Quando ho l'occasione di parlare di archivi con colleghi bibliotecari oppure specialisti di beni storico-artistici, corro il rischio di far sospettare loro "snobismi di scuderia", ma devo forse annoiarli premettendo qualche parola sulla particolarità dell'oggetto del nostro lavoro. Non si tratta di distinguerci a tutti i costi, ma di sottolineare la ricchezza (e la fatica) di occuparci di oggetti portatori di una natura duplice, a cavallo tra funzione giuridico-amministrativa e culturale, strumento classico per la corretta amministrazione del presente e al tempo stesso fonte storica primaria.
La conservazione degli archivi, in virtù di questa duplicità, è dunque un processo che ne investe necessariamente tutte le fasi di vita, da avviare anzi prima ancora dell'inizio della loro vita, nella fase "di concezione", in cui si definiscono gli assetti organizzativi e le procedure tecniche e formali del records management, per la corretta formazione di quei sistemi di documentazione necessari al funzionamento di qualunque organizzazione, semplice o complessa, pubblica o privata che sia. Conservare gli archivi non significa dunque solo preservation dei documenti a garanzia dell'accesso long-term ad essi, ma implica prima di tutto l'attivazione di strategie che salvaguardino e storicizzino - insieme ai documenti - l'intero sistema di relazioni ed informazioni di contesto che fa di un insieme di documenti un archivio in senso proprio. Inoltre, il processo di conservazione deve preoccuparsi di mantenere più a lungo possibile i requisiti di integrità giuridica ed informativa dei documenti, evitando soluzioni di continuità nelle funzioni di recupero ed utilizzo che erano state previste nella fase attiva del loro ciclo vitale.
In questo intervento intendo presentare i tratti essenziali del longevo sistema della conservazione archivistica in Italia, evidenziando i nodi critici che emergono in questa particolare fase storica caratterizzata da radicali cambiamenti nelle modalità tecniche e materiali di produzione, trasmissione e accesso ai documenti, e al tempo stesso nella rete dei soggetti produttori di archivi, che è poi soprattutto quella dei soggetti dotati di funzioni amministrative. A partire dalle evidenze, proverò poi a proporre qui alcune conclusioni su quali siano le priorità di intervento per una riforma efficace, sostenibile e duratura del sistema degli archivi nel nostro paese.
Questa fase di transito, di per sé incerta e delicata, non può più essere affrontata con piccoli aggiustamenti, ma necessita di coraggiose scelte strategiche che, a partire dal ripensamento della legge archivistica, sappiano valorizzare le forze rimaste all'amministrazione archivistica statale attivando al tempo stesso forme di "interoperabilità" tra soggetti istituzionali ma anche tra i diversi specialisti dell'informazione e della documentazione. Il convegno AIB di Venezia rappresenta in questo quadro un'opportunità preziosa di confronto e di raccordo, per la quale devo ringraziare ancora una volta gli organizzatori che hanno ritenuto di volermi invitare.
Seguendo l'orientamento dei lavori della Commissione Cibrario, che nel 1870 si espresse a favore dell'appartenenza dell'amministrazione archivistica aI Ministero dell'interno piuttosto che a quello della pubblica istruzione [1], il sistema della conservazione del patrimonio archivistico nazionale si incardina fin dal 1874 su un'amministrazione statale con funzioni sia di conservazione degli archivi statali che di vigilanza sulla tenuta dei non statali [2]. Si doveva avere autorità sufficiente per ridurre a sistema, in quella fase di avvio del nuovo Stato unitario, le diversificate tradizioni preunitarie di amministrazione, conservazione e pubblicità degli archivi, dando un colpo al cerchio della continuità amministrativa che gli archivi prima di tutto dovevano contribuire a garantire, e uno alla botte degli studi eruditi, vale a dire della scrittura della storia d'Italia con la valorizzazione delle sue fonti.
Le leggi archivistiche del 1939 e del 1963 [3] non fecero che confermare questo orientamento, rinforzandolo piuttosto con l'istituzione a Roma di un Archivio Centrale dello Stato, di un sistema di Archivi di Stato in ogni provincia italiana e ancora di alcune Sezioni d'archivio in città non capoluogo, di particolare importanza storico-documentaria. Le funzioni di vigilanza sulla produzione e conservazione degli archivi non statali furono inoltre riaffermate e irrobustite con l'istituzione di uffici appositi, le Soprintendenze archivistiche. Coordinavano questa complessa rete di funzioni e di istituti, molto disomogenei nelle dimensioni e nelle capacità di governo del territorio, una Direzione generale e un Consiglio superiore composto da personalità di alto profilo politico e scientifico [4].
Nel 1975 l'amministrazione archivistica, come è noto, confluì nel Ministero per i beni culturali e ambientali, nel quadro del progetto spadoliniano di costituire un coordinamento amministrativo e tecnico-scientifico nel governo di tutti i beni culturali sul territorio [5]. Per il sistema degli archivi, però, non cambiò molto: la rete degli istituti periferici delineata nel 1963 non fu modificata, il Consiglio superiore si ridusse a Comitato di settore e l'amministrazione archivistica passò da fiore all'occhiello del dicastero dell'interno a cugino noioso - e costoso - dei musei, dei parchi archeologici e delle biblioteche. In tempi più recenti, neanche il Testo Unico del 1999 e il codice dei Beni culturali e ambientali del 2004 [6] hanno voluto mettere in discussione la rete della conservazione archivistica, nonostante nel frattempo (o meglio, già dagli anni '70 del secolo scorso) siano state istituite e rafforzate le Regioni, soggetto importante di coordinamento amministrativo, e le modifiche costituzionali del 2001 abbiano disegnato un nuovo quadro di equilibri istituzionali con importanti ricadute, tra l'altro, sulle responsabilità nella produzione e conservazione di archivi. Ma di questa asincronia si dirà meglio più avanti.
Per comprendere appieno i presupposti su cui si è basato l'edificio italiano della conservazione degli archivi, si deve tenere conto prima di tutto che il patrimonio documentario storico risultava per la gran parte di proprietà statale, se si eccettuano gli archivi storici di molti comuni, di cui molti peraltro versati in deposito senza scadenza negli Archivi di Stato, gli archivi degli enti ecclesiastici diocesani e degli ordini monastici sfuggiti a soppressioni e sequestri, e gli archivi di imprese, banche, partiti, sindacati, su cui un interesse diffuso è fenomeno abbastanza recente. A partire da questo stato di fatto, è stato costruito fin dal 1874 un sistema centrato su un corretto principio di "sussidiarietà della memoria storica", che vuole gli archivi storici (e gli altri beni culturali, secondo la formulazione più recente) conservati più vicino possibile ai luoghi di produzione. L'ampia rete degli Archivi e delle Sezioni di archivio di Stato in sostanza ha garantito l'osservanza di tale principio fino ai nostri giorni, con l'eccezione di qualche raffinata diatriba sulla competenza di una sede piuttosto che di un'altra per la conservazione di archivi che le vicende storiche avevano trasferito violentemente lontano dai contesti originari [7].
Inoltre, la normativa - storica e in vigore - hanno creduto opportuno affidare agli Archivi di Stato anche la sorveglianza sulla buona tenuta degli archivi prodotti dalle amministrazioni periferiche dello Stato. Si sono applicati così due principi importanti: primo, che la buona conservazione degli archivi deve muovere dalla loro fase attiva, quella di produzione e di utilizzo nell'ambito di una qualche attività amministrativa; secondo, che deve essere garantita la continuità della catena conservativa, cosicché gli archivi di oggi, una volta esaurita la fase attiva, si saldino - o si affianchino - agli archivi degli uffici del passato portatori delle stesse funzioni istituzionali e/o amministrative. Si è certi così di garantire agli utenti del futuro la disponibilità in un stesso contesto di concentrazione (delle carte, fino a poco tempo fa) dell'intero sistema documentario di un territorio, sedimentato da uffici diversi (o con denominazioni diverse) in contesti istituzionali diversi, ma con funzioni simili: sicurezza, giustizia, fiscalità, servizi pubblici, assetto del territorio, gestione e sviluppo delle infrastrutture, etc.
La sorveglianza archivistica delegata agli archivisti di Stato, però, non è stata sempre in grado di sostenere l'ardua sfida del governo omogeneo della burocrazia. Il particolarismo e il personalismo amministrativo "all'italiana" si sono dimostrati spesso più forti della legge archivistica: la nostra amministrazione pubblica, almeno in linea tendenziale, era finalizzata prima di tutto a servire sé stessa, evitando se possibile di garantire attraverso la buona tenuta degli archivi la continuità delle proprie funzioni e la trasmissione delle fonti sul proprio eventuale malfunzionamento, per cui sono tanti i casi di perdite importanti dovute alla poca cura (a voler pensar bene) degli archivi, in barba alla legislazione e alle commissioni di sorveglianza archivistica.
Tornando allo spirito originario alla base dell'attuale sistema archivistico nazionale, il principio base è fondato nel riconoscimento, affermatosi a partire soprattutto dalla scuola toscana nella seconda metà del XIX secolo, della relazione inscindibile tra l'attività di enti produttori e la sedimentazione di archivi, da cui consegue tra l'altro quel legame fortissimo tra i contesti istituzionali, gli ambiti territoriali storici e i complessi documentari che impedisce di allontanare troppo luogo di conservazione e luogo di produzione. Questo approccio, il cosiddetto metodo storico - che mutatis mutandis è pienamente coerente con la concezione dell'importanza del radicamento in un contesto geografico del sistema del patrimonio culturale e ambientale - fu però spinto dall'archivistica italiana ai suoi estremi. Nel Ventennio, infatti, si arrivò alla concezione idealista di identità sostanziale tra l'ufficio e il suo archivio, col risultato di fornire una solida giustificazione teorica - in voga fino a tempi recentissimi - per salvaguardare il particolarismo degli interventi archivistici da qualunque standardizzazione, con gli immaginabili gravi effetti sulla conservazione. Infatti, se ogni intervento archivistico è speciale e ogni archivista agisce con metodi e tempi propri basati solo sulla sua speciale competenza su uno specifico contesto documentario, a poco sono servite i richiami e le circolari che dalla fine del XIX secolo hanno invitato gli archivisti a redigere inventari per promuovere l'accesso alle carte, tralasciando gli eruditi studi personalistici: senza quegli studi e quegli approfondimenti, mai sufficienti e mai conclusi, non si può metter mano alla rappresentazione di quegli oggetti tanto misteriosi e speciali che sono gli archivi storici. E gli utenti avessero pazienza, o chiedessero ai sacerdoti la loro personale, benigna assistenza, in attesa del disegno delle mappe per entrare nei labirinti archivistici.
Il risultato complessivo dell'interazione tra buoni principi, non sempre ottime applicazioni e un'amministrazione povera, polverizzata e segnata da una tendenza centrifuga, giustificata peraltro dagli assunti teorici della disciplina, non può dirsi però del tutto negativo. Il sistema degli Archivi di Stato ha saputo garantire, bene o male, la conservazione di un patrimonio culturale di valore inestimabile, attraversando crisi drammatiche come quella dovuta ai bombardamenti alleati delle città italiane negli ultimi due anni della Seconda Guerra Mondiale o quelle delle alluvioni, dall'autunno del 1966 a quelle dei nostri giorni. Il punto debole del sistema risiede indubbiamente nella fiacchezza e parzialità dell'attività di inventariazione che, basilare per la tutela del patrimonio documentario, è stata separata spesso dalla sua funzione primaria di servizio all'utenza facendone occasione di studi eruditi destinati soprattutto alla pubblicazione.
Nel frattempo, le prestigiose sedi degli Archivi di Stato hanno raggiunto presto un livello critico in quanto a spazio di deposito occupato, la normativa sulla sicurezza degli edifici storici e del personale hanno costretto l'amministrazione a investire soprattutto in costosissimi adeguamenti degli edifici, senza avere la forza di attuare una politica di edilizia archivistica capace di spezzare l'identità tra istituzioni archivistiche ed edifici storici e di accogliere le migliaia di chilometri di documentazione degli uffici periferici statali in attesa (chissà in che condizioni) di essere versata.
L'altro fronte del sistema archivistico italiano, come già accennato definito dalla legislazione del ventennio e ribadito nel 1963, è rappresentano dalla funzione di vigilanza sugli archivi non statali, effettuata dalle Soprintendenze archivistiche, oggi di competenza regionale. Essa consiste prima di tutto dal sostegno tecnico, scientifico, giuridico e finanziario, nell'ordinario come nelle situazioni di emergenza, alle attività legate alla buona gestione e conservazione degli archivi. In secondo luogo, le Soprintendenze hanno promosso e sostenuto la valorizzazione degli archivi di imprese, banche, fondazioni, partiti, sindacati, confessioni religiose, istituti culturali. Un punto critico per quest'attività è costituito dall'affermazione, nel Codice del 2004, della mai abbastanza contestata separazione tra tutela e valorizzazione, affidando la prima allo Stato e la seconda alle Regioni. Questa discrasia tra conoscenza e diffusione è arrivata a complicare un quadro in cui sempre più spesso gli archivisti di Stato lavorano in stretto coordinamento con gli enti locali, per garantire un'efficacia stabile e condivisa degli interventi di tutela, base per qualunque valorizzazione, qualunque cosa questo termine significhi.
Negli ultimi 10-15 anni una serie di fattori, di origine e ambito differente ma accomunati dalla portata storica dei loro effetti, sono intervenuti contemporaneamente a mettere in discussione le basi stesse del sistema della conservazione archivistica italiana.
Prima di tutto, l'introduzione veloce e massiccia delle tecnologie digitali come strumento base di tutte le attività delle pubbliche amministrazioni ha comportato effetti rivoluzionari nella produzione, accesso, trasmissione e conservazione dei documenti e degli archivi. Come in altri casi, l'innovazione tecnologica e il mercato sono avanzati con ritmi più sostenuti rispetto ai tempi di adeguamento della macchina amministrativa: se la normativa nazionale è stata man mano aggiornata, pur con alcuni vuoti e alcuni nodi ancora da sciogliere per renderla davvero applicabile, così non è stato dei procedimenti, del personale, della rete delle responsabilità, delle catene della gestione documentale. Dagli anni '80 del secolo scorso, da un lato si è riportato il documento al centro dell'amministrazione, riaffermandolo come garanzia di trasparenza nei confronti dei cittadini e come strumento di efficacia ed efficienza, confondendo però d'altro canto l'innovazione con la tecnologia e dimenticando che tutte le questioni legate all'innovazione nella pubblica amministrazione sono archivistiche prima che informatiche: supporti e formati dei documenti, trasmissione e diritti d'accesso, registrazione, classificazione e ordinamento, autenticità, validità e copie sostitutive, conservazione a lungo termine [8].
Dal punto di vista degli archivi, circolano negli ultimi tempi, nelle fiere del settore come nei documenti ufficiali, pericolosi incitamenti alla pratica di autodafé archivistici, volti a liberarsi finalmente dei polverosi documenti su carta in nome di una salvifica "dematerializzazione", più economica e moderna. Il mercato, dal canto suo, ci ha illuso più di una volta di aver trovato il formato perfetto, la procedura ineguagliabile, il sistema non plus ultra, salvo doverci poi ripensare, magari solo in seguito a fusioni tra multinazionali dell'hardware e del software.
La conservazione degli archivi digitali implica, invece, a detta di tutti gli specialisti del settore a livello internazionale [9], procedure più complesse ed onerose rispetto ai supporti analogici, quindi non necessariamente più economiche. Si riducono infatti i tempi entro i quali è possibile garantire la sopravvivenza del documento all'interno del suo contesto, e aumentano le attività necessarie alla descrizione e alla tutela fisica dei documenti, con pochi spazi di ripensamento e dunque obbligando ad un controllo ancor più severo del ciclo vitale degli archivi fin dalla loro concezione. Conservare archivi in ambiente digitale significa un trattamento continuo dei documenti, per garantirne autenticità, intelligibilità, integrità, identificazione univoca del documento, delle relazioni e del contesto, accessibilità.
Nell'attuale sistema normativo italiano c'è ancora poca omogeneità tra la regolamentazione della fase di produzione, utilizzo, gestione e conservazione dei documenti informatici nell'ambito dell'archivio corrente, e la fase che obbliga a prevedere le responsabilità e le modalità tecniche per garantire la salvaguardia nel tempo del valore giuridico e culturale degli archivi. Due mondi pericolosamente separati in casa, mentre gli archivi ibridi, cartacei e digitali, rappresentano ogni giorno di più la normalità, mancano le procedure per gestire i processi di digitalizzazione del cartaceo sia pregresso che coevo e, all'inverso, per individuare i casi in cui sia necessario conservare comunque anche i supporti cartacei. La coesistenza di supporti analogici e digitali, se è un dato di fatto per gli archivi in formazione, lo sarà altrettanto per gli archivi di concentrazione. Manca totalmente la percezione di documenti e archivi informatici come patrimonio da salvaguardare, e spesso gli enti non sanno neppure di possedere archivi, perché in quanto digitali i documenti sono di norma percepiti solo come "dati".
Se il processo normativo degli ultimi quindici anni ha comunque proceduto, con frequenti ripensamenti e qualche pericolosa contraddizione, l'amministrazione archivistica ha purtroppo dimostrato scarsa preparazione a sostenere (e perché no, a guidare) il cambiamento, ripiegata com'è - per i motivi già accennati - su posizioni protezionistiche e "beniculturalistiche" per le competenze archivistiche. Si assiste infatti, paradossalmente, ad un rinnovato impulso localistico anche nelle iniziative basate sulle nuove tecnologie, in barba a ogni tendenza alla "convergenza al digitale". L'amministrazione centrale, dal canto suo, fatica a contenere i particolarismi, indebolita com'è dai sistematici tagli finanziari al settore, ridotta a coordinare archivi popolati da archivisti demotivati e prossimi alla pensione, incapaci di ricevere i versamenti di legge per la mancanza di depositi, privi di fondi per pagare il riscaldamento, il telefono, la connessione a Internet, oppure Soprintendenze senza automobili e risorse per pagare le missioni. Il blocco ventennale del turn-over ha avuto effetti critici sull'aggiornamento del personale e sulla qualità dei servizi anche perché, se le riforme dell'università hanno prodotto la moltiplicazione di laureati specialisti, l'amministrazione pubblica ha avuto raramente le risorse e mai gli strumenti normativi per esternalizzare efficacemente una parte delle sue funzioni. Le ripetute leggi speciali, infine, tutte votate agli investimenti in nuove tecnologie, hanno ottenuto risultati quasi mai di livello nazionale, quanto piuttosto alcune eccellenze a macchia di leopardo, progettate quasi sempre per funzionare solo a livello locale, non reimpiegabili altrove e non interoperabili.
A completare il quadro di confusione che si è creato, si assiste a strane manovre di decontestualizzazione della memoria documentaria, di cui la più grave è stata quella che ha inteso svincolare dalla legge archivistica, attraverso un sub-comma di una legge che riguardava tutt'altro, la conservazione dell'archivio storico della Presidenza del consiglio, concepito come organo costituzionale autonomo e non come vertice del sistema-governo, i cui archivi sono destinati ad essere conservati presso l'Archivio centrale dello Stato.
Sul territorio, poi, l'ultimo decennio ha significato il ridisegno continuo della mappa delle competenze istituzionali e amministrative, mossa da una sana spinta alla sussidiarietà ma attuata con strappi o lasciando aperte numerose sovrapposizioni. Per gli uffici statali si è trattato (e si tratterà ancora) di un terremoto di dismissioni, passaggi di funzioni, privatizzazioni e ripetute riforme delle competenze, mentre si sono affermati nuovi profili amministrativi: agenzie e autorità indipendenti, società di servizi, e S.p.A. di proprietà semi-pubbliche a sostituire le aziende municipalizzate.
Dal punto di vista degli archivi, la cui normativa, lo ricordiamo, è sostanzialmente la stessa del 1939, questa rivoluzione amministrativa sta provocando discontinuità, cesure, perdite irreparabili di cui il legislatore non sembra avere consapevolezza, teso com'è a promuovere da un lato l'innovazione come valore assoluto, dall'altro il bene culturale soprattutto come strumento di ulteriore richiamo turistico, senza tener conto, per gli archivi come per le biblioteche, di ciò che comportano i nuovi supporti della conoscenza e dell'informazione, da fruire largamente oggi ma anche da tramandare ai posteri.
Un altro punto critico di questa fase, per concludere, è rappresentato dall'uso ormai assoluto di tecnologie informatiche per la descrizione archivistica e per la gestione dei documenti: questo fenomeno, in Italia, ha prodotto in assenza di un organo di coordinamento ad hoc un panorama confuso, in cui soggetti simili usano sistemi diversi e soggetti diversi usano gli stessi sistemi, quasi sempre senza la possibilità di attivare spazi di interoperabilità (organizzativa e tecnica).
Per concludere, pur evitando in questa sede di entrare troppo nel merito delle variabili politico-amministrative, vorrei elencare le priorità che mi pare debbano essere affrontate per guadare nel modo più agevole il fiume impetuoso ed inquinato di quest'epoca di transizione. Fuor di metafora, è urgente fare il possibile per non approfondire ulteriormente l'attuale gap tra un affaticato sistema di conservazione degli archivi storici e le condizioni minime per la corretta formazione degli archivi contemporanei, garantendo che la memoria documentaria del nostro presente, comunque sia formata, sia consultabile agevolmente oggi e accessibile in modo corretto, per qualunque uso, domani.
Prima di tutto, appare evidente che serve una nuova legge archivistica, che comporti una riforma coraggiosa dell'amministrazione statale e disegni in modo razionale una rete della conservazione archivistica, che sappia superare la separazione troppo rigida tra le funzioni di conservazione/sorveglianza degli archivi statali e di vigilanza dei non-statali. E' infatti solo in un nuovo clima che potranno essere coltivate le necessarie sinergie tra diversi soggetti istituzionali per un coordinamento efficace e omogeneo sul territorio, senza temere di guardare oltre gli istituti periferici statali classici e gli assessorati degli enti locali, avvalendosi di forme di compartecipazione degli oneri tra più soggetti istituzionali, di forme controllate di outsourcing, di autorità amministrative indipendenti, di fondazioni. Un riferimento può essere forse la logica sussidiaria dei "distretti digitali", con poli per la conservazione e l'accesso ICT a informazioni e ai servizi non modellati sugli organigrammi ma trasversali e service-oriented: per attivare meccanismi di cooperazione e di affidamento a terzi che garantiscano del soddisfacimento degli standard di servizio, attualmente ancora non definiti o mai applicati, è necessario delineare un quadro chiaro delle competenze dei soggetti produttori e delle responsabilità dei soggetti preposti alla conservazione.
E' difficile contestare, inoltre, che debba essere affidato un ruolo chiave all'Istituto Centrale per gli Archivi [10] , cui affidare il coordinamento per la definizione degli standard per la formazione e l'inventariazione degli archivi, per la ricerca e lo studio nell'applicazione delle nuove tecnologie e dei nuovi modelli gestionali. Serve, insomma, un riferimento scientifico e tecnico centrale dotato dell'autorità e della credibilità sufficienti, un centro di formazione e diffusione degli standard e delle buone pratiche, un soggetto unico col compito di coordinare lo sviluppo del Sistema Archivistico Nazionale, cioè di quel sistema di informazioni, di procedure e di tools cooperativi che rappresenti finalmente l'occasione per attivare a livello operativo le sinergie tra i molti e diversi soggetti, almeno per condividere le descrizioni degli archivi storici e offrirle agli utenti in un solo contesto di ricerca .
A partire da questo importante progetto, si può forse costruire una politica integrata di valorizzazione della memoria documentaria che non consenta sovrapposizioni e ripetizioni: servono campagne coordinate di inventariazione e digitalizzazione, basate sulla condivisione di strumenti e tecniche.
Sul fronte del rinnovamento della Pubblica Amministrazione, il cosiddetto e-government e della trasparenza delle procedure e di un'efficace comunicazione pubblica, è ancora una volta più che mai importante sensibilizzare "chi di dovere" sulla centralità della buona tenuta degli archivi come condizione basilare per la gestione efficiente dei procedimenti. Se si vuole assicurare la validità nel tempo delle soluzioni di ICT applicate agli archivi, si deve partire da presupposti che includono analisi archivistiche, non solo sulla transeunte efficacia dei software.
Ultimo punto in ordine narrativo, ma primario perché l'intero sistema regga, risulta essere a mio avviso il problema delle risorse umane e della loro formazione professionale. Come accennato, oggi convivono a mo' di separati in casa la ricerca scientifica, il contesto politico e l'amministrazione attiva, ogni elemento basato su personale con competenze diverse. L'università risulta ancora troppo orientata alla formazione sugli archivi storici, mentre il contesto decisionale di vertice è spesso ignaro delle problematiche della gestione documentale, ma facilmente attratto dalle chimere della dematerializzazione selvaggia. Infine, il fronte operativo è di norma inadeguato: da un lato è mal selezionato e/o mal formato nel caso degli archivisti "correnti" delle amministrazioni pubbliche e private, dall'altro è ridotto all'osso, anziano e non aggiornato quello degli istituti archivistici. Per favorire il ricambio generazionale e attivare una vera strategia di formazione, ancora una volta deve essere assimilata, prima di tutto a livello politico, la consapevolezza del ruolo strategico degli archivi nell'attività amministrativa di oggi e come strumento di identità e di conoscenza domani, quindi si deve avere il coraggio di mettere in discussione a livello universitario (e non solo, basti pensare alle ormai dequalificate Scuole degli archivi di Stato) le attuali sovrapposizioni tra discipline differenti sotto un unico cappello "antichista", distinguendo con chiarezza l'indirizzo di studio sul trattamento delle fonti storiche da quello sulla gestione documentale degli archivi ibridi in formazione.
Solo così, credo, si potranno offrire all'attuale esercito di precari qualificati serie opportunità di inquadramento o di collaborazione coordinata con le istituzioni archivistiche vecchie e nuove, prima che si perda l'opportunità di trasmettere un'eredità unica di esperienza e portare al tempo stesso una fresca ventata di competenze aggiornate. Infine, si potrà garantire che alle unità operative delle pubbliche amministrazioni addette alla gestione documentale siano assegnati degli specialisti di archivistica contemporanea, non più autisti di scuolabus.
Pierluigi Feliciati, MiBAC - Istituto Centrale per gli Archivi - Roma, e-mail: pfeliciati@archivi.beniculturali.it
* Relazione presentata al convegno Conservare le raccolte delle biblioteche: problemi e prospettive dal cartaceo al digitale, Venezia il 26 maggio 2006, e promosso dalla Commissione nazionale università e ricerca, dal Gruppo di studio sulle biblioteche digitali e della Sezione Veneto dell'Associazione Italiana Biblioteche.
[1] Cfr. il testo della relazione della Commissione nella biblioteca digitale del portale ARCHIVI, <http://www.archivi.beniculturali.it/Biblioteca/Studi/cibrario.pdf> e al R.D. 5 marzo 1874, N. 1852, Regio decreto col quale tutti gli Archivi di Stato sono posti alle dipendenze del ministro dell'Interno. Per questa e le altre norme citate, si rinvia alla banca dati ARCNORM, nell'ambito del portale dell'amministrazione archivistica, <http://wwwdb.archivi.beniculturali.it/>.
[2] Cfr. R.D. 26 marzo 1874, N. 1861, Regio decreto relativo al riordinamento degli Archivi di Stato.
[3] Cfr. L. 22 dicembre 1939, N. 2006, Nuovo ordinamento degli Archivi del Regno e D.P.R. 30 settembre 1963, N. 1409, Norme relative all'ordinamento ed al personale degli Archivi di Stato.
[4] Attualmente l'amministrazione statale è composta da 135 tra Archivi e Sezioni, più 17 Soprintendenze, per un totale di più di 250 sedi. Gli interessanti verbali delle centinaia di sedute del Consiglio per gli archivi (1874-1976) e della Giunta che lo ha affiancato in una certa fase (1903-1933) sono stati oggetto di un progetto di edizione elettronica nell'ambito del portale ARCHIVI, consultabile in <http://wwwdb.archivi.beniculturali.it/consiglio/>.
[5] Cfr. L. 29 gennaio 1975, N. 5, Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 14 dicembre 1974, n. 657, concernente l'istituzione del ministero per i Beni culturali e ambientali e il D.P.R. 3 dicembre 1975, N. 805, Organizzazione del ministero per i Beni culturali e ambientali.
[6] Cfr. D.lg. 29 ottobre 1999, N.490, Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'art.1 della legge 8 ottobre 1997, n.352 e D.lg. 22 gennaio 2004, N. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 13.
[7] Un esempio è quello degli archivi (familiari e di governo) dei Farnese, in un primo tempo concentrati a Parma, dal 1545 nuova capitale del potere di quella dinastia laziale. Nel 1734, dopo l'estinzione dei Farnese, in seguito prima al passaggio del ducato emiliano ai Borboni di Spagna e poi alla frettolosa fuga del duca don Carlos, tutti i beni mobili dinastici (archivi, quadri, statue, codici) furono trasportati a Napoli, dove si trovano ancora, nel Museo di Capodimonte, nella Biblioteca Reale e nell'Archivio di Stato. Fino agli anni '80 del secolo scorso si discusse molto sul "ritorno a casa" di ciò che è rimasto (dopo la seconda guerra mondiale) degli archivi farnesiani a Parma, mai messo in pratica.
[8] Si è perso lo spirito dettato dalla direttiva del Presidente del Consiglio del 28 ottobre 1999, che affermava tra l'altro la necessità di "passare dalla concezione tradizionale di sistema informatico a quella di sistema informativo [...] un flusso di informazioni continuo e pluridirezionale, finalizzato a fornire il supporto conoscitivo alle attività decisionali. Allorché, difatti, la gestione dell'insieme dei flussi informativi e, in particolare, documentali, viene affidata alla tecnologia informatica e telematica, questa non si presenta più quale mero strumento tecnico di automazione delle attività di ufficio ma come vera e propria risorsa strategica, necessaria per la migliore efficacia delle politiche della singola amministrazione".
[9] Si veda soprattutto il progetto InterPares, <http://www.interpares.org/>, e l'aggiornato e ricco periodico on-line "Interlex", particolarmente nella sezione "Pubblica amministrazione", <hhttp://www.interlex.it/pa/indice.htm>.
[10] L'ICAR è "attivando" da 8 anni, essendo stato istituito con il D.lg. 20 ottobre 1998, n. 368, Istituzione del Ministero per i beni e le attività culturali, a norma dell'art. 11 della legge 15 marzo 1997, n.59. L'istituto, previsto con sede a Roma, è stato confermato nei regolamenti organizzativi del Ministero successivi, e un dirigente tecnico gli è stato assegnato ormai da due anni. Mancano però alcuni dettagli perché esista davvero: un regolamento ufficiale che ne disciplini organigramma e funzioni, una sede, personale sufficiente e minima dotazione finanziaria.