il deposito artico dei semi, <
http://www.lympha.net/documenti/A20071117.asp>, meravigliosa biblioteca del vivente a imperitura memoria e speranza delle generazioni future, e tutti i simili progetti di conservazione della biodiversità del germoplasma. In fondo, forse, noi bibliotecari cerchiamo di salvare nel nostro piccolo la biodiversità del pensiero di oggi e di ieri per un domani che non sappiamo, ma che abbiamo sempre presente.Paola Rescigno, Biblioteca Walter Bigiavi - Università degli Studi di Bologna, e-mail: paola.rescigno@unibo.it
* Il titolo di questo articolo è una citazione ed un omaggio al professor Luciano Nanni; in particolare è sua l'espressione potenza costitutiva dei luoghi, paragrafo del capitolo Estetica e semiotica: il ribaltone post-strutturalista, in Il silenzio di Ermes, Roma, Meltemi, 2002.
Ringrazio moltissimo Riccardo Ridi che mi ha offerto l'occasione per porre mano a questo articolo e mi ha incoraggiato a pubblicarlo giudicandolo positivamente.
Tutte le pagine web sono state controllate al 25 settembre 2009.
[1] Mi riferisco ai ready-made di Duchamp, trasformazioni significanti di oggetti triviali (orinatoi, scolabottiglie) che inaugurarono, ad inizio '900, il ripensamento complessivo della definizione di opera d'arte, tragitto in cui le merde d'artista di Piero Manzoni sono state una tappa di grande impatto mediatico. Negli anni '60 si è arrivati alla cosiddetta arte concettuale, ad esempio nelle parole e nelle opere di Joseph Kosuth, in cui l'accento cade sull'intento del creatore, mentre l'oggetto su cui l'intenzionalità dell'artista si concentra può anche essere puramente accidentale.
[2] Docente di Estetica presso l'Università di Bologna, ma anche prolifico artista sotto lo pseudonimo di Nanni Menetti, come raccontato in <http://www.parol.it/articles/pilati.htm>.
[3] Luciano Nanni, Il silenzio di Ermes, Roma, Meltemi, 2002.
[4] Riccardo Ridi, La biblioteca come ipertesto, Milano, Editrice Bibliografica, 2007, p. 16.
[5] Luciano Nanni, cit., p. 140-143.
[6] Ibid.
[7] Sull'artista esiste ormai una sterminata biografia, anche in rete. Sul particolare episodio che cito si può vedere <http://www.gynevra.com/rubriche/SezArte_4-Marina.html>, oppure <http://tinyurl.com/yfgjjz8>.
[8] Nelson Goodman, Vedere e costruire il mondo, Milano, Bompiani, 1988, p. 67 e 79. Malgrado simili radicali affermazioni, nello stesso autore però si avverte una resistenza ad accettare che lo statuto di opera d'arte possa non dipendere in alcun modo da qualcosa che risieda nell'oggetto-atto artistico, ma solo da un'attribuzione di senso esterna: dopo essersi espresso in tali termini Goodman cerca comunque un principio che possa favorire tale trasformazione, e pensa di scoprirlo nella funzione simbolica dell'oggetto. Al riguardo rimando all'articolo di Lorenza Mazzei, Da che cosa dipende l'artisticità di un'opera?, "Parol", 18, 2005-2006.
[9] Il 1864, anno in cui si tenne il Salon des Refusés, è considerato ufficialmente l'anno di nascita dell'Impressionismo ed in qualche misura dell'arte moderna in senso lato: su tali eventi esiste una letteratura sterminata in cui è difficile selezionare un solo titolo, riassuntivo dell'importanza di tale episodio; un esempio può essere l'articolo di Albert Boime <http://www.albertboime.com/Articles/12.pdf>.
[10] Mi riferisco qui ad uno dei tanti, fondamentali testi che Longhi ci ha regalato e che hanno avuto un peso determinante per riportare all'attenzione dei critici d'arte e del pubblico la grandissima tradizione lombardo-veneta, in particolare la scuola ferrarese, che nei secoli era stata fortemente penalizzata o travisata; per una prima conoscenza del grande maestro si può partire da <http://www.fondazionelonghi.it/biografia/index.php?lang=ita>, scheda biografica a lui dedicata dalla fondazione fiorentina che porta il suo nome e prosegue i suoi alti studi.
[11] Paola Rescigno, Tra culto della memoria e scienza: il museo archeologico di Fiesole tra otto e novecento, Milano, Ponte alle Grazie, 1994, in particolare i capitoli III, IV e V.
[12] Famosissimo articolo, e titolo, di Lankes, Silverstein e Nicholson in traduzione italiana su <http://www.aib.it/aib/cg/gbdigd07.htm3>, ripreso, fra i tanti, da Fabio Metitieri <http://www.bibliotecheoggi.it/2007/20070501501.pdf>.
[13] Riccardo Ridi, cit., p. 17
[14] Moltissimo è stato detto e scritto sulla contrapposizione, vera o falsa che sia, fra biblioteche e Google, dove questo è sinonimo della rete, e sulla possibile inutilità delle biblioteche a fronte di motori di ricerca sempre più esperti, oltre che sull'avvento del web semantico, del web 2.0 e così via. Ricordo qui solo un articolo di Riccardo Ridi uscito nel 2004 su Biblioteche oggi dal titolo, giustamente interrogativo-dubitativo, Biblioteche versus Google? <http://www.bibliotecheoggi.it/2004/20040600301.pdf>, e sulle stesse problematiche gran parte dei contributi dell'ultimo seminario di studi tenutosi presso la Biblioteca della Fondazione S. Carlo di Modena il 16 dicembre 2008, i cui atti sono pubblicati Su "Bibliotime", 12 (2009), 1, <http://didattica.spbo.unibo.it/bibliotime/>.
[15] Ovviamente mi riferisco al famosissimo e sempre citato 1984 di George Orwell.
[16] Inserito nella raccolta Finzioni edita molteplici volte da Einaudi.
[17] Il racconto si può trovare anche all'indirizzo <http://www.yksi.org/tekst/ald/borges_inm-it.html>.
[18] Fondamentali per la moderna museologia italiana i contributi di Franco Minissi, di cui ricordo Museografia, Roma, Bonsignori, 1992. Altrettanto fondanti furono a suo tempo Lanfranco Binni – Giovanni Pinna, Museo. Storia e funzioni di una macchina culturale dal '500 a oggi, Milano, Garzanti, 1989; il catalogo I luoghi del museo: tipo e forma fra tradizione e innovazione, a cura di Luca Basso Peressut, Roma, Editori Riuniti, 1985; e infine gli atti del congresso tenutosi a Cagliari nel 1984 pubblicati a cura di Rino Pensato e Paola Bertolucci dal titolo La memoria lunga:le raccolte di storia locale dall'erudizione alla tradizione, Milano, Bibliografica, 1985. Recenti titoli tra i molti Manuale di museologia di Maria Laura Tomea Gavazzoli, Il futuro nel museo, di Sara Monaci o Il museo oggi: linee guida per una museologia contemporanea di Lucia Cataldo e Marta Paraventi. Per il dibattito attuale si può fare riferimento a "Nuova Museologia", organo ufficiale dell'Associazione Italiana di Studi Museologici, diretto da Giovanni Pinna, <http://www.nuovamuseologia.org/main.html>.
[19] Mi riferisco alla ruota di bicicletta di Duchamp, ripetuta in molteplici esemplari a partire dal 1913, alle ormai famosissime zuppe Campbell di Andy Warhol, infine al Silenzio di John Cage, vedi <http://it.wikipedia.org/wiki/John_Cage#Silenzio>.
[20] Cito qui una importante considerazione di Riccardo Ridi inserita nel suo ultimo lavoro dedicato al Mondo dei documenti che ho avuto la fortuna e l'onore di leggere in fase di stesura delle bozze, dove compariva nel paragrafo Documenti raccolti da biblioteche, archivi e musei. In sintesi, ci dice Ridi, i musei "non hanno limiti prestabiliti alle tipologie di documenti che possono raccogliere" e gli archivi, malgrado conservino, come le biblioteche "documenti prevalentemente testuali [...] quindi materialmente spesso simili a quelli raccolti dalle biblioteche, con le quali vengono spesso confusi dai profani", in realtà spesso conservano materiali prodotti da "persone, aziende, famiglie, associazioni[...] durante l'esercizio delle proprie funzioni", quindi non nati necessariamente per trasmettere informazioni, spesso infatti "gettati non appena abbiano terminato di svolgere la propria funzione pratica ". In biblioteca, invece, continua Ridi, "si conservano solo documenti umani intenzionali", ossia nati per trasmettere informazioni.
[21] Leo Szilard, Report on "Grand Central Terminal", University of Chicago Magazine, giugno 1952, recentemente riedito in traduzione italiana, Grand Central Terminal. Rapporto da un pianeta estinto, Roma, Orecchio Acerbo, 2003 (ristampa 2009).
[22] A p. 17 del sio La biblioteca come ipertesto, Riccardo Ridi afferma che "potremmo considerare tale enunciato una sorta di principio di indeterminazione documentaria in assonanza con il principio di indeterminazione proposto da Werner Heisenberg". A questo proposito si esprime anche Nelson Goodman, Vedere e costruire il mondo, cit., p. 6, quando dice in sintesi che siamo tutti costruttori di mondi: "gli universi di mondi, come i mondi stessi, si possono costruire in svariate maniere". Su temi simili cfr. anche Thomas Nagel, Uno sguardo da nessun luogo, Milano, Il Saggiatore, 1988.
[23] L'ossessione per il tema delle mappe che coincidono con quanto rappresentato, dell'infinito sdoppiamento di mondi e sue rappresentazioni che accompagna tutta l'opera di Borges, è brillantemente trattato in un articolo di Piergiorgio Odifreddi del 1997, Un matematico legge Borges, <http://www.asia.it/media/documenti/docs_odifreddi/borges.pdf>.
[24] Fondamentale il progetto The Open Archives Iniziative Protocol for Metadata Harvesting , <http://www.openarchives.org/OAI/openarchivesprotocol.html>, per cui si può leggere anche la presentazione di Valdo Pasqui del 2001 <http://www.iccu.sbn.it/upload/documenti/Pasqui.ppt>.