Vediamo innanzitutto come il Codice dei beni culturali e del paesaggio (risparmio i riferimenti alla legge che si trovano nei precedenti articoli) definisce la manutenzione. Prima di riportare il comma 3 dell’art. 29, che riguarda questo aspetto della conservazione, vale la pena di rammentare ancora una volta che il successivo comma 6 sottolinea come «Gli interventi di manutenzione e restauro su beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici sono eseguiti in via esclusiva da coloro che sono restauratori di beni culturali ai sensi della normativa in materia». Ciò significa che, secondo la normativa vigente, le attività e gli interventi di cui tratterò qui di seguito dovrebbero essere svolti, perlomeno, sotto la responsabilità di un restauratore. Il che, sulla base della mia modesta e breve esperienza, non si è mai verificato.
Il comma 3 spiega che «Per manutenzione si intende il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti». Se sulla prima parte della definizione non c’è nulla da osservare – nella prevenzione si parlava solo di attività, qui si precisa che, oltre alle attività, la manutenzione si attua mediante "interventi", vale a dire operazioni che coinvolgono concretamente le opere – già il senso dell’espressione "controllo delle condizioni" richiederebbe qualche precisazione. Poiché si parla di conservazione, quel controllo si riferisce evidentemente allo "stato di salute" dei materiali costituenti il bene culturale, una sorta insomma di check-up che può essere più o meno invasivo. Un prelievo sanguigno su un essere umano è un metodo di indagine sicuramente invasivo, ma il "materiale" prelevato viene ripristinato in tempi molto brevi. Non altrettanto avviene per i beni culturali che, differentemente dagli organismi viventi, non sono in grado di rimediare autonomamente a eventuali mancanze o lesioni (e questa è una delle radicali differenze che rende impropria l’omologia conservazione-medicina). Di conseguenza mi sono convinto che le uniche indagini accettabili siano quelle che comportano l’impiego di tecniche analitiche non distruttive. Ove fosse indispensabile effettuare analisi micro-distruttive, dovrebbe essere studiato nel dettaglio il progetto generale dell’intervento per valutare con attenzione il rapporto costi/benefici poiché molto spesso la montagna analitica partorisce un topolino.
Ancora più perplessi lascia l’espressione che affiderebbe alla manutenzione il "mantenimento dell’integrità" del bene culturale. Tutti (o quasi) sappiamo che l’integrità di qualsiasi oggetto non può essere mantenuta poiché essa si perde giorno dopo giorno. Come abbiamo più volte ripetuto, il compito della conservazione può essere solo quello di rallentare la degradazione, visto che arrestarla (cioè mantenere l’integrità) non rientra tra le nostre possibilità. Andiamo avanti e giungiamo al «mantenimento […] dell’efficienza funzionale e dell’identità». Fermo restando che l’identità di un’opera dovrebbe essere mantenuta dall’intero processo di conservazione, viene fatto di domandarsi a quale tipo di efficienza funzionale ci si riferisca. La funzione originaria dell’oggetto?
Pericoloso, perché si rischia di affilare una spada longobarda per mantenerne l’efficienza funzionale.
E il discorso non cambia granché per un Decretum Gratiani utilizzato nel secolo XIV a Bologna per lo studio del diritto canonico: oggi la funzione di quel manoscritto è soltanto quella di testimoniare come erano fatti i libri universitari nel Trecento. Punto.
Confesso che, procedendo nella disamina di cui sopra, mi è sorto il dubbio che il legislatore volesse riferirsi essenzialmente ai beni architettonici, il che rende comprensibile il senso del «mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti» se riferito a un palazzo monumentale. Ma perché allora estendere tale definizione al complesso dei beni culturali, senza distinzioni? Ignoranza o sciatteria? Mistero.
Sia come sia, faremo di necessità virtù, provando ad adattare la manutenzione alle nostre modeste esigenze. Prima del varo del Codice, preferivo articolare la prevenzione in indiretta e diretta, subordinando la prima – la prevenzione indiretta – all’assenza di qualsiasi contatto fisico con il bene culturale oggetto dell’azione conservativa. In buona sostanza, la prevenzione indiretta si realizza senza toccare il bene culturale.
Nella prevenzione diretta invece si stabilisce un contatto fisico con esso ma senza che ciò comporti una modificazione delle sue caratteristiche fisiche e chimiche. Va da sé che questa definizione è valida solo a livello macroscopico poiché, come sappiamo, giorno dopo giorno, ora dopo ora, il bene culturale – come del resto tutte le cose – tende a modificare il proprio stato.
Poiché si potrebbe intravedere qualche analogia tra la prevenzione diretta e la manutenzione, mi è parso opportuno aderire alla terminologia adottata nel Codice senza per questo rinunciare alle numerose perplessità appena espresse.
Quali sono le "attività" e gli "interventi" conservativi che, in ambito bibliotecario, possono essere ricondotti alla manutenzione? Tutti quelli nel corso dei quali, come ho accennato sopra, si stabilisce un contatto fisico con i libri senza che tale contatto comporti una modificazione delle loro caratteristiche materiali.
Nelle biblioteche, in queste azioni rientrano l’adozione di strutture di protezione (fodere e custodie), la spolveratura (oggi definita, più elegantemente, "depolveratura") e la disinfestazione anossica.
Le strutture di protezione possono avere caratteristiche molto diverse. Le più semplici sono le sovraccoperte che salvaguardano essenzialmente la legatura o, permeglio dire, le sue componenti esterne. Una decina di anni fa, un gruppo di imprenditori lanciò sul mercato una sovraccoperta in plastica trasparente (denominata CoLibrì) che poteva essere adattata – utilizzando una taglierina-saldatrice offerta, se non ricordo male, in comodato d’uso gratuito in cambio dell’acquisto di un congruo numero di sovraccoperte – alle dimensioni del volume da ricoprire. Per qualchemese ebbero contatti con l’Istituto di patologia del libro permettere a punto una sovraccoperta utilizzabile anche per i libri antichi, ma subito dopo compresero che il loro prodotto avrebbe avuto concrete potenzialità puntando decisamente sull’editoria scolastica e sulle biblioteche di pubblica lettura.
Il successo economico dell’iniziativa premiò questa scelta, confermando ancora una volta la scarsa affinità tra mercato e conservazione.
Le sovraccoperte per la conservazione infatti vengono realizzate artigianalmente, in genere da personale della biblioteca, utilizzando carte durevoli per la conservazione di buona grammatura (superiore di norma ai 120-150 g/m2).
La tecnica è quella che si utilizzava un tempo per "foderare" i libri scolastici (oggi c’è appunto CoLibrì), vale a dire impiegare un foglio di carta di dimensioni leggermente superiori a quelle del volume aperto, rimboccando i margini sovrabbondanti all’interno dei contropiatti, senza fissare con adesivi i rimbocchi tra di loro per non precludere allo studioso la possibilità di ispezionare la legatura in tutte le sue componenti. L’uso della carta durevole è apprezzabile allorché si abbia a che fare con coperte in pergamena o in carta/cartoncino. Poco razionale per quelle in cuoio che, caratterizzandosi per un pH debolmente acido, mal si associa a carte alcaline quali dovrebbero essere quelle durevoli per la conservazione. Tanto varrebbe, in questi casi, utilizzare robuste carte comuni la cui funzione resta comunque quella di proteggere le coperte da sfregamenti e piccoli urti.
Più protettive sono le cosiddette book shoes che somigliano alle custodie dei prodotti editoriali di pregio, scatole che coprono cinque delle sei facce del libro lasciando in vista il solo dorso. In questo caso la protezione non si limita alle componenti esterne della legatura ma riguarda anche le carte, segnatamente i tre tagli e in particolare quello d testa che si trasforma in genere nelle ricettacolo della polvere. Il fatto che il dorso resti scoperto fa sì che non sia salvaguardato dalla degradazione indotta dalla luce e anche che, nelle aree ad esso limitrofe, si depositi una certa quantità di polvere. Le custodie più efficienti restano quelle che racchiudono completamente il volume salvaguardandolo dalla polvere, dalla luce, dagli sfregamenti e dagli urti, nonché dal prelevamento da parte di coloro che utilizzano la cuffia di testa come "manico" del libro per estrarlo dallo scaffale. Quando il volume si trova in una custodia chiusa, questa operazione – che nei secoli ha comportato la distruzione dimigliaia di cuffie e di capitelli – diviene impossibile. I modelli di custodie chiuse sono innumerevoli.
Le migliori, a mio avviso, sono quelle bivalvi, a mo’ di conchiglia, all’interno della quale si trova il volume. L’impiego di queste custodie è univocamente positivo ed è auspicabile la sua più ampia generalizzazione, ovviamente nelle biblioteche di conservazione.
Ciò nonostante, tale impiego ha due connotati negativi:
il primo riguarda l’incremento delle dimensioni del libro che inevitabilmente cresce in spessore, nella migliore delle ipotesi, di qualche millimetro (sovente prossimo al centimetro). Se nel palchetto di 1 metro venivano collocati 20 volumi di spessore medio pari a 5 cm, generalizzando l’adozione delle custodie, 3-4 libri non potranno più trovare posto nel medesimo palchetto e ciò può comportare non pochi problemi. L’altro aspetto negativo riguarda l’eventualità che la compagine delle carte sia caratterizzata da una pronunciata acidità. Nel contenitore chiuso si corre il rischio di favorire la formazione di una sorta di "nuvola" di gas acidi prodotti dalla degradazione della carta che renderebbe quel microambiente del tutto inidoneo alla conservazione.Se tutte le attività che riguardano lamanutenzione devono essere svolte «in via esclusiva da coloro che sono restauratori di beni culturali», per la depolveratura la responsabilità di un restauratore dovrebbe essere inderogabile. Il fatto che poi essa venga affidata in concreto a personale dotato di minore qualificazione (oggi, nella migliore delle ipotesi, il lavoro viene realizzato da imprese addette alla comunissima pulizia), potrebbe essere persino comprensibile purché la direzione e l’organizzazione dei lavori resti saldamente in mano al restauratore il quale deve assicurare la propria costante presenza nel luogo ove si effettuano tali attività.
Nonostante l’eliminazione della polvere dai libri possa apparire come un intervento "domestico" (in fondo tutti noi periodicamente spolveriamo, o preghiamo i nostri collaboratori di spolverare, i libri che abbiamo in casa), la depolveratura di un fondo antico presenta elementi di rischio niente affatto trascurabili. Non è remota l’eventualità che le legature si presentino danneggiate e che loro elementi vengano messi a serio repentaglio durante il trattamento che sovente è eseguito con energici aspiratori da personale privo di qualsiasi cognizione relativa alla struttura di un libro e all’importanza che le sue componenti rivestono.
Nonostante l’inusitato spazio di cui ho potuto godere in questa occasione non sono riuscito a completare l’argomento che riprenderò, analizzando sia la depolveratura che la disinfestazione anossica, nella prossima puntata.
cfederici@tin.it