[AIB] AIB notizie 19 (2007), n. 3
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Omaggio a Paolo Veneziani

Il 28 gennaio 2007 è scomparso a Roma Paolo Veneziani, bibliotecario e studioso del libro antico a stampa. Il suo nome resta legato alla storia della Biblioteca nazionale centrale di Roma, della quale è stato prima che direttore, bibliotecario e responsabile del Dipartimento Manoscritti e rari.

Luca Bellingeri
Sono sempre stato fermamente convinto che ciascuno di noi lungo l’arco della vita è destinato a incontrare alcune persone, poche, pochissime, che influiranno sensibilmente, dal punto di vista personale o professionale, sulle proprie scelte future e talvolta sullo stesso modo di essere.
Paolo Veneziani è stato ed è per me una di queste e per molte ragioni. Non solo per il lavoro comune svolto nell’arco di quasi un decennio all’interno della Biblioteca nazionale, in una consuetudine quotidiana basata su stima e rispetto reciproci; non solo per quanto in quegli anni ho avuto modo di conoscere e imparare lavorando al suo fianco; non solo per l’amicizia e l’affetto profondi che ben presto ci hanno legato. Tutto questo ha avuto certamente il suo peso, la sua importanza, ma ciò che ha reso così significativo questo incontro, diverso da quelli che abitualmente si instaurano fra colleghi di lavoro, è stato quello che definirei lo “stile” di Paolo, uno stile fatto di competenza, cultura, professionalità, ma anche e soprattutto di laici valori morali, etica, senso dello Stato e, su un piano più strettamente umano, garbo, ironia, signorilità.
Furono probabilmente questi i motivi che portarono molti anni fa Angela Vinay, allora bibliotecaria della Nazionale, a definire il giovane collega “lo squisito Veneziani” e che, in tempi più recenti, hanno reso per me, e per molti altri che hanno avuto modo di frequentarlo e di conoscerlo, così rilevante la sua figura.
Chiunque, anche occasionalmente, abbia conosciuto Paolo sa però quanto fosse lontano da ogni forma di retorica e quanto potesse detestare ogni ufficialità nelle celebrazioni. Gli interventi che seguono cercheranno dunque, nel modo più semplice e diretto possibile, di ricostruirne la figura, nelle sue molteplici sfaccettature di bibliotecario, direttore, studioso del libro antico, amico dell’Associazione, nel duplice intento di farlo conoscere a quanti non ne hanno avuto l’occasione e di ricordare un collega che tanto ha dato con il suo trentennale impegno al mondo delle biblioteche italiane e al quale tanto dobbiamo tutti noi che con lui abbiamo lavorato.

Lorenzo Baldacchini
Nel ricordare Paolo Veneziani è scontato il riferimento alla sua passione per i libri antichi, cui si era potuto interamente dedicare dopo aver lasciato il servizio come dirigente dello Stato.
Vengono alla mente tanti suoi lavori recenti e meno recenti che spesso riemergono sotto forma di estratti di cui faceva dono.
Legato indissolubilmente all’esperienza dell’IGI (Indice generale degli incunaboli delle biblioteche d’Italia), i suoi interessi privilegiavano naturalmente la stampa del Quattrocento.
Ed è piacevole, oltre che sempre istruttivo, risfogliare i suoi articoli, che siano quello sulla prime edizioni delle opere volgari del Poliziano su «Gutenberg Jahrbuch» o quello sui libri di Fulvio Orsini alla Nazionale di Roma su «La bibliofilia».
Certo le persone, quando hanno scritto molto – e la produzione di Paolo è di tutto rispetto – continuano a vivere nelle loro opere.
Ma quello che hanno scritto non riassume tutto il loro mondo.
C’è un universo di relazioni che è fatto di piccole cose quotidiane quali la risposta a un dubbio, una discussione o un semplice gesto, che meriterebbero parimenti di non andare perdute. Oltre a quella per i libri, Paolo coltivava altre passioni: per i cani, per la cucina, ad esempio. E mi piace ricordare anche quest’ultimo aspetto.
Paolo era certamente un grande bibliografo, ma era anche un grande cuoco. Chissà in quale dei due campi si riteneva più abile. La sua fama nel mondo dei bibliotecari romani era tale, anche sotto questo profilo, che quando si aveva la fortuna di essere invitati da Serena e da lui per la prima volta, si arrivava a questo appuntamento pieni di curiosità. Sono passati tanti anni e non è facile far riemergere i ricordi, ma posso sicuramente dire che la fama, anche in questo campo, era ampiamente meritata. Anche nelle cose apparentemente banali, come un piatto di verdurine prima cotte a vapore e poi padellate fino a renderle straordinariamente croccanti. L’abilità dei grandi cuochi si misura spesso sulle cose più semplici, che sono le più difficili a farsi.
E anche in questo Paolo Veneziani rivelava la sua natura di homme cultivé, una specie umana della quale qualche anno fa la rivista «Esprit» registrava la progressiva sparizione. A questa specie apparteneva anche un altro grande amico bibliotecario che ci ha lasciato proprio in questi giorni: Luigi Crocetti.

Gabriele Mazzitelli
Il 10 febbraio del 1986 a Roma nevicava. Una coltre di neve mi aspettava anche a Caserta assieme ai partecipanti al settimo corso di reclutamento per bibliotecari che si teneva presso la Scuola della pubblica amministrazione su incarico del Ministero della pubblica istruzione.
Avremmo dovuto seguire una serie di lezioni, sostenere delle prove di metà corso (sia scritte sia orali), quindi, dopo uno stage presso una biblioteca, discutere una tesina di argomento biblioteconomico. Paolo Veneziani fu il nostro docente di storia del libro. Aveva a disposizione una manciata di ore, che utilizzò con la sapienza di chi frequenta una disciplina con passione e competenza. Personalmente non ebbi dubbi e, sebbene l’argomento che volevo trattare nella mia tesina fosse relativo alla creazione di una sala di consultazione per una biblioteca di slavistica, chiesi al professor Veneziani se avesse tempo e voglia di farmi da relatore. Paolo acconsentì.
E cominciammo così a percorrere assieme una strada che, di certo, il 13 novembre del 1986, giorno in cui discussi la mia tesina a Caserta, non eravamo ancora in grado di immaginare.
Quando nel luglio/agosto del 1988 trascorsi un soggiorno di studio a Mosca, seppure i segni tangibili della perestrojka fossero ben evidenti, era difficile pensare che, solo un anno dopo, il crollo del muro di Berlino avrebbe decretato anche la fine dell’Unione Sovietica. Intanto nel giugno del 1987 ero stato chiamato in servizio presso la Biblioteca dell’Area Biomedica dell’Università di Tor Vergata di cui nel gennaio del 1988 ero stato nominato responsabile. Malgrado la tipologia di biblioteca in cui mi trovavo a lavorare avesse poco a che fare con i miei trascorsi di studente, non avevo, però, dimenticato l’impegno preso nel periodo in cui avevo avuto modo di lavorare “a parcella professionale” (da atipico come si direbbe oggi) presso la Biblioteca dell’allora Istituto di filologia slava dell’Università “La Sapienza”: in ogni caso volevo continuare a interessarmi della sorte dei fondi di slavistica delle biblioteche italiane.
L’occasione per dimostrarlo capitò di lì a poco. Nell’anno in cui Paolo era diventato direttore della Nazionale di Roma, ero stato eletto nel Comitato esecutivo regionale della Sezione Lazio dell’AIB e ne ero stato nominato segretario. Naturalmente era capitato di incontrarsi con Paolo anche negli anni successivi al termine del corso a Caserta, anche perché alla Nazionale lavoravano dei colleghi della mia generazione, incontrati sui banchi del liceo o dell’università, che si andava a trovare per scambiarsi le reciproche esperienze.
In altri anni anche Paolo era stato segretario della Sezione Lazio dell’AIB e vedeva pertanto con simpatia quel mio incarico.
Chiamato alla direzione della Nazionale continuava a dimostrare una sincera stima verso quei giovani che si affacciavano adesso alla carriera di bibliotecari. Ne coglieva l’entusiasmo.
Ne apprezzava lo spessore intellettuale, da uomo di cultura quale era. E soprattutto lo muoveva la curiosità di nuove scoperte.
Andai a trovarlo un giorno nella mia nuova veste “istituzionale” di segretario della Sezione Lazio dell’AIB. C’era da salvare una biblioteca. Assieme all’URSS era in liquidazione anche l’Associazione Italia-URSS, che nel corso della sua esistenza si era dotata di fondi librari di notevole interesse. La Regione Lazio era disponibile ad acquistarla, ma si doveva trovare una sede adeguata in cui trovarle una sistemazione. Vista la natura e anche la grandezza del fondo, la Nazionale sembrava essere la candidata principale, anche perché già conservava la biblioteca privata di uno dei padri della slavistica italiana, Giovanni Maver.
Paolo non ebbe dubbi. Disse subito di sì.
L’operazione, di certo non semplice, andò felicemente in porto.
E fu l’esempio che poté essere seguito anche per la biblioteca “Gogol’” che, dopo complesse vicende, arrivò con le stesse modalità alla Nazionale. Anche in questo caso il consenso di Paolo fu immediato, con l’unica clausola, come disse con la sua abituale ironia, che non avrebbe sopportato «di avere dei pope tra i piedi». Per sua fortuna, se questo accadde, avvenne dopo che aveva già lasciato la direzione della Nazionale.
Ma intanto non si era sottratto, con lo stile e l’eleganza che sempre lo contraddistinguevano, a una visita di cortesia a casa di Anna Maver Lo Gatto, dove incontrammo la presidente dell’Associazione “Gogol’” per fornirle una concreta testimonianza dell’interesse della Nazionale per quella biblioteca che pure così tanta importanza aveva per la storia degli esuli russi in Italia.
Chissà che anche questa visita non abbia contribuito a convincere gli eredi di Anna Maver Lo Gatto che la Nazionale sarebbe dovuta essere la biblioteca in cui conservare anche la biblioteca di Ettore Lo Gatto e l’archivio di Giovanni Maver, come è poi avvenuto in anni più recenti.
Sempre durante la direzione di Veneziani non vi furono nemmeno esitazioni ad accettare il dono della biblioteca di Tomaso Napolitano, studioso del diritto e dell’educazione scolastica sovietica, che andò così a incrementare ulteriormente un settore che ormai stava assumendo delle dimensioni di tutto rispetto.
Nei mesi scorsi, dal 23 ottobre 2006 al 20 gennaio 2007, si è tenuta la mostra “Mal di Russia amor di Roma. Libri russi e slavi della Biblioteca nazionale”, che testimonia di quanta strada sia stata percorsa da quei primi anni Novanta, anche per merito di Paolo Veneziani. A lui l’intera slavistica italiana è debitrice di un impegno che ha consentito di tutelare dei fondi di grandissima importanza. Una foto, in passato spesso riprodotta nell’Agenda dell’AIB, mostra il gruppo di bibliotecari italiani che partecipò alla 36ª conferenza annuale dell’IFLA che si tenne a Mosca nel 1970, in occasione del centesimo anniversario della nascita di Lenin. Tra di loro si riconosce il volto di Paolo Veneziani, allora giovane bibliotecario: chissà che proprio questo non sia stato l’inizio di quella strada che abbiamo in parte percorso assieme.

Francesca Niutta
Paolo Veneziani e la fantabibliografia

L’ultimo libro che Paolo mi ha regalato, a Natale 2006, è I peggiori racconti dei fratelli Grim (di Luis Sepúlveda e Mario Delgado Aparaín, Milano: Guanda 2005). Questi fratelli Grim (non Grimm!) sono i gemelli Abel e Caín Grim, cantastorie della Patagonia, dei quali due zelanti filologi sudamericani si affannano a ricostruire le opere svanite (e strampalate). Lui la chiamava “fantabibliografia”; comprende libri non scritti, o non pubblicati, o perduti, libri possibili e immaginari, sempre a partire da un appiglio storico. È un genere frequentato da scrittori non di poco conto come Rabelais e Anatole France.
Richiede inclinazione per il paradosso, fantasia e competenza storico-bibliografica. Anche Paolo Veneziani si è divertito a praticarlo, su basi rigorosamente scientifiche. Per lui lo studio era indagine e scoperta, in cui amava coinvolgere gli amici; era creazione intellettuale – che non puntava necessariamente a concretizzarsi in prodotto stampato. Tanto che di molti lavori che aveva ideato, e mentalmente portato a compimento, come il Polifilo 2, sono rimasti solo schede, fasci di fotocopie, appunti.
Qualche anno fa, con abilità degna dei falsari dell’Ottocento e grazie alla sua maestria al computer, un po’ per sfida e un po’ per gioco aveva ricreato una pagina di una edizione fantasma, il Donato di Sweynheym e Pannartz, che gabellò con successo come autentica a colleghi e amici. L’esercizio lo aveva appassionato e in seguito con lavoro sottilissimo aveva ricostruito non solo l’aspetto ma anche il testo del Donato.
L’articolo era tutto scritto nella sua mente. Doveva far parte di una raccolta di saggi sulla prima stampa romana alla quale ha lavorato fino all’ultimo giorno, con stoicismo e vivacità intellettuale immutata.

Graziano Ruffini
Ho avuto la fortuna di conoscere Paolo Veneziani nella sua veste di docente di storia del libro presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione, sede di Caserta, nel 1987 quando mi ritrovai a seguire il corso-concorso per il reclutamento di bibliotecari per le università italiane, bandito su richiesta dell’allora Ministero della pubblica istruzione. Ricordo ancora perfettamente il suo tratto umano, le sue doti di studioso serio e capace di trasferire le sue grandi competenze a quanti seguivano il corso, la sua capacità di coinvolgere quanti lo seguivano: prova ne fu – allora – che molti di noi allievi scelsero proprio Paolo Veneziani quale relatore per la propria tesi di fine corso.
Ero allora già impegnato nella redazione degli Annali pavoniani e fu Paolo il primo che ne vide un informe abbozzo presentato appunto come tesi di fine corso: ricordo con particolare nostalgia i nostri discorsi intorno agli annali tipografici e – più in generale – alla storia del libro antico a stampa.
Ricordo la mia iniziale timidezza di fronte a questa persona che sentivi possedere una grande cultura, questa figura di studioso il cui nome, per me, inizialmente, era soprattutto legato al quinto e al sesto tomo dell’Indice generale degli incunaboli delle biblioteche d’Italia (IGI) e a La tipografia a Brescia nel XV secolo, uscito proprio l’anno precedente al nostro primo incontro.
E la timidezza aumentava quando, a suggellare il piacere del rinnovato incontro, ti chiedeva se «ti avrebbe fatto piacere» leggere l’ultimo suo scritto e, alla risposta entusiasticamente positiva, ti consegnava un estratto dal mitico «Gutenberg Jahrbuch» o dall’altrettanto mitica «Bibliofilia».
Se, anni dopo, il mio lavoro sul Pavoni vide poi la luce delle stampe molto doveva all’incoraggiamento di Paolo e al suo supporto, che non venne mai meno.
In seguito, i rapporti persero di frequenza, ma non di intensità: la lontananza fisica impediva quella frequentazione utile alle amicizie e tuttavia ogni incontro, per quanto diluito nel tempo, rinnovava immediatamente i sensi amicali.
Paolo aveva, o almeno a me pareva di cogliere questo tratto in lui, una sorta di particolare attenzione verso i suoi “vecchi” allievi: ho sempre trovato in lui una disponibilità straordinaria: il confronto con lui era sempre occasione di approfondimento di conoscenze, di competenze, che Paolo distribuiva con la generosità tipica dello studioso di grande qualità.
I nostri incontri avvenivano in biblioteca, in quella Biblioteca nazionale centrale in cui, proprio grazie a Paolo, conobbi molti colleghi che ancora oggi ricambiano i miei sentimenti di amicizia, amici che come me si sentono oggi un po’ più soli.

Piero Scapecchi
Lo “squisito” Veneziani, l’appartenente a “una specie [quella degli incunabolisti] in via d’estinzione” ci ha lasciato non solo un profondo ricordo ma anche una serie di insegnamenti che ci sono stati e sono di guida nel nostro lavoro quotidiano.
Il suo nome è legato al mondo degli incunaboli fin dai primi anni della sua attività alla Biblioteca nazionale centrale di Roma (fin dal quinto volume di IGI del 1972 a cui collaborò con Enrichetta Valenziani, Emidio Cerulli e Alberto Tinto) e non fu quello lavoro da poco, dovendosi redigere voci impegnative e complesse, come quelle relative, per esemplificare, alla produzione a stampa di Girolamo Savonarola, di Bartolomeo Socino, di Terenzio, di Tommaso d’Aquino, di Virgilio, di Baldo degli Ubaldi spesso accompagnate da complesse descrizioni per la rarità degli esemplari e per l’incompletezza o la mancanza di dati in altri repertori o cataloghi. Successivamente fu, con accanto Giuliana Sciascia, il responsabile del sesto volume di aggiunte, correzioni e indici edito nel 1982, che portò a compimento l’impresa iniziata quaranta anni prima, che ha dato all’Italia il primato in questo genere di repertori e che permette, in aggiunta, una vasta e importante opera di tutela e valorizzazione dei nostri fondi librari; già allora mise in rilievo, nella Prefazione da lui firmata, il progredire dei dati e delle biblioteche sollecitate a partecipare al lavoro.
Ma la sua attività non si fermò qui avendo lavorato alacremente, per la parte italiana, alla edizione di IISTC (Illustrated Incunabula Short Title Catalogue) fin agli anni Novanta inoltrati, in cui giustamente vedeva la realizzazione del nuovo IGI elettronico con un’importante aumento dei dati a disposizione: dalle 10.446 edizioni presenti nei primi cinque volumi di IGI (a cui si devono aggiungere quelle riportate nel sesto volume) si passa ora alle 11.218 presenti nell’ultima edizione del repertorio elettronico.
Questo continuo impegno e la costante familiarità con gli esemplari del XV secolo gli ha permesso di approfondire le conoscenze e i metodi di studio della stampa delle origini, lasciandoci importanti contributi che ci fanno riflettere e che affinano il metodo di questa parte della scienza bibliografica. A questo proposito basti ricordare il contributo Piero da Colonia e il “Tipografo del Roberto Anglico”, apparso su «La bibliofilia» del 1973, dove mettendo a profitto i documenti pubblicati da Giocondo Ricciarelli, individua e assegna, in base ai caratteri, 31 edizioni stampate a Perugia tra 1472 e 1477/79; un esempio di come si possano utilizzare, con adeguate conoscenze, in campo incunabolistico, i documenti d’archivio.
Soprattutto fu per lui, come per tutti noi, una questione di metodo nel lavoro e nello studio; su questo è tornato in uno dei suoi ultimi saggi Besicken e il metodo degli incunabolisti edito in «Gutenberg Jahrbuch» 2005 dove riflette con passione su “L’aggiornamento del metodo” e sulle specifiche componenti proprie dell’analisi incunabolistica come la filigrana, le illustrazioni, le iniziali xilografiche, fino ai metodi studio dei caratteri elaborati da Proctor e Haebler, offrendo infine un esame dei caratteri utilizzati a Roma da tipografi tedeschi fra Quattro e Cinquecento.
Sapeva che l’incunabolista si forma con una severa preparazione e spesso ripeteva (di fronte a cataloghi malfatti) che era meglio che tante energie, spesso sprecate, fossero rivolte invece ad argomenti bibliografici a noi più vicini nel tempo.
Ma aveva anche la capacità di esporre con chiarezza e semplicità il metodo di lavoro: si possono scorrere, per rendersene conto, le pagine pubblicate su Lo studio degli incunaboli in «Bollettino AIB» del 1983, poco dopo la conclusione del monumentale IGI.
L’ho incontrato spesso, tra Roma e Firenze, sempre acuto, sorridente e disponibile, e così lo voglio ricordare oggi.

Giuliana Zagra
Vorrei ricordare Paolo Veneziani soprattutto attraverso un aspetto che caratterizzò la sua direzione della Biblioteca nazionale di Roma, che mi ha permesso di conoscerlo più da vicino e da cui ho ricavato un grande arricchimento.
Mi riferisco all’attività pubblicistica che egli avviò in Nazionale dal 1990, dando vita a una vera e propria linea editoriale articolata a livelli diversi.
Per tutti gli anni della sua direzione uscì con regolarità una newsletter mensile, frutto della collaborazione di tutti gli uffici nella raccolta di notizie che riguardavano la vita e le attività dell’Istituto e presero vita anche due collane di studi, Studi, guide e cataloghi, dove prevaleva l’intento di fornire sussidi tecnico bibliografici, e BVE quaderni, oggi Quaderni della Biblioteca nazionale. Quest’ultima, del cui Comitato di redazione facevo parte, era nata nella mente di Veneziani come una rivista, e anche se non ne non ebbe mai lo status giuridico, egli la diresse sempre secondo questa recondita impostazione.
Accanto agli approfondimenti sulla storia dell’Istituto e delle sue raccolte e alla valorizzazione delle attività culturali che pure furono molto vitali in quegli anni (pubblicammo ad esempio gli atti del convegno su Giorgio Vigolo e di quello su Ruggero Bonghi) ci furono aperture interessanti al contributo di molti colleghi di altri istituti e studiosi e a temi di attualità per il mondo delle biblioteche.
Questo grande fermento di iniziative nel campo editoriale ci portò tra l’altro a una produzione in pochi anni che, a valutarla oggi, sembra impensabile, viste le scarse forze e le poverissime finanze di cui l’Istituto poteva disporre.
La spinta a impegnarsi con tanta convinzione in tali iniziative nasceva in Paolo Veneziani oltre che da una autentica passione, forse mutuata dai suoi studi sulla tipografia, che lo rendeva un entusiasta e attento coordinatore dei suoi redattori, anche dalla convinzione profonda che un prestigioso istituto come il nostro dovesse svolgere attività di studio e dovesse dotarsi degli strumenti attraverso cui esplicarlo.
Ma fondamentalmente c’era anche il desiderio di valorizzare la professionalità di tanti bibliotecari bravi e competenti che trovarono su quelle pagine la possibilità di esprimersi e la motivazione ad approfondire il proprio lavoro: cito fra tutti i volumi usciti, I fondi, le procedure, le storie, corposo volume sulla storia e il patrimonio della Biblioteca alla cui realizzazione concorsero, era il 1993, un folto gruppo di bibliotecari della Nazionale.
Rimarrà per me uno dei ricordi più indelebili della sua direzione la piacevolezza di certe riunioni di redazione che duravano anche un’intera mattinata, prima di arrivare a definire il sommario di un numero dei quaderni, dove si spaziava a tutto campo sui vari argomenti, quasi come in un salotto letterario con un gusto autentico per la discussione e per il confronto.
Ricordo l’attenzione con cui leggeva ogni scritto che usciva dalla nostra penna (gli articoli, ma anche i saggi dei cataloghi), con quale gravezza lo commentava, con quali parole, mai d’occasione, mai banali, faceva degli apprezzamenti quando era il caso.
Credo di non aver mai più avuto, negli anni a venire, in tutte le attività culturali in cui mi sono impegnata, fuori e dentro l’Istituto, un interlocutore così attento e affidabile, che non si esprimeva mai su qualcosa che non avesse prima valutato e letto scrupolosamente.
Ritengo che questo aspetto, quello di cercare il valore nel lavoro degli altri, di considerare i colleghi interlocutori degni della massima attenzione, sia una grande qualità umana e tanto più importante – anche se rarissima – quando si tratta di un direttore che vuole motivare e stimolare i suoi i collaboratori.
Credo di dovere a Paolo Veneziani, a quello che ho imparato lavorando sotto la sua direzione “editoriale”, anche molte delle iniziative che ho intrapreso in AIB, i convegni organizzati, i quattro anni della direzione di «AIB notizie», le pubblicazioni, e se qualche buon risultato c’è stato in questi anni è sicuramente frutto del suo insegnamento.


Omaggio a Paolo Veneziani. «AIB notizie», 19 (2007), n. 3, p. 6-9.

Copyright AIB 2007-04, ultimo aggiornamento 2007-05-15 a cura di Zaira Maroccia
URL: http://www.aib.it/aib/editoria/n19/0306.htm3

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