[AIB] AIB notizie 21 (2009), n. 4
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Sulla conservazione
Lettera del Direttore dell'Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario

Armida Batori

Caro Direttore, seguo sempre con interesse «AIB notizie», in particolare quando affronta il tema della conservazione dei materiali librari e archivistici, che è al centro della mia attenzione, già come Direttore dell’ex Istituto centrale per la patologia del libro e ora quale Direttore del nuovo Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario.
Questa volta Le chiedo ospitalità, pregandola di pubblicare questo mio scritto per offrire un contributo di informazione e di riflessione su una situazione, quella della conservazione della memoria scritta, affrontata da Carlo Federici nelle sue “cronache dalla conservazione”, che ci riguarda tutti da vicino, non soltanto in quanto “addetti ai lavori”, ma specialmente in quanto cittadini italiani, connotati da una precisa identità culturale, alla quale concorre, in misura determinante, la memoria scritta.
Utilizzando come artificio retorico un noto gioco di società ritengo che se Carlo Federici fosse un genere letterario sarebbe un pamphlet.
Infatti, dovendo descrivere una situazione punta i riflettori soltanto su alcuni elementi, che certo sono parte del quadro, e che sono funzionali alla sua brillante argomentazione, ma oscura tutto il resto, e spesso “tutto il resto” è il contesto.
Proviamo a verificare quanto ho appena affermato sulle sue “cronache dalla conservazione”.
Federici afferma, e condivido in toto la sua affermazione, che il problema fondamentale della conservazione dei libri (e dei documenti d’archivio) non è economico, nel senso che il calo delle risorse disponibili, che pure si avverte pesantemente sui bilanci dei nostri istituti, non è il male maggiore.
Poi, compiendo un’acrobazia, logica e cronologica, ci racconta di quanto accadde a Firenze nel periodo post-alluvione, per concludere che i ricchi stanziamenti disposti dal governo per il restauro dei beni librari danneggiati dal tragico evento del 1966, solo in piccola parte furono spesi a Firenze (e tralascio le motivazioni pseudopolitiche), ma in realtà furono dirottati in gran parte sulle biblioteche romane per finanziare restauri, e conclude affermando che «quelle campagne scellerate hanno pesantemente mutilato manoscritti e incunaboli (...), massacrati senza alcuna cognizione di causa da sedicenti restauratori e da bibliotecari che non avevano, né gli uni né gli altri, idea alcuna di cosa fosse il restauro librario. Hai voglia a dire che “allora il restauro si faceva così”».

Certamente a un osservatore esterno sarebbe concesso raccontare così, con fulminea sintesi, la storia di circa trenta anni di restauro librario, dagli anni ’70 al 2000, ma non certo a chi di tutta quella lunga stagione è stato attore e per un certo periodo protagonista, come sappiamo e come ci viene confermato dalla scheda in calce ai suoi articoli: «Carlo Federici si occupa di conservazione e restauro da un po’ più di trent’anni. Ha lavorato dal 1974 al 2002 presso l’Istituto di patologia del libro, di cui nell’ultimo decennio, è stato direttore». Se c’è stato il massacro, di cui parla Federici, i restauri realizzati nelle nostre biblioteche – parlo delle statali, ma non solo – sono stati, nella loro quasi totalità, progettati, spesso eseguiti e sempre collaudati dal personale tecnico e scientifico dell’Istituto di patologia del libro. E questo perché l’ICPL è stato l’istituto che fin dalla sua nascita nel 1938, poi passato alle dipendenze del Ministero per i beni culturali e ambientali per effetto del d.P.R. n. 805/1975, in base all’art. 16 dello stesso d.P.R., ha sempre esplicato funzioni in materia di restauro del materiale bibliografico elaborando linee guida, principi metodologici e tecnici per gli interventi, tradotti nelle circolari emanate dalla Direzione generale di riferimento.
È dunque difficile chiamarsi fuori da una lunga fase, circa trenta anni, del restauro librario nel nostro paese; forse sarebbe più corretto tentare un’analisi storica e ricordare come l’accostarsi, concettualmente, del restauro librario a quello delle opere d’arte e di tutti gli altri beni soggetti a tutela, se pure avvenuto in tempi più recenti rispetto alla diffusione della teoria brandiana in ambito storico-artistico, ha permesso al primo di compiere notevoli progressi, ma con alcune distinzioni.
Per prima cosa, diversamente dall’opera d’arte, per la quale non è prevista la manipolazione, il libro è destinato all’uso e alla consultazione. L’opera d’arte, inoltre, è per sua stessa definizione un unicum; nel campo dei libri si può dire altrettanto solo del manoscritto. Ecco perché l’attenzione di conservatori e restauratori si è a lungo concentrata sul “codice”, soprattutto medievale; ma qualsiasi libro, anche se non antico, può rientrare nella categoria del bene culturale. In tal caso potrà essere oggetto di restauro secondo principi identici a quelli che si applicano all’opera d’arte: rispetto dei materiali e rispetto estetico, rispondendo all’esigenza generalmente condivisa: «raggiungere l’ambizioso scopo di riunire insieme più finalità: salvare dal degrado un’opera, ottenere un risultato che non disturbi il senso estetico, garantire una conservazione futura, il tutto nel rispetto delle caratteristiche dell’opera» (Libri & carte: restauri e analisi diagnostiche, Roma, 2006). Il libro è, infatti, secondo un concetto ormai totalmente acquisito, un insieme costituito sì dal testo che trasmette (e per cui fondamentalmente è stato realizzato), ma anche dalle sue numerose componenti materiali e strutturali.
A queste un tempo non veniva attribuita la giusta importanza che oggi viene loro riconosciuta a seguito di un processo storico e intellettuale avviatosi con gli studi codicologici e paleografici sorti principalmente in area franco-belga, diffusi in Italia anche a opera di Federici, al quale principalmente si deve la istituzione della disciplina della “archeologia del libro”.
La consapevolezza di ciò ha modificato sostanzialmente tutta l’attività di restauro, dalla progettazione alla realizzazione definitiva.
In un’ottica di interventi sempre più mirati e attenti si può dire ormai felicemente superata l’idea che per ogni restauro sia necessario procedere a quelle che un tempo erano diventate operazioni consuetudinarie, ma invasive e spesso non necessarie: lavaggio, deacidificazione, ricollatura delle carte, restauro o esecuzione di una nuova legatura.
Oggi alla base di ogni restauro c’è la progettazione, resa obbligatoria alla fine degli anni ’70. Ogni progettazione va preceduta da una ricerca e da una descrizione di tipo storico e documentario.
La necessità della progettazione si attua attraverso quella che si chiama “scheda-progetto” e va vista in un quadro più ampio che ha ridefinito il significato del restauro librario. Per prima cosa la scheda prevede una parte descrittiva del bene dal punto di vista storico-bibliografico, assolutamente essenziale, in cui il volume viene studiato sotto ogni punto di vista, fattuale e contenutistico, inserito nel contesto del fondo e della biblioteca di appartenenza.
È questa una prassi talmente consueta e consolidata a opera del bibliotecario conservatore che risulta francamente incomprensibile l’affermazione di Federici: «Dove mai un intervento di restauro è preceduto dalla storia del libro o del documento oggetto dell’intervento?!» e sono certa che potrebbero testimoniarlo tutti i bibliotecari italiani che si occupano o si sono occupati di conservazione dalla fine degli anni ’70 a oggi.

Continuando nella mia lettura delle “Cronache” c’è un altro passo che mi vede in completo accordo con Carlo Federici ed è quello in cui si rileva la contraddizione, direi l’errore logico, contenuto nella denominazione del nuovo “Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario”: infatti pone il restauro prima della conservazione, mentre, così come sancito dall’art. 29 del Codice dei beni culturali, la conservazione è concetto più ampio, che ingloba al suo interno l’attività del restauro.
In qualità di Direttore dell’ICPL non sono stata affatto sentita, né mi è stato richiesto un parere dai giuristi e/o burocrati che hanno lavorato al nuovo Regolamento di organizzazione del MiBAC, circa il nome del nuovo Istituto che veniva disegnato, come pure sulla sua missione e sulla sua organizzazione interna.
Se fossi stata sentita avrei detto, come poi ho dichiarato in una intervista al «Giornale dell’arte», se cancellare un “marchio” forte, quella “patologia del libro” che da 70 anni identifica per gli addetti ai lavori in tutto il mondo una precisa realtà istituzionale fatta di tradizione e di eccellenza nel restauro del libro, rappresenti una buona operazione? Forse gli esperti di economia della cultura e di marketing la giudicherebbero un errore.
Ma, ripeto, nessuno si è sentito in dovere di raccogliere un parere “informato” e tecnico su una tematica così delicata e sensibile.

Un altro passo delle “cronache” sul quale mi sento sollecitata a intervenire è che «i bibliotecari si occupano di restauro perché qualcuno li costringe a farlo, insomma obtorto collo».
In qualche modo questa affermazione mi riguarda direttamente, essendo io giustappunto una bibliotecaria alla quale un certo giorno del 2002 venne affidato l’incarico di Direttore dell’ICPL.
Trovo questa affermazione non vera, ma soprattutto ingenerosa nei confronti delle bibliotecarie “conservatrici”, che sono presenti in tutte le biblioteche, che tutti conosciamo, che si sono prese cura della manutenzione e del restauro dei fondi antichi, certo imparando a dialogare con i restauratori “sul campo”, perché la loro formazione non prevedeva conoscenze di restauro, ma alle quali non possiamo certo attribuire “massacri”, in primo luogo perché hanno sempre seguito e applicato le linee guida elaborate dall’Istituto per la patologia del libro tradotte in circolari emanate dalla Direzione generale per i beni librari, e in secondo luogo perché tutte sono fornite di un bagaglio essenziale: una solida formazione storica e umanistica che ne fanno la figura ideale per dialogare con il restauratore “nuovo”.

Infine vorrei dare un contributo di informazione ai lettori sullo stato dell’arte della formazione dei restauratori.
In questo panorama, come tutti sanno, una svolta è stata segnata, nel 2004, dall’art. 29 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42), dedicato alla conservazione che affronta il tema della definizione dei profili di competenza dei restauratori (da definire con un decreto ministeriale) e della formazione.
Presso l’Ufficio legislativo del MiBAC ha lavorato una Commissione, la cosiddetta Commissione Ungari dal nome del giurista che l’ha presieduta, con il compito di predisporre i regolamenti attuativi dei commi 7, 8 e 9.
In attesa dell’approvazione dei regolamenti predisposti dalla Commissione Ungari, e quindi dell’attivazione della Scuola di alta formazione, per dare una risposta alla crescente richiesta di formazione nel campo del restauro dei materiali archivistici e librari, l’Istituto ha stipulato e firmato il 5 giugno 2006 una convenzione con l’Università di Tor Vergata per la realizzazione del corso di laurea magistrale in Restauro dei materiali librari (Re.M.Lib) – Classe LM11.
Lo scorso 4 maggio è stato inaugurato ufficialmente, nella sede di via Milano, il corso di laurea magistrale “Restauro dei materiali librari”: il biennio ha una struttura decisamente innovativa, che prevede un corso di studi sia teorico che pratico. L’Istituto collabora con l’Università fornendo le proprie conoscenze ed esperienze tramite il personale tecnico-scientifico impegnato nella docenza, attivando un laboratorio-scuola presso la propria sede, partecipando all’organizzazione scientifico-didattica e alla selezione dei partecipanti.
Gli elementi caratterizzanti del corso sono i seguenti:
1) il corso è teso a sviluppare specifiche competenze per l’utilizzo dei metodi e delle tecniche più all’avanguardia in relazione alla prevenzione da danni fisico-biologici e alla conservazione e restauro dei materiali librari;
2) la metodologia prescelta prevede che l’insegnamento sia equamente distribuito tra lezioni teoriche ed esercitazioni tecnico-pratiche;
3) l’obiettivo individuato sarà conseguito sia attraverso avanzate conoscenze scientifiche dei materiali che costituiscono libri e documenti, delle loro proprietà fisico-chimiche, della loro struttura e dei loro processi di degrado, sia attraverso l’approfondimento del significato storico-culturale connaturato al bene culturale “libro” e “documento”.
L’urgenza con cui ho deciso di avviare in collaborazione con Tor Vergata il Corso di laurea magistrale “Restauro dei materiali librari” nasce dal fatto che – mentre presso l’Opificio fiorentino e l’ICR sono sempre state funzionanti Scuole di restauro che dal dopoguerra hanno diplomato centinaia di restauratori – l’ICPL ha una storia diversa.
La Scuola di restauro di materiali librari è stata attiva presso la sede dell’Istituto a Roma dal 1977 al 1987, dal 1992 i corsi si sono tenuti a Spoleto, ma oggi la spinta propulsiva iniziale si è esaurita e i corsi si sono interrotti. Nel frattempo alcune Regioni, utilizzando la delega per la formazione professionale, hanno istituito corsi vari per durata e qualità della formazione.
Da quanto ha comunicato il consigliere Pierfrancesco Ungari, che ha partecipato all’inaugurazione, pare che i decreti siano ormai pronti e questo dovrebbe mettere fine a un clima di incertezza sulla professione che ha disorientato i giovani che intendevano intraprendere gli studi per diventare restauratori, ha fatto proliferare corsi che spesso non erano in grado di offrire una preparazione adeguata e di fatto non potevano fornire alcun titolo e ha lasciato senza risposta l’esigenza dei committenti dei restauri di individuare professionisti accreditati.
Per quanto riguarda in particolare la storia recente del restauro dei materiali archivistici e librari è indubitabile che la mancanza di una formazione istituzionale ha privato questo settore di un’intera generazione di restauratori.

armida.batori@beniculturali.it


Ringrazio Armida Batori (d’ora in poi, AB) per l’attenta lettura delle mie “Cronache dalla conservazione”, lettura da cui sono scaturite le puntuali osservazioni alle quali m’è parso opportuno replicare in estrema sintesi individuando quattro temi sui quali le mie opinioni e quelle di AB non convergono.

Firenze, i finanziamenti e le responsabilità del restauro.
Non mi sembra d’aver scritto che il restauro librario “dagli anni ’70 al 2000” sia tutto da buttar via.
Mi riferivo all’esperienza fiorentina successiva all’alluvione del 1966 che considero chiusa con l’istituzione del Ministero per i beni culturali e ambientali e con l’assunzione del personale ex-LAT, quindi tra il 1975 e il 1976.
Tutto ciò coincide con l’anno successivo a quello del mio ingresso nei ruoli della pubblica amministrazione.

Opere d’arte e libri.
Premesso che tra i beni culturali non solo libri e documenti sono soggetti a sollecitazioni fisiche da parte dell’utenza (ma sul tema confido di tornare in una delle prossime “Cronache” trattando della manutenzione), AB sostiene che la teoria di Brandi, concepita per le opere d’arte, è applicabile al solo manoscritto in quanto unicum. Qui AB scivola sull’infido terreno testuale. Nulla di male, accade a molti. Certo, il testo dei diversi esemplari della medesima edizione di un libro a stampa è di norma lo stesso; siccome però i conservatori si occupano della materia e non esistono due fogli di carta identici, tutti i libri sono unica.

Scheda di restauro.
Credo che la funzione della scheda sia essenzialmente amministrativa, se mai di documentazione per il futuro. La descrizione del contesto e della storia del libro vi occupa poche linee, mentre per tentare di ricostruirne le vicende occorrono ben altri spazi (Carte scoperte, lavoro citato nella “Cronaca” sullo studio, supera le 100 pagine).

Bibliotecari e restauro.
Credo che il fatto di avere rivestito la qualifica di “dirigente delle biblioteche pubbliche statali” per oltre la metà del trentennio trascorso al servizio della pubblica amministrazione, nonché quello di aver costantemente mantenuto uno stretto rapporto con i bibliotecari che AB definisce “conservatori” (usando giustamente le virgolette poiché, non a caso, tale qualifica non esiste), mi dia qualche titolo per esprimere un’opinione sull’argomento. Ciò premesso stento a comprendere perché AB si senta in dovere di difendere i bibliotecari dalla colpa (come, con tutta evidenza, ella la considera, ma che ai miei occhi tale non è) di occuparsi di restauro obtorto collo. Ho trattato la questione legandola alla formazione dei bibliotecari del passato e sottolineando che essa non incrociava mai la conservazione.
Mi pare ovvio che, in carenza di una preparazione specifica, si incontrino notevoli difficoltà – e da ciò consegua una più che comprensibile riluttanza – a farsi carico di un soggetto che non si padroneggia pienamente. Non credo peraltro che nel curriculum studiorum della stessa AB, eminente bibliotecaria oggi alla guida dell’Istituto cui sono affidate le sorti conservative del patrimonio archivistico e librario italiano, si trovino precisi riferimenti alla conservazione. Ricordo che, “un certo giorno del 2002” quando prese il mio posto alla direzione dell’Istituto di patologia del libro, AB mi domandò se, a mio avviso, un manager, in luogo di un tecnico, avrebbe potuto dirigere un istituto di tal genere. Confesso che, oggi come allora, continuo a non saper rispondere.

Carlo Federici


BATORI, Armida. Sulla conservazione. Lettera del Direttore dell'Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario . «AIB notizie», 21 (2009), n. 4, p. 24-26

Copyright AIB 2009-07, ultimo aggiornamento 2009-07-30 a cura di Zaira Maroccia
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