La puntata precedente di queste mie sintetiche “Cronache” si chiudeva con la promessa di trattare i mali che affliggono il settore. Ebbene, col trascorrere degli anni mi sono convinto che il problema principale si trovi nella carenza di specifica formazione sia per i bibliotecari, sia per gli operatori del restauro. Tuttavia, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, almeno per i restauratori – penso alla Scuola di Spoleto che si deve all’impegno di Maria Lilli Di Franco, recentemente scomparsa, alla quale va il ricordo di tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di lavorare con lei – qualche passo in avanti si è fatto.
Ho già accennato al fatto che trent’anni fa i restauratori di libri in poco o nulla si differenziavano dai ciabattini: come loro puntavano a restituire funzionalità a un utensile che, ad avviso del committente (di norma un bibliotecario), l’aveva perduta. Che si trattasse di una scarpa vecchia o di un libro antico per il sedicente restauratore aveva scarsa importanza.
Bisognava “riparare” le parti “rotte” e questo egli tentava di fare. Va da sé che, quando c’era, il suo retroterra scolastico raramente andava oltre le classi dell’obbligo. L’altro aspetto era di ordine sessuale – nel senso del genere – dato che il settore del restauro era appannaggio pressoché esclusivo degli uomini (pur avendo letto diversi volumi che trattano di storia del restauro non mi sono mai imbattuto in un nome femminile). Le donne, comunque presenti quantunque in minoranza, vi svolgevano un ruolo del tutto subalterno.
Ma, già nel primo corso avviato a Spoleto nel 1992, su 15 posti vennero ammessi solo due maschi, uno dei quali si ritirò dopo pochi mesi. L’ammissione al corso era subordinata al possesso di un diploma di scuola secondaria superiore, ma una cospicua aliquota di diplomate ha conseguito, durante o dopo il corso, una laurea (solitamente in lettere, assai di frequente in conservazione dei beni culturali). Per non cadere nella trappola generalista preciso subito che, così come nei laboratori di restauro di cinquant’anni fa, potevano capitare individui professionalmente capaci, anche tra le restauratrici del terzo millennio non sarà impossibile trovare qualche “risuolatrice” di libri.
Questa premessa aiuta a comprendere perché il Codice dei beni culturali (art. 29, comma 6) prescrive che «gli interventi di manutenzione e restauro su beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici sono eseguiti in via esclusiva da coloro che sono restauratori di beni culturali ai sensi della normativa in materia». Sebbene, a 5 anni dall’entrata in vigore del Codice, si sia ancora in attesa della normativa in materia, non si può negare che il preambolo fosse buono, ancorché limitato al solo restauratore.
Sulle altre professionalità (dall’archeologo all’archivista, dal bibliotecario allo storico dell’arte, all’esperto scientifico) neppure una parola: solo al restauratore il Codice conferisce una sorta di “privilegio” di eseguire alcune azioni (manutenzione e restauro) e per giunta, in via esclusiva. Tutto ciò può essere giustificato dall’azione che egli svolge, azione che insiste nel “cuore” dei beni culturali modificandone la materia e disponendo di conseguenza – per quanto ho cercato di spiegare nella puntata precedente (Cronache dalla conservazione. 2. Come si conservano i libri oggi? "AIB notizie", 21 (2009), n. 1, p. 23) – della costante possibilità di falsificarne i contenuti di «testimonianza materiale avente valore di civiltà». Da fonte degna di fede, ci giunge notizia che la nuova normativa per le scuole di restauro, attesa per le prossime settimane, prevedrà una formazione affatto inusitata (5 anni di full immersion in un ciclo unico durante il quale almeno il 60% del tempo scolastico dovrà essere dedicato al laboratorio di restauro) che equipara il diploma finale a una laurea magistrale. Non resta che confidare che tali norme valgano erga omnes e che qualcuno le faccia rispettare non solo formalmente.
Fin qui lo stato della questione per quanto riguarda i restauratori (anzi le restauratrici). Per i bibliotecari la situazione è un po’ più complessa e, alla luce del Codice, sembra che le loro competenze in campo conservativo non vadano oltre lo studio e la prevenzione (considerato che manutenzione e restauro, come già detto, spettano “in via esclusiva” ai restauratori). Ne consegue che, se fino a qualche anno fa il bibliotecario era l’indiscusso dominus di ogni fase della conservazione e del restauro – dalla progettazione al collaudo degli interventi lasciando al restauratore solo l’esecuzione manuale – oggi le cose paiono sostanzialmente modificate determinando una riduzione secca delle sue competenze. Non sta a noi giudicare se ciò sia un male o un bene, certo è che prendere in esame (cioè studiare) seriamente un libro in vista della sua conservazione, nonché applicare con scienza e coscienza i principi della prevenzione in biblioteca non è cosa da poco. Spero che nessuno si scandalizzerà se affermo che oggi in Italia alcun percorso formativo dei bibliotecari (lauree triennali, lauree magistrali, scuole, master e via elencando) è in grado di mettere a disposizione gli strumenti per svolgere consapevolmente le funzioni che il Codice attribuisce ai “non restauratori”.
Dipenderà forse dal tragico fallimento dei (falsi) corsi in conservazione dei beni culturali che, negli anni Novanta, hanno desertificato questo settore facendo perdere qualsiasi credibilità non solo all’insegnamento, ma anche – conseguentemente – alla generale reputazione delle pratiche conservative in biblioteca, donde il progressivo azzeramento delle risorse economiche che a tali pratiche vengono destinate. Fatto sta che, malgrado la grande resistenza di cui hanno dato prova finora le nostre biblioteche – a fronte dell’incuria di cui sono state oggetto – i libri, abbandonati a se stessi, non si conservano.
Con questa, si chiude la parte generale delle mie “Cronache”; dalla prossima, inizieremo ad affrontare le questioni che, conservativamente parlando, interessano i bibliotecari, vale a dire lo studio e la prevenzione. Poi passeremo alla manutenzione e al restauro. Concludo sottolineando che l’indirizzo e-mail posto in calce a queste note è un implicito invito per i lettori a entrare nel merito.
cfederici@tin.it