Integrati e contenti. La cooperazione bibliotecaria fra integrazione operativa e istituzionale
Come l'araba Fenice,
che vi sia ciascun lo dice,
cosa sia nessun lo sa.
(con molte scuse al sommo Metastasio)
Benché di recente la letteratura di settore si sia arricchita di un importante contributo sul tema [1], non sembra che il passaggio dalla teoria alla prassi abbia fatto registrare passi avanti decisivi nei riguardi della cooperazione.
In Italia questo termine è generalmente utilizzato per indicare ambiti di collaborazione fra biblioteche (per lo più di pubblica lettura, più raramente fra istituti di varia tipologia e titolarità) finalizzati alla condivisione di strumenti o servizi, ma senza possedere una connotazione "tecnica" precisa, ossia senza far riferimento a modelli, procedure o assetti di responsabilità codificati e replicabili.
Manca tuttora una elaborazione organica sulla cooperazione, sulle sue modalità organizzative, sugli effetti prodotti sull'attività e - in qualche caso - sulla natura medesima delle biblioteche che vi aderiscono. E tuttavia appare assodato che "lo sviluppo attuale dei servizi bibliotecari in Italia non possa prescindere dalla cooperazione" [2].
Fra le ragioni che spingono le biblioteche a vedere nella cooperazione un vantaggio sembra prevalere la volontà di massimizzare i benefici economici attraverso la ricerca di "economie di scala", che consistono nella riduzione dei costi fissi di produzione grazie all'ottimizzazione delle procedure; ma anche, sul piano dei servizi, la possibilità di ampliarne la gamma grazie allo sfruttamento condiviso delle risorse.
Nel quadro dissestato della pubblica lettura italiana, il prevalere di atteggiamenti di tipo conservativo o difensivo, spesso legati alla scarsità di risorse, ha portato molte biblioteche ad attribuire un ruolo salvifico alla cooperazione. Evocati come talismani dal bibliotecario-sciamano, celebrati come la panacea di tutte le povertà dall'assessore-taumaturgo, i sistemi di cooperazione promettono vantaggi che - in assenza di quadri di riferimento certi - non possono mantenere, se non grazie a congiunture astrali favorevoli.
Per la verità non esiste accordo nemmeno a livello terminologico su cosa debba essere un "sistema di cooperazione territoriale": fra il blando accordo informale di collaborazione e la creazione di articolate strutture centrali esiste un profondo e variegato pèlago di soluzioni amministrative e di servizio che vengono costrette a forza in questo orizzonte semantico, senza che esista un livello minimo condiviso - formale o operativo - che ne definisca peculiarità e limiti.
Si osserva, al contrario, un palese iato fra l'affermazione della volontà di cooperazione e i suoi risultati. Sono troppe le realtà in cui la montagna partorisce - a stento - il topolino: sistemi di varia dimensione che, dopo anni, condividono esclusivamente la catalogazione e i suoi derivati, come il catalogo collettivo; reti di cooperazione che, a parole, inneggiano alla sussidiarietà e all'integrazione ma che, nel concreto, sono incapaci di rinunciare anche a porzioni omeopatiche della propria autonomia o "identità" (valori centrali nella cooperazione, che tuttavia troppo spesso servono da copertura ad anacronistici quanto sterili atteggiamenti campanilistici).
In questo panorama balcanizzato di soluzioni ed espedienti, balza immediatamente all'occhio un'esigenza di definizione e di modellizzazione: che cosa qualifica, oggi, un "sistema di cooperazione territoriale"? Quali sono gli assetti minimi e quelli ottimali? Qual è il "valore aggiunto" che è lecito attendersi dalla cooperazione?
Esistono alcuni requisiti che non possono essere elusi e che rimandano alla natura organizzativo-gestionale della cooperazione: non si dà "sistema" senza l'esistenza di rapporti codificati fra i soggetti cooperanti, regolati al minimo da un accordo amministrativo che definisca le finalità e i contenuti della cooperazione, i risultati attesi, i reciproci impegni e responsabilità, i livelli di contribuzione, le modalità di valutazione; senza la distinzione dei ruoli e la definizione degli interscambi reciproci; senza rapporti strutturati di servizio, fondati sulla condivisione di risorse, know-how, strumenti.
A questi aspetti burocratico-organizzativi si aggiungano - come determinanti - fattori motivazionali quali la capacità di percepire la propria attività nel quadro di una biblioteca territoriale, alla quale gli utenti accedono da punti differenziati ma con uguali diritti; la disponibilità a lavorare per raggiungere un alto livello di integrazione dei servizi; la revisione delle modalità di relazione con i colleghi della rete.
Se è abbastanza intuitivo delimitare il campo della cooperazione dal punto di vista dei minimalia, ad altro ordine di problemi fa riferimento la definizione delle condizioni che la rendono utile ed efficace, posto che esiste un ambito di autonomia organizzativa determinato dalla variabilità dei contesti che rende ragione del proliferare di modelli a volte radicalmente divergenti fra loro.
Si osservano infatti differenze di tipo amministrativo nella presenza o assenza di un ente gestore della cooperazione e nella sua natura giuridica; differenze di tipo organizzativo nella presenza o meno di un centro servizi e nella presenza (o assenza) di personale di rete; differenze nel tipo e quantità di servizi offerti alle biblioteche aderenti.
Il Gruppo di studio sulla valutazione della cooperazione nelle reti bibliotecarie territoriali [3], costituito in seno all'Associazione Italiana Biblioteche, ha individuato cinque modelli organizzativi per la cooperazione territoriale, ciascuno dotato di fisionomia, assetti decisionali ed operativi, flussi di relazioni peculiari e determinati [4].
Anna Galluzzi ha recentemente provato a sistematizzare la variabilità che si registra "in natura" ragionando sulle caratteristiche di due paradigmi organizzativi tendenzialmente opposti: il modello gerarchico e il modello reticolare. Il primo accentua i livelli hard della cooperazione (strutture organizzative, tecnologie, procedure) ed è per definizione più stabile e rigido, seppur tendente alla burocratizzazione; il secondo fa riferimento a fattori immateriali quali la cultura aziendale, l'intensità e la qualità degli scambi informativi, e si adatta meglio agli ambienti dinamici in quanto maggiormente differenziato e flessibile. Entrambi non escludono la presenza di un centro, che si caratterizza per ruolo e intensità complessiva di scambi con gli altri soggetti cooperanti [5].
E' appena il caso di sottolineare che, se l'agire organizzativo tende alla semplificazione e alla razionalizzazione, la realtà punta decisamente verso la complessità: le due schematizzazioni alludono ad approcci divergenti e per molti versi antitetici, che delimitano senza esaurirlo il campo del possibile. Tuttavia, prendendo per buona la schematizzazione proposta, appare immediatamente evidente come il modello reticolare, che la riflessione di matrice gestionale tende a indicare come più idoneo a fronteggiare la complessità e la mutevolezza contemporanee, per funzionare richieda punti nodali omogenei, dotati di autonomia e in grado di fornire un contributo in termini di programmazione, responsabilità e operatività. Requisiti, questi che, nella frammentata realtà italiana, costituita prevalentemente da unità di servizio deboli e scarsamente strutturate, costituiscono merce rara: la regola è la discontinuità e la distribuzione disomogenea delle risorse.
E' forse in virtù di tali considerazioni che Laura Ricchina, partendo da un caso concreto di studio [6], sembra concedere maggior credito ai modelli cooperativi a matrice centralizzata, giungendo a classificare tre livelli di cooperazione che, finalisticamente, "corrispondono a diversi stadi di sviluppo: un modello di base, un modello intermedio e un modello avanzato" [7].
Questa scansione, che prefigura livelli di integrazione non limitati ai servizi bibliografici ma estesi progressivamente sino ad abbracciare tutto il campo dei servizi erogati, ribalta il modello reticolare perché postula una dialettica serrata fra un centro sistema autonomo, forte e ben visibile sul territorio, "in grado di costruire forme di integrazioni anche con altre realtà pubbliche e private" [8], e punti di servizio che agiscono in coordinamento fra loro e con il centro.
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Si potrebbe osservare che la cooperazione gestita per via strettamente gerarchica configuri una sorta di ossimoro. E tuttavia, paradossalmente, nell'attuale congiuntura economica, con gli Enti Locali attanagliati da una crisi finanziaria che pone vincoli severi alla spesa, la presenza di una struttura centrale di cooperazione autonoma, libera dai vincoli della finanza pubblica e in grado di agire secondo logiche decisionali e operative improntate alla massima efficienza è un vantaggio competitivo che dovrebbe essere attentamente considerato. Non si tratta, quindi, di scegliere fra opzioni alternative e auto-esclusive (centralizzazione vs reticolarità) ma di ragionare in base alle logiche adattative ed evoluzionistiche tipiche dei sistemi biologici, secondo le quali un equilibrio è sempre la risposta a stimoli ambientali.
La scelta, quindi, dovrebbe tenere conto (al minimo) del livello di sviluppo e di autonomia dei soggetti cooperanti e del grado di volontà di dar vita a un sistema di cooperazione territoriale realmente coeso e integrato, nonché degli obiettivi che la cooperazione si è data, hic et nunc.
In contesti caratterizzati da realtà medio-piccole, in aree a bassa densità demografica e con servizi bibliotecari poco sviluppati, l'esistenza di servizi centralizzati a supporto e complemento dell'attività riveste un ruolo fondamentale, e la presenza di livelli avanzati di centralizzazione rappresenta un fattore di sviluppo, non una componente inerziale.
Per converso, la transizione da modelli cooperativi improntati a una maggior centralizzazione a modelli a responsabilità distribuita, quand'anche fosse suggerita dal contesto, è un percorso lento e non lineare, privo dei caratteri di necessità tipici dei processi irreversibili; essa rappresenta una delle variabili che le biblioteche possono utilizzare per gestire la cooperazione.
L'adeguatezza di un sistema territoriale, oggi, non risiede nell'adesione a un modello precostituito ma nella capacità di adattarlo a contesti specifici, adottando il giusto mix fra componenti tipiche dei sistemi centralizzati e componenti tipiche delle strutture reticolari. Si tratta di pensare a modelli che che dosino sapientemente centralizzazione e autonomia, articolazione e flessibilità.
Il problema può essere utilmente affrontato in termini di specializzazione: si tratta di definire quali funzioni debbano essere totalmente svolte dal centro servizi, quali lasciate alla competenza di singole biblioteche, quali suddivise fra centro e periferia, possibilmente adottando un sistema di regole e procedure pseudo-deterministiche a garanzia della corretta esecuzione dei compiti affidati a ciascuna componente del sistema.
Nel bilanciamento e nella distribuzione delle funzioni è bene tenere presente che, laddove il centro sistema sia concepito prevalentemente come struttura di secondo livello (ovvero come "agenzia" di servizio i cui prodotti vengono indirizzati alle biblioteche e non all'utente finale), la ratio dovrebbe essere quella di distinguere fra un back office centrale a cui affidare compiti che non abbiano un rilievo diretto per gli utenti, e un front-office bibliotecario che, sgravato dal peso di procedure ripetitive e autoreferenziali, possa convogliare tempo e risorse al potenziamento dei servizi di reference, orientamento e supporto all'utenza.
Un esempio tipico potrebbe riguardare la tutela dei dati personali dell'utenza, che in un contesto di rete geografica pone problemi molto seri in termini di sicurezza e integrità, e che potrebbe utilmente essere gestito attribuendo al centro sistema il ruolo di titolare - se dotato di personalità giuridica - o di responsabile del trattamento.
Un altro caso in cui la presenza di assetti centralizzati genera valore aggiunto riguarda i servizi ad elevata specializzazione, che richiedono professionalità non disponibili localmente (o che sarebbe diseconomico prevedere localmente): ad esempio, la gestione di un sito web di sistema, o delle politiche di comunicazione, marketing e fund raising, o ancora del prestito internazionale.
La situazione prefigurata descrive il passaggio dalla semplice integrazione informativa a quella operativa e organizzativa, che può garantire coesione sufficiente per realizzare servizi centralizzati di alto livello; essa, tuttavia, non rappresenta un approdo bensì una tappa verso la piena integrazione.
Esiste infatti un livello ulteriore di cooperazione che solo di recente è diventato oggetto di studio e di pianificazione da parte di alcune realtà sistemiche: l'integrazione istituzionale.
La scelta di un assetto giuridico comporta l'adesione a meccanismi di governance determinati, la possibilità o meno di aprirsi all'apporto di soggetti terzi, un tasso di autonomia gestionale più o meno accentuato. La convenzione fra Enti Territoriali per la gestione associata di uno o più servizi - la forma di accordo istituzionale più diffusa e democratica - è funzionale in contesti di piccole dimensioni o a bassa complessità, ma entra in crisi laddove la dimensione territoriale della cooperazione oppure il numero dei servizi da gestire superino una soglia critica (non determinabile in assoluto).
I consorzi - che in Italia hanno rappresentato la principale alternativa alla gestione tramite convenzioni - hanno piena autonomia gestionale ma mantengono un rapporto particolarmente stretto con gli enti locali di riferimento, i quali (in quanto titolari del servizio) esercitano importanti poteri di controllo sulla vita del nuovo soggetto e lo svolgimento della relativa attività.
In contesti fortemente complessi, nei quali la reattività e la capacità di risposta ai bisogni degli interlocutori diventa un fattore determinante, può essere utile prevedere il ricorso a forme giuridiche a governance fortemente accentrata, meno democratiche ma caratterizzate da elevata autonomia decisionale: è il caso, ad esempio, della Fondazione, figura giuridica di diritto privato che è stata di recente adottata dai sistemi di Abbiategrasso, Corsico, Magenta, Rozzano e del Castanese per dare vita al sistema Biblioteche Sud Ovest Milano: la particolare tipologia individuata (un ibrido fra la fondazione di partecipazione e la fondazione di comunità) consente al sistema bibliotecario di operare come soggetto del tutto distaccato giuridicamente dagli enti locali fondatori, i quali esercitano il loro controllo attraverso la presenza negli organi di governo del nuovo soggetto insieme con altri soggetti pubblici e privati detti "partecipanti", ma funzionalmente coordinato nell'obiettivo comune di gestire la pubblica lettura sul territorio.
La scelta fra i due distinti approcci (uno che presuppone e preserva la distinzione degli enti e della proprietà dei beni coinvolti nella costruzione della rete e l'altro che, invece, attribuisce al sistema una propria distinta capacità giuridica) deve essere attentamente valutata alla luce degli elementi costitutivi del progetto di cooperazione, ovvero in funzione della missione e degli obiettivi dichiarati.
L'integrazione istituzionale può essere considerata il passaggio della cooperazione alla fase della maturità, nella quale l'appartenenza al sistema bibliotecario diventa per la singola biblioteca un elemento identitario e un supporto operativo insostituibile. Anche in questo caso, tuttavia, non si tratta di una transizione necessaria ma di una opzione da valutare: alla stregua della pietra di paragone, i modelli organizzativi consentono ai sistemi bibliotecari di rispecchiarsi, alla ricerca della propria peculiare fisionomia.
Stefano Parise, Centro Culturale Cascina Grande - Rozzano (Mi), stefano.parise@sbiroz.it
[1] Anna Galluzzi, Biblioteche e cooperazione, Milano, Editrice Bibliografica, 2004.
[2] Laura Ricchina, Quali prospettive per le aree di cooperazione, "Biblioteche oggi" 24 (2006), 2, p. 74.
[3] <http://www.aib.it/aib/commiss/reti/reti.htm>.
[4] Alessandro Agustoni - Giorgio Lotto, Valutare le reti di cooperazione, in La biblioteca condivisa. Strategie di rete e nuovi modelli di cooperazione, a cura di Ornella Foglieni. Milano, Bibliografica, 2004, p. 280-90.
[5] Anna Galluzzi, cit., p. 63-65.
[6] Il sistema bibliotecario sud ovest Milano, nato dall'unione di cinque preesistenti sistemi bibliotecari e costituitosi in fondazione di partecipazione nel 2006.
[7] Laura Ricchina, cit., p. 75.
[8] Ibidem, p. 79.