Si è tenuta a Trieste, dal 17 al 20 maggio scorso, la prima edizione di FEST (Fiera dell’editoria scientifica – Science and media fair): una manifestazione ad ampio spettro, sponsorizzata dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia e finalizzata a comunicare la scienza non solo attraverso prodotti editoriali, ma anche grazie a incontri con scienziati e autori, laboratori per bambini, eventi teatrali e musicali, in un’ottica sia di divulgazione sia di approfondimento. L’Università di Trieste figura tra gli enti organizzatori insieme alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati e ad altri istituti di ricerca del Sistema Trieste.
In questa cornice il Sistema bibliotecario di ateneo ha organizzato, in collaborazione con SISSA Medialab, una giornata dedicata all’accesso aperto: “La comunicazione scientifica nel ventunesimo secolo: Google e oltre”. Questa iniziativa si inserisce in una serie di attività di sensibilizzazione e promozione connesse alla recente apertura dell’archivio istituzionale di ateneo (OpenstarTs).
L’incontro della mattina (“Moving scholarly communication into the 21st century”) era mirato al vasto pubblico e ha fruito dell’impatto assicurato dal marchio Google (sala piena, popolazione mista, età media piuttosto bassa). L’ospite speciale, Robert Tansley, vanta una succosa esperienza in ambito OAI, grazie alla quale è stato chiamato l’anno scorso a lavorare su Google Scholar: ha sviluppato l’architettura di DSpace, frutto della collaborazione tra i laboratori Hewlett-Packard e il Massachusetts Institute of Technology, ha fatto parte del gruppo che ha ideato l’OAI-PMH e ha ideato e sviluppato all’Università di Southampton Eprints.org. Di fatto Eprints e DSpace sono i software più utilizzati per la gestione di archivi aperti.
L’intervento di Robert Tansley è stato introdotto da Alberto Salarelli, professore incaricato di Sistemi di elaborazione dell’informazione presso l’Università di Parma, che ha brillantemente edotto la platea sulle questioni più scottanti legate alla circolazione delle idee, al valore dell’informazione e ai nuovi paradigmi scientifici, delineando uno scenario in cui il pensiero si emancipa sempre più dal supporto con cui viene veicolato.
Il documento diviene sempre “meno monumento” e sempre “più strumento” e sfumano i confini della comunicazione scientifica: le caratteristiche formali della produzione e della mediazione informativa si vanno uniformando.
L’aumento esponenziale della quantità di informazioni prodotte e diffuse a un ritmo sempre più incalzante determina vere e proprie “patologie da eccesso di informazione”. L’assunto di baconiana memoria “scientia est potentia” risulta quanto mai attuale e la capacità di recuperare documenti interessanti just in time in un “oceano indiscriminato di materiali” acquisisce un valore straordinariamente strategico.
Ecco che esplode la Googlemania, un business dalle potenzialità enormi.
Non si può e non si deve però delegare a un ipotetico sistema “ideale” il recupero delle informazioni. La prospettiva etica della conoscenza come problema individuale, mirabilmente sintetizzata da Bertrand Russell, è sempre valida e fa sì che non possiamo e non dobbiamo esimerci da una valutazione di qualità; di qui anche la necessità di promuovere l’information literacy e il pensiero critico.
Google è uno strumento fondamentale, ma non esaustivo: rimangono aree non scandagliate, il deep web. Bisogna superare i limiti delle tradizionali interfacce di ricerca, e Google Scholar è un progetto che va sicuramente in questa direzione.
Nessun motore di ricerca però – per quanto “perfetto” – potrà mai recuperare l’informazione migliore in tempo reale per noi: solo noi possiamo realmente soddisfare i nostri bisogni informativi.
Ed è proprio da personali e concrete esigenze informative che è nato l’interesse di Rob per l’information retrieval.
Tutto parte nel lontano 1996, quando per conseguire il PhD si ritrova a frequentare la biblioteca e a recuperare articoli e bibliografie.
Si scontra subito però con un problema fondamentale per uno scienziato: dove sono i dati su cui si basano le ricerche? Come riprodurre i risultati?
Su questo si fonda il metodo scientifico e sicuramente il Web, inventato da uno scienziato per gli scienziati, è uno strumento fondamentale. Qui si innesta il lavoro di Rob a Southampton e ai laboratori HP. Gli archivi – partendo dal preprint server di Ginsparg – hanno determinato una svolta nella disseminazione dei prodotti della scienza.
L’Open Archives Initiative Protocol for Metadata Harvesting ha creato lo standard tecnico per scambiare i metadati e il numero di istituzioni universitarie che hanno un archivio istituzionale in cui i ricercatori possono depositare i loro materiali è in costante crescita. Sono tanti i progetti innovativi che Rob cita – e non si limita a Google Books e Google Scholar!
Ci sono ancora tuttavia problemi da risolvere e sfide da affrontare.
Come descrivere i dati, renderli anonimi quando serve, eppure condividerli in modo da fare progredire il sapere scientifico? Science Commons (un subprogetto di Creative Commons) si occupa tra l’altro delle licenze e dei diritti. Sarebbe necessaria però una peer review dei dati digitali per verificarne l’autenticità, così come bisogna ancora lavorare molto per garantirne la conservazione. Qui si prospettano nuovi possibili compiti per le biblioteche e gli archivi.
Il social tagging (per esempio blog, Wiki, Myspace ecc.) riscuote molto successo soprattutto in ambito giovanile: è interessante che le folksonomie siano generate dal basso, dagli utenti.
Nuove possibilità si aprono con il cosiddetto mash-up, che consente di includere dinamicamente informazioni nei siti con conoscenze tecniche minime.
Sarebbe interessante aggiungere rigore scientifico a questi strumenti, per allargare la comunità scientifica e democratizzare la scienza. Non basta pubblicare i dati scientifici in rete, occorre anche renderli comprensibili, fruibili al vasto pubblico.
Già adesso Gapminder offre gratuitamente la possibilità a chiunque non solo di visualizzare ma anche di interagire direttamente con i dati statistici delle Nazioni unite. L’obiettivo è di arrivare a una scienza open source e democratica, che non venga meno ai principi fondamentali del metodo scientifico sfruttando tecnologie innovative e amichevoli.
Ma è l’utente che fa la differenza: Google fornisce strumenti, non soluzioni, e questo è il messaggio finale della mattinata.
L’evento del pomeriggio (“Unlocking scholarly communication: what is this thing called Open Access?”) era mirato agli addetti ai lavori, principalmente a ricercatori e docenti.
Tuttavia, come spesso accade quando si affrontano queste tematiche, la risposta dei bibliotecari è pronta e per lo più calorosa, quella degli autori un po’ meno (nonostante una buona rappresentanza dell’area informatica).
E proprio da queste resistenze al cambiamento ha preso lo spunto la presentazione di Alma Swan, PhD in zoologia, un tempo dipendente di Elsevier, attualmente consulente di livello internazionale sulla “scholarly communication”. Da rilevare la sua militanza in prima linea nell’attività di lobbying a favore dell’accesso aperto in sede di Commissione europea.
Per sgombrare il campo da luoghi comuni e ansie, Alma illustra le differenze tra i vecchi e i nuovi paradigmi, sottolineando i benefici dell’accesso aperto per gli individui, per le istituzioni, per la società e la scienza in genere, nonché per le economie nazionali.
Infatti, in questi tempi di vacche magre, il maggiore impatto che l’Open Access assicura ai prodotti della ricerca ha delle ricadute immediate e concrete, non esclusivamente teoriche e limitate al puro e semplice progresso scientifico (che di per sé sarebbe comunque un traguardo lodevole e auspicabile).
Se, come Peter Suber ha dimostrato, l’Open Access aumenta le citazioni, il non pubblicare in Open Access implica meno citazioni, quindi una perdita di impatto, che si può calcolare in “vil denaro”.
Contestualizzando in ambito italiano, e restringendo l’analisi all’ateneo locale, Alma calcola, partendo dal budget per la ricerca, che si sono persi solo a Trieste 21,25 milioni di euro in termini di “citazioni sacrificate”. Se si esce dall’Italia e si va per esempio a Southampton, lo scenario è completamente diverso; questo si spiega con la policy locale, che obbliga i docenti e i ricercatori a depositare i propri lavori nell’archivio istituzionale.
Secondo uno studio di Key Perspectives, l’81% dei ricercatori si adatterebbe senza problemi all’obbligo di pubblicare in accesso aperto. Ma allora perché solo il 15% della ricerca è in Open Access?
E perché mai i docenti dovrebbero cambiare il loro modo di comunicare ai propri pari i risultati delle loro ricerche?
A questo punto prende il via una mirabile dimostrazione di “edutainment” di puro stampo anglosassone. Entra in scena Leslie Carr, dell’Università di Southampton per l’appunto, ricercatore in sistemi informativi multimediali, direttore tecnico del locale archivio Eprints (da notare che “Open Repositories 2008” si terrà proprio a Southampton).
Alma dismette i suoi panni soliti e incarna il tipico ricercatore scettico e renitente. Leslie impersona invece l’amministratore dell’archivio, che cerca di controbattere in modo convincente ed esauriente ai soliti dubbi e timori dei ricercatori. Il “mock debate” è spassoso ed estremamente istruttivo e fornisce lo spunto per reiterare i motivi che dovrebbero indurre tutti i ricercatori a “convertirsi” all’accesso aperto.
L’archivio istituzionale garantisce la conservazione e la disseminazione a lungo termine dei prodotti della ricerca (anche di quelli non pubblicati) e va collegato alla valutazione della ricerca stessa. I vari archivi costituiscono una banca dati della ricerca globale, che assicura visibilità, interoperabilità, disponibilità e accessibilità libera, pubblica e permanente.
A coronamento della giornata non poteva mancare un case study concreto, di estrema attualità, relativo a un ambito disciplinare ben preciso, la fisica delle particelle.
Jens Vigen, direttore della biblioteca del CERN, introdotto da Enrico M. Balli di SISSA Medialab, esemplifica lo stato dell’arte della comunicazione scientifica nell’ambito della fisica delle alte energie e illustra il modello proposto per il finanziamento delle pubblicazioni ad accesso aperto, il consorzio SCOAP3 (Sponsoring Consortium for Open Access Publishing in Particle Physics).
Il panorama delle pubblicazioni della fisica delle alte energie è caratterizzato da numeri “gestibili”: il 95% delle pubblicazioni del settore è riconducibile a meno di 10 riviste che fanno capo a 5 editori. La comunità dei fisici da sempre si scambia i preprint e al CERN vengono pubblicati in forma elettronica il 100% dei paper di fisica teorica, il 70% dei paper di fisica sperimentale, ma solo il 30% dei cosiddetti instrumentation paper.
Se l’autoarchiviazione è una pratica diffusissima, la pubblicazione in riviste Open Access risulta non praticabile, per una mera questione di costi: come eliminare le restrizioni per i fruitori e al tempo stesso le barriere per gli autori (che dovrebbero pagare per pubblicare?). Bisogna cogliere l’occasione della divulgazione dei prossimi attesissimi risultati del più grande esperimento di fisica, il Large Hadron Collider, per superare l’attuale modello degli abbonamenti, non più sostenibile, e convertire le attuali riviste di punta del settore in riviste ad accesso aperto.
L’idea innovativa è di creare un consorzio che coinvolga laboratori, comunità, enti finanziatori e biblioteche di settore e che comprenda tutte le nazioni che pubblicano nell’ambito delle alte energie.
Con il contributo congiunto di tutti (in proporzione al pubblicato) si potrà negoziare con gli editori, ottenere clausole di copyright favorevoli agli autori, sfruttare la concorrenza tra le riviste e bloccare la spirale dei prezzi, salvaguardando la qualità delle pubblicazioni.
L’obiettivo è di creare una sinergia tra l’autoarchiviazione e la pubblicazione in riviste ad accesso aperto: la seconda opzione realizza ciò che Stevan Harnard, in un famoso articolo (scritto in collaborazione anche con Leslie Carr), definisce la “golden road to Open Access”.
Le riprese video e le slide degli interventi sono disponibili sull’archivio istituzionale OpenstarTs.
arabito@units.it