Poiché non c’è il vincolo di leggere le puntate precedenti e neppure quello – per coloro che le avessero lette – di rammentarle, accenno concisamente al trait-d’union che consente di non perdere il filo del discorso. Il Codice dei beni culturali (art. 29, comma 1) spiega che «la conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro». Sempre all’art. 29, il successivo comma 6 stabilisce che «gli interventi di manutenzione e restauro su beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici sono eseguiti in via esclusiva da coloro che sono restauratori di beni culturali ai sensi della normativa in materia».
Da ciò discende che i bibliotecari possono occuparsi, ancorché non “in via esclusiva”, soltanto di studio e prevenzione.
Tuttavia il sunnominato Codice, mentre spiega abbastanza bene cosa intende per prevenzione, manutenzione e restauro, non fa cenno alcuno allo studio. Sarà forse perché tutti hanno trascorso una parte della vita applicando la propria mente (e non solo quella) per imparare, conoscere qualcosa; dunque nessuno ignora il significato della parola. Nondimeno qui, nell’articolo del Codice dei beni culturali che si riferisce alla conservazione, esso si trova al primo posto, come una sorta di premessa irrinunciabile e vincolante ai successivi passi in cui dovrebbe articolarsi la conservazione stessa.
Perché il legislatore ha affermato che una conservazione corretta può scaturire solo se alle attività che a essa tradizionalmente si connettono viene premesso lo studio? E in cosa tale studio deve consistere?
Nella prima di queste Cronache («AIB notizie», 20 (2008), 10/11, p. 22) accennavo fuggevolmente al libro-bene culturale e al libro-utensile. Tutti i documenti di un archivio sono beni culturali, ma lo stesso principio non vale per i libri: se i primi infatti devono tutti essere conservati, solo a una ridotta aliquota dei secondi tocca questa sorte. Non è un caso che il Manifesto Unesco sulle biblioteche pubbliche (1994) non comprenda (giustamente, aggiungo io) la conservazione tra i compiti che a esse spettano. Ne consegue che, di norma, i libri delle biblioteche pubbliche non devono essere conservati.
Se la mia parafrasi (la conservazione è il momento metodologico di riconoscimento del bene culturale) del celebre assioma di Cesare Brandi («il restauro è il momento metodologico di riconoscimento dell’opera d’arte») non è del tutto priva di senso, quei libri non sono beni culturali. E questo è il primo punto dello studio per la conservazione: il riconoscimento dello status di bene culturale da cui consegue l’applicazione delle misure conservative. Potrà apparire paradossale, ma non è così semplice “riconoscere” un bene culturale in biblioteca. Sì, certo, è elementare se si è di fronte a un manoscritto (meglio se antico; già con un manoscritto contemporaneo comincia a far capolino qualche dubbio) o un incunabolo.
Comunque, se fino al secolo XVIII non ci dovrebbero essere grossi problemi – tuttavia il Codice dice che i libri sono beni culturali solo se hanno “carattere di rarità e di pregio” (art. 10, c. 4), espressione che non mi è mai stata chiara, nonostante i legislatori la reiterino da tempo immemorabile e che, secondo me, rappresenta la negazione del concetto di bene culturale – già con le pubblicazioni del secolo successivo, il XIX, potrebbero sorgere perplessità.
Non parliamo poi dei libri e dei periodici stampati nei secoli XX e XXI: quali devono essere conservati (a quali tra loro spetta lo statuto di beni culturali)? Certo sono beni culturali le pubblicazioni che vengono (e vennero) consegnate gratuitamente dagli editori alle biblioteche «al fine di conservare la memoria della cultura e della vita sociale italiana» come recita l’art. 1 della recente legge (l. n. 106/2004) sul deposito legale.
Ma per il resto? Sovente accade che per una sorta di “coazione a ripetere” si conservi anche ciò che non dovrebbe essere conservato: nel dubbio, melius abundare... Non è così raro il caso dei magazzini di biblioteche (pubbliche) i cui scaffali siano occupati da raccolte del «Corriere della sera» che dovrebbero essere conservate (conservate per davvero, però, non ammassate senza criterio alcuno) in copia cartacea solo dalle biblioteche destinatarie del deposito legale, magari rendendone disponibile in linea la riproduzione digitale (e non credo che un accordo con gli editori richiederebbe sforzi erculei). Dunque, al primo posto il riconoscimento dello status di bene culturale; subito dopo i contenuti.
Nel merito, studiare per la conservazione vuol dire rendere disponibili a questo scopo tutte le informazioni che riguardano il libro in quanto testimonianza storica.
Va da sé che la grande maggioranza di tali informazioni deriva dalle discipline che da molti anni si occupano della componente testuale (filologia, paleografia, storia dell’arte, bibliologia ecc.) che per il conservatore rivestono un interesse puramente strumentale consentendogli di collocare correttamente il libro nel contesto storico che l’ha prodotto. Al centro della sua attenzione – visto che «si restaura (si conserva) la materia dell’opera» – sta però la storia delle tecniche e dei materiali utilizzati per la manifattura di quell’oggetto, vale a dire l’archeologia del libro.
Più di mille parole (che è appunto lo spazio complessivo di cui dispongo), può essere utile il rinvio a una recentissima pubblicazione nella quale si mette in pratica lo studio per la conservazione. Si tratta di Carte scoperte: il restauro del codice 29 della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova, a cura di L. Granata, Padova: Nova Charta, 2009, ove sono esposte le diverse fasi dello studio che ha “fiancheggiato” il restauro di un manoscritto cartaceo del secolo XV e da cui è possibile trarre qualche stimolante spunto sul ruolo che avranno in futuro i “non restauratori” nel processo di conservazione.
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