Negli ultimi mesi una serie di episodi balzati agli onori delle cronache hanno evidenziato il rafforzarsi della tendenza da parte di esponenti politici e di amministratori locali a interferire nella scelta delle risorse informative da ammettere in biblioteca. Il caso più eclatante ha riguardato la Biblioteca "De Amicis" di Genova, dove addirittura si è ricorso alla denuncia penale nei confronti del direttore, reo – a detta del querelante (un consigliere regionale di opposizione) – di aver consentito la diffusione di materiale pedo-pornografico in occasione di un’iniziativa organizzata da un’Associazione locale.
L’AIB ha preso tempestivamente e fermamente posizione contro questa forma di intimidazione per via giudiziaria, tesa a limitare l’autonomia dei colleghi genovesi in un ambito tipico della loro (e nostra) attività professionale, sottolineando – come ricordato da Leombroni nel precedente fascicolo di AIB Notizie – che una biblioteca autenticamente "pubblica" non può rinunciare a documentare tutti gli aspetti della cultura, del costume e della sensibilità contemporanea, anche se si tratta di temi delicati e forse anche discutibili, che riguardano il modo di intendere l’affettività e di educare i bambini alle sue varie forme ed espressioni. Argomenti che, proprio perchè discutibili, devono più di altri poter essere liberamente discussi, non rimossi o vietati.
Sullo sfondo di questo episodio eclatante – e unico, per fortuna... – emergono altri fatti e fatterelli di portata più limitata ma egualmente significativi di una tendenza probabilmente mai sopita ma oggi in decisa ascesa: la pretesa di condizionare la presenza di questa o quella testata, libro o film mediante decisioni dell’organo politico, come se il mero fatto di essere chiamati ad amministrare una comunità locale conferisca il diritto di deliberare quali opinioni, visioni del mondo o informazioni siano lecite e ammissibili e quali reprobe, invise, come tali da cassare, occultare, sottrarre all’attenzione dei cittadini.
Il terreno preferito per questo genere di scorribande è quello degli abbonamenti ai quotidiani, tipologia editoriale che più di altre si presta ad essere letta con occhio di parte. Il pretesto generalmente addotto è la razionalizzazione dei costi, resa improrogabile dalla crisi che attanaglia gli enti locali. E con la scusa dei tagli, la tagliola si abbatte su alcuni quotidiani ritenuti "politicizzati", salvo immediatamente scoprire che le economie sono vanificate con l’abbonamento ad altri quotidiani, altrettanto "politizzati" ma graditi allo schieramento in carica. è successo l’autunno scorso a San Donà di Piave e a Musile di Piave, dove a nulla sono valse le proteste del presidente Guerrini (la lettera al sindaco di Musile è disponibile a http://www.aib.it/aib/cen/stampa/c0910a.htm), pur ripresa da Repubblica.it e da un’emittente radiofonica; si è replicato più di recente a Sassuolo, dove la commedia ha assunto toni addirittura farseschi: il sindaco, infatti, dopo aver deliberato in Giunta la soppressione dell’abbonamento a Repubblica e disposto l’acquisto de Il Giornale e Libero, pungolato dalle proteste di alcuni cittadini ha deciso con una spettacolare giravolta di ripristinarlo a sue spese, ergendosi a campione di tolleranza e magnanimità.
Agli amanti della statistica segnaleremo che, per quanto è dato sapere, il quotidiano incorso con maggiore frequenza in questo genere di incidente risulta la Repubblica; è tuttavia certo (o almeno, sulla base della mia esperienza lavorativa sarei portato a ritenerlo) che in molte altre amministrazioni locali, senza clamori, altre testate magari di orientamento opposto abbiano fatto la medesima fine. Il punto tuttavia non è “quale” testata venga censurata ma il fatto che la selezione di alcune risorse informative diventi il pretesto per la messa in mora del pluralismo in biblioteca, uno dei luoghi deputati alla libera circolazione delle idee. Il problema è dunque di natura culturale, prescinde dagli schieramenti e non risulta nemmeno una novità in assoluto, visto che in molte amministrazioni locali – specialmente nelle piccole realtà – è diffuso il malcostume di sottoporre le liste d’acquisto librario al vaglio preventivo dell’assessore, della commissione o del funzionario di turno.
L’interventismo privo di freni inibitori che si manifesta oggi da parte del potere politico mette a nudo un riflesso d’intolleranza a lungo represso, che non serve più dissimulare sotto una patina di bon ton istituzionale: i poteri assoluti conferiti al sindaco (o al presidente della provincia) dall’ordinamento vigente legittimano il fastidio nei confronti delle opinioni avverse e dei giornali che le veicolano; assurge a regola di comportamento e linea d’azione politica, rivolgendosi contro le persone che nello svolgimento del loro lavoro quotidiano fanno appello a valori, approcci professionali e codici di comportamento difformi dal volere dell’autorità locale.
Prima di Natale un assessore neoeletto in una delle principali province italiane mi ha detto in presenza di testimoni e senza manifestare il minimo imbarazzo che a suo giudizio non è corretto che siano i bibliotecari, soli, a decidere quali libri devono entrare in biblioteca e quali no, perché è noto (cito testuale) “che i bibliotecari sono tutti comunisti”! Ha aggiunto candidamente che riterrebbe necessarie forme di controllo esercitate da apposite commissioni, per verificare indirizzi ed equilibri fra le opposte linee di pensiero. Come dire: la par condicio introdotta in biblioteca con il sigillo delle opposte fazioni. Di fronte a questa rozzezza, a questa eclissi della ragione e del buon senso, è difficile trovare argomentazioni.
Ma il silenzio comporta il rischio della marginalità, e questo non possiamo accettarlo. Se il primo venuto, purché investito di un mandato popolare, può arrogarsi il diritto di misconoscere i principi fondanti di un servizio pubblico e di imporre la propria visione del mondo cancellando le opinioni della parte avversa, significa che siamo ben lungi dall’aver affermato l’idea di biblioteca in quanto “istituzione”. Questa deriva apre la strada alla negazione del ruolo e della deontologia professionale costruiti con fatica nei decenni passati ed evidentemente non ancora consolidati, in base ai quali la professione bibliotecaria non è un ars applicata ma un’attività intellettuale condotta da professionisti che non possono (e non vogliono) essere ridotti a meri esecutori di norme tecniche, standard e regole da applicare asetticamente, senza rapporto con le finalità culturali e sociali delle nostre biblioteche.
Sono queste le ragioni che devono condurci ad essere presenti in massa a Genova il 15 aprile prossimo, per discutere insieme di come rafforzare la consapevolezza del nostro statuto professionale e attraverso quali azioni l’AIB può tutelarlo al meglio.
A Genova io ci sarò. E voi?
Parise@aib.it