[AIB] AIB notizie 21 (2009), n. 5
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Cronache dalla conservazione
6. La prevenzione (seconda parte)

Carlo Federici

Contrariamente a quanto avevo promesso nell’ultima puntata, oggi ci occuperemo soltanto dell’umidità relativa (UR) la quale, essendo la “bestia nera” della conservazione, richiede ampio spazio. Il fatto di essere il nemico principale dei libri dipende da numerosi fattori legati, come al solito, ai materiali: carta, pergamena, cuoio – fanno eccezione soltanto qualche borchia e i rari fermagli metallici che sopravvivono nelle legature medievali – hanno tutti origine organica e costituiscono pertanto un buon substrato per lo sviluppo di microrganismi (cioè organismi viventi non visibili ad occhio nudo; tra essi, batteri e funghi).
Per crescere e riprodursi, i microrganismi hanno bisogno innanzitutto di una certa aliquota di UR (qualcuno dice 65%, qualcun’altro 60, altri addirittura 45%. Per la mia esperienza 65 potrebbe essere un limite accettabile ma, per prudenza, attestiamoci sul 60%). Dunque, quando l’UR supera il 60%, c’è il rischio che i libri vengano attaccati da microrganismi.
Siccome la temperatura favorisce il loro metabolismo – la pasta del pane nella quale si introduce il fungo Saccharomyces cerevisiae (meglio noto come lievito di birra) per lievitare presto e bene si pone in un ambiente tiepido – se essa supera i 25-30°C i rischi aumentano. Comunque, anche in un luogo freddo, se l’UR è elevata, le muffe proliferano (dimenticate un limone nel frigorifero e, anche a 4°, dopo qualche settimana, sarà coperto da una lussureggiante muffa).
Oltre all’UR e alla temperatura, tra gli altri fattori (secondari) che favoriscono lo sviluppo dei microrganismi, troviamo il buio (d’altra parte il suo contrario, cioè la luce, abbonda di controindicazioni come abbiamo già visto), la scarsa ventilazione ecc.

L’altra causa di rischio è di origine chimica: la carta, come tutti sanno, è formata essenzialmente di cellulosa. Attenzione, però, la carta è un sistema assai complesso, non riducibile alla sola cellulosa, come purtroppo molte volte è avvenuto nella gran parte delle ricerche chimiche sulla conservazione della carta.
Trascurare l’apporto delle altre componenti – in primis quello delle sostanze usate per la collatura della carta – è stato un grave errore del passato di cui ancora oggi si scontano le conseguenze. Ciò premesso la cellulosa è una macromolecola (un polimero, come la plastica) naturale, sintetizzata dagli organismi vegetali che, mettendo insieme l’anidride carbonica dell’aria e l’acqua che assorbono dal suolo, formano uno zucchero, il glucosio; due molecole di glucosio danno luogo al cellobiosio, che è il “mattone” (monomero, componente primaria del polimero) fondamentale della cellulosa.
La migliore cellulosa (del lino o del cotone) è composta da qualche migliaio di mattoni di cellobiosio, per quella della carta da giornale ne bastano poche centinaia; ciò spiega, almeno in parte, la durabilità della carta medievale ottenuta da stracci di lino.

Veniamo ora ai rapporti tra acqua e cellulosa. Il fatto che senza acqua non ci sarebbe stata vita, significa che questa piccola molecola, formata da idrogeno e ossigeno, è una meraviglia della natura; su di essa sono stati scritti migliaia di volumi e non provo neppure ad affrontare l’argomento. Sottolineo una sola sua caratteristica: quella di essere una sorta di micro- (anzi nano-) calamita di cui l’ossigeno costituisce il polo negativo e l’idrogeno quello positivo.
Anche nella molecola del cellobiosio ci sono zone ricche di nano-calamite (un po’ diverse, ma sempre basate sulla contemporanea presenza di ossigeno e idrogeno) che attraggono le altre nano-calamite formate dalle molecole d’acqua. Tra acqua e cellulosa vige dunque una sorta di simbiosi, poiché la prima funge da “cemento plastico” (tiene insieme, ma anche lubrifica) per le catene polimeriche della cellulosa.
La cosa si può facilmente verificare prendendo in mano un foglio umido (floscio perché abbondantemente “lubrificato”) e uno secco (lasciato, ad esempio, per qualche ora su un calorifero) che apparirà molto rigido, proprio per la carenza di acqua tra le catene cellulosiche. Un minimo di acqua tra di esse è indispensabile per favorire la loro coesione e dare elasticità alla carta (e prende il nome di “acqua legata”).
Quando ce n’è in abbondanza (“acqua libera”), essa diviene disponibile sia per i microrganismi (i quali possono “abbeverarsi” nelle “pozze” di acqua libera che si creano tra le macromolecole), sia per i processi di degradazione chimica, primo tra tutti l’idrolisi. Per definizione le reazioni di idrolisi (quasi sempre acida, ma esiste anche quella alcalina) della cellulosa non possono avvenire se non c’è acqua.
Sicché, in un ambiente con elevata UR, esse saranno ampiamente favorite.
E questa è l’ulteriore ragione che ci spinge ad abbassare nella misura del possibile, come vedremo, l’aliquota di UR nei depositi di conservazione.

La volta scorsa, trattando della temperatura (T), essa venne definita come un fattore secondario tra i parametri ambientali e in effetti, di per sé, lo sarebbe. Tuttavia, il fatto di intrattenere rapporti assai stretti con l’UR, le conferisce una (relativa) grande importanza. Tra i due parametri esiste infatti un rapporto di proporzionalità inversa: quando la T sale, l’UR scende e viceversa.
La cosa non è di poco conto poiché ciò significa che, se in un ambiente a 20°C e al 55% di UR si verifica un abbassamento della T di 5° (che so, per lo spegnimento notturno dei caloriferi), l’UR salirà a circa il 70%, superando la soglia di rischio. Parimenti però se si innalza la T di un locale freddo da 10 a 20°, si otterrà un repentino calo dell’UR da 50 a meno del 30%. In pratica quindi, per regolare l’UR si può agire direttamente su di essa – umidificando (assai raramente) o deumidificando (ad esempio impiegando un deumidificatore) l’aria – ovvero riscaldando (per abbassare l’UR) o raffreddando (per umidificare) l’ambiente.
Tutto questo è vero però in un locale ideale (vuoto e perfettamente isolato); ma le biblioteche, e specialmente i depositi, sono tutt’altra cosa essendo pieni di libri. Come ormai sappiamo bene, la carta ha grande capacità di assorbire e rilasciare acqua (cioè, allo stato gassoso, umidità): così quando si trova in un ambiente secco (o in uno che, per l’aumentare della T, si va deumidificando), cede la propria acqua libera, mentre in un sito umido, ne assorbe.
Questo assorbire/desorbire vapor d’acqua determina una condizione di instabilità nella carta (dilatazioni, raccorciamenti) che non giovano certo alla sua conservazione. Ciò significa che uno dei compiti dei conservatori di libri – compiti sui quali tornerò la prossima volta – è quello di mantenere per quanto possibile costanti non solo i valori di UR, ma anche quelli di T, non foss’altro per l’influenza che questi ultimi possono avere sull’UR.

Concludo con una piccola nota sulle aliquote di UR da consigliare nelle biblioteche. Ho sempre parlato di carta, ma i libri non sono fatti solo di carta: la pergamena, ad esempio, non ama il clima secco e per essa un’UR intorno al 55% potrebbe essere l’ideale. Ma la gran parte dei depositi librari contiene soprattutto materiali cartacei contemporanei il cui rischio primario è quello dell’idrolisi acida (l’epico, quanto sovradimensionato, slow fire dei nordamericani).
Invece di perdere tempo e denaro con gli assurdi, quanto vani, progetti di de acidificazione di massa (ma ci tornerò in una delle prossime puntate) sarebbe di gran lunga più saggio abbassare le aliquote di UR portandole intorno al 30-35%; ciò determinerebbe una riduzione dell’acqua libera tra le molecole di cellulosa e, conseguentemente, delle reazioni di idrolisi acida.

cfederici@tin.it


FEDERICI, Carlo. Cronache dalla conservazione. 6. La prevenzione (seconda parte). «AIB notizie», 21 (2009), n. 5, p. 14-15

Copyright AIB 2009-10, ultimo aggiornamento 2009-10-14 a cura di Zaira Maroccia
URL: http://www.aib.it/aib/editoria/n21/0514.htm3

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