Da alcuni mesi sembra che l’attenzione di esponenti politici e di amministratori nei confronti delle biblioteche pubbliche si sia fatta particolarmente invadente. Gli episodi sono noti: quello di Genova è stato seguito da altri casi di interferenza da parte dei politici nelle procedure di selezione e gestione del patrimonio bibliografico, dei quotidiani in particolare. Episodi meno eclatanti ma caratterizzati dal medesimo intento censorio e soprattutto molto più frequenti di quanto non emerga dalla scorsa dalla stampa anche specialistica.
Come è stato ricordato, si tratta di temi dibattuti nel corso dell’ultima assemblea generale del maggio 2009 e che ricorrono sovente nelle discussioni tra colleghi.
Essi interessano la funzione istituzionale della biblioteca pubblica, la cui solidità dipende in larga misura dal riconoscimento di cui essa gode in seno alla società italiana, dal ruolo che vi ha svolto nel corso del tempo e dall’immagine di sé che è stata in grado di far emergere. Ritengo che le recenti azioni volte a comprimerne l’autonomia siano state intraprese non solo o non tanto per correggere ipotetici abusi - evidentemente inesistenti – da parte di singoli bibliotecari, quanto per la risonanza che tali provvedimenti avrebbero sortito presso la collettività, che a giudizio dei promotori appare incline ad approvarli.
Penso che per comprendere questo fenomeno sia opportuno domandarsi che cosa rappresentino le biblioteche per i nostri concittadini - per persone che nella grande maggioranza non le frequentano.
Anch’io sono persuaso con Leombroni che la biblioteca pubblica sia latrice anche di una funzione di natura sociale. Si tratta tuttavia di un’istanza relativamente recente, veicolata dalle leggi regionali di settore a partire dalla metà degli anni Settanta, e propria di un servizio caratterizzato da presupposti teorici forse più pertinenti ma gravato anche da irrisolte anomalie strutturali, connotato da un quadro normativo eccessivamente complesso ed alimentato da provvidenze modeste.
Essa cioè è sottesa ad una visione della biblioteca che probabilmente non è stata in grado di imporsi sulle sue immagini più tradizionali e rassicuranti: il modello conservativo e "patrimoniale" corrispondente ai canoni della "cattedrale della cultura", e quello "didattico" che tende a ridurre il servizio ad una funzione ancillare rispetto alle istituzioni scolastiche ed educative.
Allorché, nel perseguimento della "diffusione sociale della conoscenza", l’attività dei bibliotecari sembra allontanarsi da questi archetipi - certo vetusti ma diffusamente accreditati - per affrontare fenomeni più recenti o persino controversi della realtà – dall’educazione sessuale ai servizi multiculturali – essa può suscitare sospetto presso l’opinione pubblica meno avvertita e far apparire legittima l’accusa alle biblioteche di non fare più "cultura" ma assistenza sociale o persino "politica".
La conquista di una più solida legittimazione sociale in grado di mettere in sicurezza la funzione e l’esistenza stessa della biblioteca pubblica, così come noi oggi la concepiamo, non può che fondarsi sull’attività quotidiana di bibliotecari consapevoli, preparati e in grado di tutelare le proprie prerogative professionali. Ove però si consideri l’organizzazione del servizio bibliotecario degli enti locali, è facile rilevare come nell’attribuzione di responsabilità direttive le specifiche competenze biblioteconomiche vengano generalmente trascurate a favore di requisiti di natura giuridico-amministrativa. Una prassi, questa, che denuncia, da parte degli amministratori e dei dirigenti, il mancato riconoscimento alle biblioteche della complessità organizzativa e del rilievo sociale sufficienti a giustificare l’impiego di personale dotato di requisiti professionali specifici e che si accompagna sovente all’assenza di una visione coerente circa il ruolo e la funzione del servizio. In simili circostanze, la vastissima diffusione di forme di assunzione "atipiche" - caratterizzate da scadenze contrattuali, frequenti rinnovi, retribuzioni modeste e scarsa tutela dei diritti sociali - non può che rendere vulnerabile la biblioteca rispetto alle "incursioni" di amministratori propensi a varcare il limite che intercorre tra indirizzo politico e responsabilità gestionale. Ben difficilmente un bibliotecario "precario" potrà opporre valide resistenze a fronte degli intenti censori, poniamo, di un sindaco o di un assessore se vincolato ad un contratto in scadenza e se coordinato da dirigenti o responsabili inclini ad attribuire alla biblioteca trascurabile rilievo.
Credo quindi che alla tutela della professione in tutti i suoi aspetti, anche contrattuali, sia oggi vincolata la salvaguardia di un servizio bibliotecario culturalmente affidabile e socialmente rilevante.
All’inizio degli anni Novanta - periodo in cui mi avvicinavo alla professione - a chi sollecitava l’AIB ad una maggiore attenzione ai problemi occupazionali l’Associazione opponeva la considerazione che l’attività sindacale non rientrava tra le sue funzioni e che sarebbe stata sostanzialmente illegittima. Ho sempre ritenuto sensata questa giustificazione e in linea di principio la considero ancora corretta. Tuttavia i tempi sono mutati, il numero di "bibliotecari precari" ha raggiunto dimensioni patologiche – penso ad esempio alla Sardegna, dove già nel 2003 il personale con contratti atipici era quasi il doppio rispetto a quello di ruolo – tali da mettere in questione l’autonomia stessa della biblioteca pubblica.
Credo che oggi il tema dei diritti e delle tutele non si possa più circoscrivere all’ambito meramente occupazionale ma che in campo bibliotecario si stia traducendo in una questione di sostenibilità gestionale e, forse, di affidabilità democratica.