Riprendiamo il resoconto-approfondimento del convegno "Il linguaggio delle biblioteche digitali 2: un Manifesto per le biblioteche digitali", organizzato dal Gruppo di studio AIB sulle biblioteche digitali, dalla Provincia di Ravenna e dall’Università di Bologna sede di Ravenna, tenutosi a Ravenna il 10 e 11 febbraio. Come nella prima parte di questa serie di brevi relazioni-interviste, si presenta anzitutto la discussione avvenuta nelle due giornate del convegno, che ha fornito una prima necessaria contestualizzazione a caldo delle tesi proposte e sostenute nel Manifesto. Alla sintesi dell’intervento di ogni relatore segue una domanda, proposta allo scopo di rilanciare, nelle risposte a freddo di chi ha continuato con noi la discussione, alcuni temi critici per la biblioteca digitale verso la prossima tappa congressuale che il Gruppo di studio fisserà per favorire la continuazione e il progresso di un ampio dibattito.
Tavola rotonda coordinata da Tommaso GiordanoTommaso Giordano, deputy director della Biblioteca dell’Istituto universitario europeo, ha aperto l’incontro pomeridiano del convegno e ha poi accompagnato il susseguirsi delle varie relazioni in modo da esaltare un percorso dialogico che, come ha ricordato nel bilancio e nelle conclusioni del pomeriggio, può dimostrare che i discorsi precedenti e successivi alla creazione del Manifesto sono anche più preziosi del risultato finale.
Il primo intenso intervento della seconda sezione del convegno è stato quello di Luciano Scala, direttore generale per i Beni librari e gli istituti culturali del MiBAC.
Dal punto di vista del MiBAC, ha detto Scala, un problema centrale è la definizione delle biblioteche digitali in quanto fornitrici di una serie di servizi alla stregua delle biblioteche tradizionali. Sembra infatti non esserci allo stato attuale la capacità di organizzare le conoscenze e le informazioni con la stessa efficacia che è da sempre nello spirito dei servizi di mediazione delle biblioteche. Il portale Internet culturale dimostra infatti la necessità di procedere alla definizione di una struttura organizzativa tesa a rendere fruibile una vastissima ed eterogenea quantità di contenuti.
Risulta quindi urgente una svolta strategica che prenda in considerazione l’applicazione delle nuove tecnologie digitali alle metodologie delle biblioteche tradizionali. In quest’ottica il Comitato guida per le biblioteche digitali del MiBAC ha stabilito il ruolo di un Comitato di redazione del portale che definisca i metodi e le strategie attraverso cui rendere accessibili, anche a un’utenza non specialistica, molte e differenti informazioni in modo completo e soddisfacente.
In una simile logica di rinnovamento si inserisce anche la recente creazione dell’Istituto per il libro, che sostituisce l’ex Servizio IV per la promozione del libro e della lettura, con lo scopo di dar vita a una prima riforma del settore che porti all’approvazione di una legge organica, configurandosi poi come una struttura autonoma in grado di riunire, attraverso il metodo della collaborazione, i diversi soggetti della filiera del libro.
Risulta quindi fondamentale creare un tavolo comune che favorisca il dialogo tra enti e istituzioni diversi, tra le varie tipologie di biblioteche e le scuole, e laddove questo risulti impossibile, almeno proporre una serie di iniziative che possano stimolare i progressi dei singoli enti.
La domanda che abbiamo posto a Scala si è concentrata, dunque, sul ruolo del Ministero:
Come valutare i possibili effetti di una presa di posizione istituzionale del MiBAC a favore delle biblioteche digitali: può rilanciare o sostenere un quadro di libere iniziative o rischia di rendere normalizzato e poco attraente un percorso già difficile?
«L’intervento del Ministero in materia di biblioteche digitali – ha risposto Scala – mira a definire un contesto, o più precisamente delle linee guida all’interno delle quali le singole iniziative possano realizzarsi in modo omogeneo. In tal senso la cooperazione tra i vari soggetti assume particolare importanza, come del resto emerge già nel documento conclusivo della 3a Conferenza nazionale delle biblioteche, tenutasi a Padova nel 2001, che rappresenta il momento costitutivo del progetto della Biblioteca digitale italiana (BDI). Lo stesso comitato guida della BDI, istituito in quella circostanza, ha in prima istanza proceduto a un’analisi delle politiche del digitale in alcuni paesi europei ed extraeuropei, ribadendo in modo implicito la necessità di una stretta collaborazione a tutti i livelli.
Non parlerei quindi di normalizzazione tout court ma piuttosto di una risposta alla necessità di fornire un quadro di riferimento teso non tanto a rendere attraente un percorso, quanto a rendere fruibili una serie di contenuti su vasta scala evitando duplicazioni, interventi disomogenei e, conseguentemente, spreco di risorse. L’esigenza di assicurare omogeneità ai programmi nazionali di digitalizzazione si inserisce in un più ampio contesto europeo: nel 2001 infatti, nella città svedese di Lund, un gruppo di esperti del settore e di rappresentanti della Commissione europea hanno elaborato alcune raccomandazioni, i Principi di Lund, volte al coordinamento e alla valorizzazione dei programmi nazionali per la digitalizzazione dei contenuti culturali e scientifici. L’attuazione di tali principi conduce oggi all’ambizioso programma di biblioteca digitale europea, ultima fase di un percorso teso al raggiungimento di un obiettivo condiviso».
Particolarmente chiara è stata la visione archivistica del Manifesto esposta da Paolo Buonora, archivista dell’Archivio di Stato di Roma.
Fra le digital libraries, ha detto Buonora, vi sono oggi molti casi di servizi online per documenti d’archivio, con la medesima funzione di offrire a un vasto pubblico un servizio reale, massivo, efficiente. Non bisogna confondere però la natura di attività umane completamente diverse: la biblioteca conserva i prodotti di un’attività intellettuale, mentre l’archivio conserva quelli di un’attività amministrativa; per questo motivo un autore non è un produttore di documentazione, e un titolo non è la denominazione di un faldone d’archivio. Questo comporta un approccio diverso in termini di metadati ma anche di intellectual property righs (IPR), che a rigore non esistono (come "intellectual") nella documentazione d’archivio.
L’esperienza condotta dai gruppi di lavoro della BDI su cartografia, fotografia, bandi ecc., mostra tuttavia che è possibile una integrazione dei sistemi di descrizione tra archivi, biblioteche e musei, sia nello specifico dei materiali speciali, sia più in generale per far dialogare diversi punti di vista senza confonderli e ridurli a un set di metadati comuni. Sia i metadati amministrativi gestionali (MAG) che le esperienze sui DOI (digital object identifier) offrono uno strumento idoneo a limitare il punto di incontro tra questi punti di vista alla gestione dell’oggetto digitale, mantenendo separati gli aspetti descrittivi.
A Buonora abbiamo, in conseguenza, posto la domanda:
Interoperabilità significa adottare uno standard di descrizione comune? Gli archivisti sono più orientati al contesto e i bibliotecari al contenuto?
Buonora ha risposto:
«Il convegno Il linguaggio delle biblioteche digitali 2, ispirato al Cluetrain Manifesto, ha mostrato che il mondo delle biblioteche italiane vive l’esperienza delle digital libraries con una grande apertura organizzativa, tecnologica e mentale. Vi è innanzitutto una dialettica molto positiva tra le iniziative prese a livello centrale da ICCU-BDI e mondo federativo delle biblioteche italiane.
L’interesse per l’utenza più varia spinge poi a non chiudersi in mentalità specialistiche, ma viceversa a considerare comunità diverse e punti di vista molteplici. Questa attenzione a tutto campo alle prassi e alle abitudini operative dell’utenza spingono ad ampliare il concetto stesso di biblioteca includendo letteratura grigia, manoscritti, lavori preparatori e discussioni – insomma, tutto ciò che precede o segue una possibile pubblicazione: in altre parole, l’archivio prodotto dal lavoro autoriale.
Un punto di forza ulteriore delle tesi presentate consiste nell’articolazione tra detentori dei contenuti e fornitori di servizi, i quali interagiscono fra di loro, senza appiattire il patrimonio conservato a un unico servizio possibile ed a una visione unica del contenuto stesso.
Riguardo alla domanda, non si tratta di trovare un minimo di elementi condivisibili e comuni con cui costruire un set di metadati. Ogni descrizione di un oggetto – e non solo quella bibliografica, archivistica o museale – utilizza gli elementi che servono a sviluppare un proprio discorso, e tutti questi elementi sono quindi legittimi. L’interoperabilità deve essere intesa invece come il "passare da un punto di vista all’altro", non nell’assumere in modo riduttivo un punto di vista comune.
Non si tratta quindi di maggiore o minore sensibilità al contesto, ma di contesti diversi: uno stesso oggetto (reale o digitale) può avere contemporanemente un contesto archivistico, bibliografico, museale, e tutti questi vanno descritti secondo gli standard adeguati. I sistemi di descrizione debbono essere quindi distinti da un sistema di accesso (possibilmente unico); l’accesso dovrebbe basarsi semplicemente su identificatori persistenti degli oggetti digitali, e da esso si dovrebbe poter risalire ai vari sistemi di descrizione».
Il terzo intervento è stata l’ampia delucidazione di Claudio Di Benedetto, direttore della Biblioteca del museo degli Uffizi di Firenze.
Di Benedetto ha esordito ricordando che una biblioteca di museo è una realtà integrata, rispecchiando così il quadro delineato nei Principi di Lund e nella tesi 5 del Manifesto. Come altri relatori, ha condiviso la forza della tesi 4 – "le biblioteche digitali sono biblioteche" – e la proposta di mascherare il termine "digitale" in ogni punto del Manifesto ottenendo la piena valenza del lemma "biblioteca" in una sua specifica evoluzione.
Infatti, secondo Di Benedetto, la biblioteca digitale è un punto di arrivo – in questo momento storico e tecnologico – dei servizi che la biblioteca può offrire, ma non è concettualmente diversa da quella che cinquecento anni fa "non aveva altri limiti che il mondo intero", come Erasmo dice dei meriti editoriali di Aldo Manuzio. In altre parole, e con altri riferimenti, la biblioteca non smette di essere "toute la mémoire du monde" come ha ambìto essere in tutto il corso delle sue molteplici vite e forme.
Di Benedetto ha infine fatto autocritica a proposito delle pagine digitali delle collezioni che dirige, disponibili presso host pagati dalla Biblioteca, ma anche presenti – in modo del tutto piratesco – in altri e diversi siti, spesso senza nemmeno la collocazione o altre note identificative di fondo e biblioteca di appartenenza. In sostanza, se la tesi 7 dichiara che le "biblioteche digitali rispettano i diritti di tutti", occorrerà garantire la reciprocità di tale rispetto, regolamentando il copyright d’uso delle copie acquisite da terzi (come succede per le riproduzioni a stampa).
Nella domanda a Di Benedetto abbiamo voluto riportare il punto sul suo esperimento:
Anche in base all’esperimento della mascheratura dell’attributo "digitale", se la biblioteca ribadisce il proprio essere da sempre la biblioteca "di tutto il mondo" può correre il rischio, non separando almeno funzionalmente la biblioteca digitale, di perdere la propria identità piuttosto che accelerare il percorso informativo?
Di Benedetto ha risposto:
«Premetto che ho apprezzato sia l’avvento del Manifesto e le sue formulazioni sia l’incontro di discussione che è stato tenuto a Ravenna. Fra le cose da dire in quell’occasione avevo annotato una riflessione che poi ho sentito fare un po’ da tutti i relatori: che la tesi 4 ("Le biblioteche digitali sono biblioteche") ha una valenza molto forte, anche se parzialmente attenuata dalla dispersione nell’insieme delle tesi, che le conferiscono una specie di sordina, mentre a mio avviso potrebbe essere enunciata al primo posto, quasi a paradigma e sintesi di cosa il Manifesto intenda per biblioteca digitale e come la vorrebbe inserita nella realtà bibliotecaria italiana.
La generazione di bibliotecari cui appartengo, quella che ha iniziato a lavorare tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 (tuttora "in servizio" e priva di ricambi certi e organici), ha assistito – da protagonista, da comparsa o da spettatrice – a enormi cambiamenti nel modo di concepire e gestire la biblioteca.
L’adozione delle RICA e delle ISBD, la nascita, la sperimentazione e l’avvio a regime di SBN, la contemporanea adozione di software diversi e la creazione di piccole e grandi reti, il passaggio dal record bibliografico ai metadati, la cooperazione sempre più estesa a livello internazionale, la centuplicazione dell’editoria professionale… Insomma, abbiamo cercato di evolverci da bibliotecari analogici a bibliotecari digitali. Il risultato per la professione, e ancor più per le biblioteche e i loro servizi, credo sia evidente e non del tutto negativo. Siamo tuttavia in grado di vedere, altrettanto evidenti, i limiti di questi cambiamenti e delle loro conseguenze: nonostante i molti sforzi fatti, il coordinamento di pratiche e risultati non è stato ottimale (basti pensare al proliferare di reti non comunicanti e alla dispersione di una parte del potenziale informativo). Lo stesso sta succedendo, sin dall’inizio, per le biblioteche digitali: troppi eserciti irregolari – al grido di "digito ergo sum" – hanno conquistato in ordine sparso territori sparsi (uso gli aggettivi irregolare e sparso senza un’accezione necessariamente negativa).
E il Manifesto non segna – non può segnare, ovviamente – l’anno zero della biblioteca digitale, né può portare ordine, a breve, nella disseminazione di iniziative non coordinate. Credo però che l’aggettivo "digitale" non debba essere sovraccaricato di significati snaturanti la biblioteca, né identificato con la panacea dei nostri problemi o con la soluzione di modelli di servizio non risolti.
Ci sono voluti secoli per la nostra attuale e transitoria concezione di biblioteca, per le nostre attuali e transitorie certezze (per esempio, a proposito di repository: quanto tempo è occorso per arrivare agli scaffali metallici da quelli lignei, alla collocazione in verticale dei volumi da quella orizzontale?).
La biblioteca digitale è una evoluzione – inaspettatamente complessa e controversa – ma assolutamente funzionale al servizio che la biblioteca rivendica come basilare: la circolazione dell’informazione, la sua rapidità, la sua univocità. E questo è bene che lo facciano proprio le biblioteche – anche in cooperazione con altri soggetti produttori e mediatori – piuttosto che lasciarlo fare solo a soggetti produttori e mediatori».
Successivamente ha esposto la propria visione Andrea Marchitelli, coordinatore del Gruppo di lavoro AIB sul lavoro discontinuo.
Marchitelli ha ribadito come a partire dai primi anni Novanta si cominci a descrivere il ruolo di bibliotecari e documentalisti nel nuovo mondo dell’informazione mediata dal computer, che va affermandosi. Con gli anni, la riflessione su queste tematiche non è scemata, anzi si è arricchita di nuovi e interessanti spunti di riflessione.
L’avvento del World Wide Web, l’esponenziale diffusione di tecnologie e risorse derivate e legate al web e dunque la nascita delle prime biblioteche digitali, spingono i bibliotecari a misurarsi sempre più con questa nuova realtà. L’evento che potrebbe verificarsi, che forse è già in atto, è quello di un’evoluzione, alcuni potrebbero dire snaturamento, delle figure professionali che si muovono nel mondo dell’informazione.
Nel suo intervento, Marchitelli ha poi tratteggiato alcuni elementi del dibattito professionale di questi anni, tentando anche di immaginare che cosa ci riservi il prossimo futuro.
A Marchitelli abbiamo poi chiesto:
Il cybrarian è una figura positiva e progressista, o negativa in quanto mista, o peggio, nata in fretta dalla pur giustificabile ansia dei giovani bibliotecari di introdursi nel mondo del lavoro, senza una vera comprensione dello sviluppo della biblioteconomia verso il servizio digitale?
Marchitelli ha risposto:
«Sarebbe bello che i giovani bibliotecari potessero introdursi nel mondo del lavoro attraverso il ruolo di cybrarian; purtroppo si tratta di una figura che in Italia ancora esiste pochissimo, quasi per niente.
Si tratta, infatti, di un professionista che ha solide basi teoriche di ambito biblioteconomico e documentale, ma che a queste aggiunge alcune competenze dell'ambito tecnologico (la scienza dell'informazione, che in Italia ci è stata strappata via dagli informatici) e, soprattutto, abilità nella gestione delle relazioni umane. Secondo Bauwens, l'autore del Manifesto dei cybrarian, infatti, le competenze richieste a un cybrarian, oltre a quelle legate alla ricerca di informazione in rete, sono abilità legate alla capacità di fare gruppo e competenze di ambito sociale e relazionale.
In questo senso, la poliedricità del cybrarian corrisponde a quella del mondo dell'informazione elettronica in cui egli si deve muovere: una figura assolutamente positiva, dunque, e pronta a rispondere ai bisogni informativi, sempre diversi, degli utenti».
La relazione conclusiva è stata l’energica esposizione di Anna Maria Tammaro, docente dell’Università di Parma.
All’inizio della relazione Tammaro identifica la problematica della biblioteca digitale nella riorganizzazione del ruolo di mediazione, constatando come il ruolo tradizionale di mediazione sia attualmente carente nei progetti delle biblioteche digitali, dove ad esempio i virtual reference desk non sono altro che pagine di raccolte di link e non servizi di reference, oppure nei depositi di risorse digitali che vengono realizzati, dove i servizi sono delegati completamente agli strumenti tecnologici.
Nella riorganizzazione del ruolo della biblioteca, continua Tammaro, bisognerà chiarire quale è l’oggetto della professione: la collezione o i servizi d’informazione? Nella biblioteca ibrida italiana vige ancora un modello di azione just in case, che combinato con la disintermediazione del servizio trasforma la biblioteca in un deposito e la allontana dall’utente. La biblioteca dimostra allora di non prendere veramente in considerazione le esigenze e gli interessi dell’utenza. Così i servizi sono limitati alla pubblicazione su web, attraverso la realizzazione dei portali, ma non si orientano veramente verso chi li dovrebbe utilizzare, e nonostante si parli sempre di tale orientamento non si stabilisce mai quali sono e come realizzare realmente i servizi per il pubblico.
Nel Manifesto bisogna evidenziare che manca l’orientamento verso l’information literacy, non come vago supporto all’educazione alla lettura, ma come vero e proprio servizio che sia di sostegno alla formazione per tutta la vita. Anche il principio della cooperazione per la migliore progettazione e realizzazione dei servizi sembra essere svanito, e nel Manifesto il criterio di coordinamento auspicato appare solo come un rifiuto della centralizzazione senza proposte di riaggregazione. Forse si può dire che sono stati fatti passi indietro rispetto alle biblioteche tradizionali, che avevano da poco raggiunto l’obbiettivo della centralità dell’utente.
Le biblioteche digitali, si chiede dunque Tammaro, sono data provider o service provider? Bisogna chiarire proprio questo punto, in modo da orientare i principi e le attività di mediazione delle biblioteche digitali veramente attraverso il "focus sull’utente".
Abbiamo chiesto a Tammaro:
Se la biblioteca tradizionale ha in buona parte raggiunto l’obiettivo di centrare tutto intorno all’utente, nelle biblioteche digitali dove risiede il problema che fa compiere "un passo indietro" su questo stesso obiettivo: nella trasformazione degli oggetti documentari? Nei nuovi bibliotecari disattenti al focus del servizio? O nei nuovi utenti, i cui comportamenti ed esigenze sono ancora poco chiari?
Tammaro ha riposto:
«Ci sono diversi approcci alla biblioteca digitale che sono stati intrapresi: focalizzare i prodotti, i processi o i servizi e sistemi. La mia opinione è che le biblioteche, nella difficile transizione, abbiano focalizzato i prodotti, assumendo un ruolo essenzialmente editoriale, sia nella produzione digital born sia nella conversione da analogico a digitale. Perchè? I motivi possono essere a diverso livello.
A livello internazionale, la tendenza dell’Unione Europea nella visione della società dell'informazione è quella di distinguere i contenuti dai servizi. Opinione diffusa è che le biblioteche sono contenitori o depositi; i privati dovrebbero invece offrire servizi. A questo si aggiungono le difficoltà a cui tra breve le biblioteche dovranno rispondere in seguito all'accordo WTO GATS, che vede i servizi culturali soggetti alle leggi del mercato e quindi della concorrenza.
La stessa tendenza è anche nella comunità professionale. In particolare il ruolo di mediazione che le biblioteche si propongono ha diverse interpretazioni: o viene orientato agli oggetti nella collezione o alle persone che fruiscono dei servizi. Il diverso orientamento significa anche diverse politiche di servizio. Uno più concentrato sull'organizzazione della conoscenza, attraverso i cataloghi, uno più focalizzato sui bisogni delle persone e sulla comunicazione.
Infine, il problema è legato alla ricerca e alla didattica nella biblioteconomia. In Italia l'opinione più diffusa sembra sia quella che l'apprendistato e la pratica professionale siano sufficienti per gestire bene i servizi, digitali o non. Tuttavia proprio i momenti di cambiamento come la transizione al digitale rivelano l'assoluta necessità di un orientamento, sapere quale è il nostro ruolo, avere dei metodi di ricerca e di approccio che distinguono un professionista da un praticante.
Il tema dei valori indicato da Gorman è quello su cui dibattere, ma non per rifiutare acriticamente il cambiamento. Nella ricerca abbiamo un approccio o storico o di accettazione passiva da altre discipline. Un'analisi anche sommaria della letteratura professionale potrebbe evidenziare la carenza di studi sull'utenza.
Complessivamente, tutto quello che riguarda il digitale, viene rifiutato come un approccio deterministico e meccanicistico: tutto è hardware, tecnologia. In questo momento la consapevolezza del cambiamento nella transizione al digitale tra i professionisti sta mutando, anche grazie a progetti europei come Minerva e a progetti nazionali come la Biblioteca digitale italiana.
Tuttavia occorre diventare dei professionisti che riflettono, avere flessibilità, guidare il cambiamento non esserne sopraffatti.
Ritornando in conclusione alla frase iniziale, il focus è sui prodotti, sui processi e sui sistemi. La comunità si è focalizzata sui prodotti (contenuti e metadata). Circa i processi ci si limita ad accettare la visione degli informatici basata sull'information retrieval: cioè la visione della biblioteca digitale è ancora metadata e search engine.
Tuttavia questa visione è limitante lo sviluppo di vere biblioteche digitali. I processi puntano all'integrazione e all'interoperabilità che non si basano solo sulle tecnologie ma invece impattano sui contesti sociali.
Infine i servizi: siamo convinti che bastino i motori di ricerca e i portali? Quale personalizzazione siamo in grado di offrire e a chi? Qui il discorso è aperto e sarà il primo campo di prova in cui dovremo concentrare l'attività di ricerca, i corsi professionali e di aggiornamento. La posta in gioco non è da poco: ne va della sopravvivenza dei bibliotecari, senza esagerazione!
Ci stiamo anestetizzando, dicendo che tutto resta uguale, cambiano solo i supporti e forse c'è più da catalogare? Oppure il nostro ruolo viene notevolmente aumentato in questa società della conoscenza? Come possiamo contribuire attivamente allo sviluppo di questa società, usando anche tutte le opportunità del digitale?
Vorrei concludere con queste domande aperte, ma lancio un'ulteriore provocazione: e se il nostro ruolo non fosse più solo quello di mediazione ma diventasse un ruolo di educatore? In conclusione quindi, per avere delle biblioteche digitali di sicura utilità per i nostri utenti, per avere cioè un approccio sui servizi, bisognerà discutere sul ruolo della professione e chiarirsi i fattori in gioco».
Claudio Leombroni, responsabile del Servizio Biblioteche e comunicazione della Provincia di Ravenna, nonché vice presidente dell’AIB, ha aperto e coordinato la seconda giornata di discussione. Come cifra generale del dibattito Leombroni ha ribadito che la biblioteca digitale deve ereditare dalla biblioteca tradizionalmente intesa la specifica attenzione all’utenza, tentando per questa via di trovare la propria identità. L’invito dell’AIB al Gruppo di studio sulle biblioteche digitali è stato quindi di lavorare il più possibile alla concretizzazione delle tesi del Manifesto in tale direzione.
Importante relazione di apertura è stata quella di Jacopo Di Cocco, direttore del Centro interateneo biblioteche dell’Università di Bologna.
La biblioteca digitale dell’Università di Bologna, ha spiegato Di Cocco, si chiama Alma Digital Library, e ha già realizzato molti dei principi indicati nel Manifesto. L’Alma DL è considerata come una biblioteca reale, con le relative difficoltà materiali, è collegata a reti di altre biblioteche digitali, ed è infine un "gabinetto di pubblicazione": allo stesso modo delle biblioteche medievali pubblica come un gabinetto di copiatura, quindi la digitalizzazione interessa solo marginalmente e lo scopo principale è piuttosto indurre i docenti dell’Università a mettere a disposizione i materiali da loro prodotti tramite l’Alma DL.
L’Alma DL ha però alcune difficoltà, continua Di Cocco, nella realizzazione del principio della tesi n. 7 del Manifesto: il raggiungimento del giusto equilibrio tra l’interesse dei detentori dei diritti sulle pubblicazioni digitali e quello degli utenti all’accesso libero e completo; infatti le politiche commerciali rappresentano un freno all’azione della biblioteca digitale. Altre difficoltà pone la realizzazione della tesi n. 8, sull’interazione con la comunità di utenti a cui la biblioteca digitale si rivolge, in quanto è sempre difficile fare pienamente parte dei "tavoli di lavoro" comuni. Difficoltoso è anche il rapporto con la tesi n. 26, che definisce la cooperazione come mezzo per la conservazione del vasto patrimonio digitale, per cui si conta nella collaborazione con le biblioteche nazionali. Nella tesi n. 27, infine, il Manifesto punta sul "portale nazionale delle biblioteche digitali", e in tal senso Alma DL guarda verso il progetto Pleiadi, teso alla realizzazione dell’harvesting in modo alternativo ai grandi portali commerciali.
Per Di Cocco ci sono, in conclusione, alcuni punti del Manifesto che necessitano un ampliamento e una continuazione, quali ad esempio: i rapporti internazionali tra le biblioteche digitali di diversi paesi, l’accesso non anonimo e generico degli utenti, l’equilibrio con il diritto d’autore e il copyright, la valutazione dell’impatto di lettura dei documenti disponibili, la funzione di guida e di formazione permanente per l’utente.
La domanda rivolta a Di Cocco ha riguardato una delle debolezze indicate:
Come potrebbe essere definita la "dimensione internazionale" che sembra mancare nel Manifesto, in termini di strumenti tecnici, di sviluppo di linee teoriche o di scambi operativi?
Di Cocco ha risposto:
«Il Manifesto è un documento intelligente che può servire a generalizzare i contenuti delle biblioteche digitali, in particolare tra quelle nate su iniziativa ministeriali per la salvaguardia e valorizzazione del patrimonio storico e quelle accademiche volte prioritariamente ad acquisire materiale scientifico e documentale contemporaneo edito da editori commerciali o meno e a diffondere i risultati della ricerca nelle stesse istituzioni proprietarie delle biblioteche digitali e i loro consorzi.
Il convegno ha fatto emergere anche un interesse verso le biblioteche digitali da parte degli enti locali, titolari della maggior parte delle biblioteche pubbliche. La pluralità e diffusione delle biblioteche digitali necessita di personale specializzato, distribuito sul territorio sia per organizzare il servizio secondo la politica culturale dell'ente proprietario, sia per assistere gli utenti nella selezione del materiale disponibile in rete, sia per sostenere le pubblicazioni sui siti istituzionali dei singoli enti. Quindi ha aperto un utile dialogo interistituzionale e interprofessionale.
Le biblioteche digitali operando in rete non possono che essere internazionali sia per l'aspetto dello sviluppo e dell’utilizzo delle collezioni, sia per la diffusione dei propri materiali. Questo richiede l'uso di strumenti tecnici e descrittivi aderenti a standard mondiali sia per le attività di acquisizione, ricerca e utilizzo sia per le attività di offerta. Le politiche di sviluppo e gestione delle biblioteche digitali devono essere individuate e graduate in modo da partecipare al dibattito e ai progetti internazionali (esemplare l'azione di UKOLN in Gran Bretagna, ma anche altri paesi di diverse dimensioni e aree geografiche, dal Canada all'Australia, dagli USA alla Danimarca, sono molto attivi in questo settore).
Ribadisco, solo l'adesione a standard e circuiti internazionali di servizio consentirà quella reciproca visibilità, essenziale per cogliere le opportunità che la società dell'informazione offre e restare protagonisti del dibattito culturale e scientifico. Dibattito che oggi non può che essere globale in tutti i sensi».
Il secondo interessante intervento è stato quello di Marco Paoli, direttore dell’Istituto centrale per il catalogo unico del MiBAC.
Con il programma della Biblioteca digitale italiana, ha detto Paoli, nel 2001 l’ICCU si avvicina alla questione delle biblioteche digitali, per svolgere un ruolo centrale nella digitalizzazione dei contenuti e per indirizzare i progetti di altri enti. Nel 2005 viene avviato anche Internet culturale, portale per l’orientamento nel mondo dell’informazione digitale. Nel progetto dell’ICCU le biblioteche digitali entrano quindi a far parte di un ampio programma per la comunicazione e lo scambio di esperienze.
In tutto questo, l’azione dell’ICCU si può trovare in sintonia con il Manifesto delle biblioteche digitali e ne approva i principi. Almeno 16 tesi si avvicinano ai criteri del portale Internet culturale, ad esempio: la tesi 2, sui servizi integrati agli utenti che anche il portale vuole realizzare; la tesi 3, che conferma la promozione della conoscenza come principio per l’ampliamento dell’esercizio dei diritti; la tesi 5, che trova convergenza di principi con il portale nell’ottica di integrazione e cooperazione tra enti diversi; la tesi 6, che concorda con il principio del network per la conservazione e la diffusione dei documenti; la tesi 7, con la proposta di un riequilibrio tra gli interessi dei detentori dei diritti sui documenti e gli utenti; la tesi 9, avversa al centralismo, che è apprezzata in quanto un nuovo obbiettivo dell’ICCU è svecchiare le politiche centralistiche; la tesi 11, sull’allargamento dell’utenza potenziale combattendo il digital divide; la tesi 19, che propone un unico sistema di ricerca per materiali eterogenei così come consente il portale Internet culturale; la tesi 20, che propone l’uso di protocolli standard di cui si serve anche il portale; ancora, le tesi da 17 a 23, sulla disponibilità e l’accessibilità agli utenti, si allineano allo scopo del nuovo portale che aggrega e rende disponibili molti documenti; la tesi 24, che pone il focus sugli utenti, può rappresentare la mission del portale Internet culturale, che ha come obiettivo il servizio a un utente molto variabile, dallo studente elementare, allo studioso, al turista; la tesi 14, sulla trasparenza dei finanziamenti, invece, non sarebbe necessaria, se non richiamando l’economicità del processo produttivo pubblico.
Altro parere essenziale per la discussione è stato quello esposto da Vincenzo Santoro, rappresentante dell’Associazione nazionale comuni italiani.
Santoro ha iniziato presentando la situazione dei diversi comuni italiani, i quali hanno tutti risentito di tagli e restrizioni alle possibilità di spesa che in vario modo peseranno sullo sviluppo di nuovi progetti nel campo bibliotecario (sia per quanto riguarda il livello dei servizi e il rinnovamento delle strutture, sia per lo sviluppo del patrimonio e i progetti speciali come quelli che riguardano le biblioteche digitali).
L’Associazione nazionale dei comuni italiani, insieme all’Unione delle province italiane e al Coordinamento delle Regioni, sta comunque tentando di definire alcune linee d’azione sulla politica bibliotecaria, con un documento di intenti intitolato Linee di politica bibliotecaria per le autonomie. Un gruppo di lavoro, in particolare, si sta dedicando ad alcune questioni prioritarie, tra cui: la definizione dei profili professionali; la costruzione – in accordo con le università – di un sistema di accreditamento dei corsi di studio; la realizzazione di un sistema di monitoraggio nazionale dei servizi resi dalle biblioteche di pubblica lettura; e soprattutto l’attivazione di politiche concrete che permettano l’estensione del servizio bibliotecario a tutti i territori (e quindi in particolare nei piccoli comuni).
Le autonomie hanno adesso un forte carico di competenze da gestire, dice Santoro nelle conclusioni, e la soluzione per garantire ai cittadini servizi più qualificati sembra essere quella di trovare le migliori modalità di coordinamento per definire le azioni da compiere e implementare efficaci forma di collaborazione. Alcune iniziative in questa direzione, su cui si sta attualmente lavorando, sono collegate alla promozione del libro e della lettura.
Il nuovo Istituto per il libro del MiBAC infatti, con cui l’ANCI sta preparando per ottobre una grande iniziativa diffusa su questi temi, sembra proporre un efficace sistema di raccordo decisionale fra i vari soggetti istituzionali. È auspicato inoltre un coordinamento con l’attività dell’AIB, che consenta di fondare stabilmente una politica culturale più centrata sulle biblioteche.
La nostra domanda ha voluto approfondire un aspetto peculiare:
Anche negli enti locali piccoli sarebbe utile un teorico, non bibliotecario ma biblioteconomo, altamente istruito nelle scienze biblioteconomiche, che sia in grado di concepire progetti e obiettivi ben oltre i problemi pratici, soprattutto in direzione dei progetti di rinnovamento e collaborazione digitali?
Santoro ci ha risposto:
«In questi anni le strutture comunali stanno vivendo un forte rinnovamento, dovuto alla necessità di applicare le nuove tecnologie informatiche e telematiche ai processi amministrativi, allo scopo di fornire i servizi ai cittadini con più efficienza ed efficacia. Questo processo comporta forti cambiamenti, sia per le dotazioni di risorse fisiche, sia nella richiesta di competenze e di capacità operative dei dipendenti (e forse un po’ anche degli amministratori), chiamati a gestire queste innovazioni.
Da questo punto di vista, è chiaro che proprio il settore delle biblioteche e dei "servizi di informazione" al cittadino, per le sue caratteristiche specifiche (applicazione massiccia delle tecnologie ICT, forte integrazione in reti diffuse ecc.), è uno di quelli in cui maggiore è la necessità di avere competenze tecniche di alto livello.
D’altra parte, anche per la difficile condizione delle finanze degli Enti, mi pare difficile che i singoli comuni più piccoli possano permettersi figure simili. È più probabile che per soddisfare questi bisogni ci si avvalga di competenze esterne, oppure, com’è auspicabile, che si proceda sulla strada delle forme di coordinamento fra Enti (a cominciare dalle Unioni di Comuni), in cui anche le competenze professionali più avanzate possono essere messe a disposizione di aree territoriali più vaste».
Relazione conclusiva della mattinata e con la quale si è concluso l’intero convegno è stata quella di Laura Tallandini, docente dell’Università di Padova.
Caratteristica delle biblioteche di università, ha detto Tallandini, è l’acquisizione della risorsa informativa avanzata: esse debbono rispondere a un profilo definito da patrimoni informativi di forte spessore ed estensione, adeguati a un’utenza di istruzione tale da interagire competitivamente con la comunità scientifica internazionale. Il mantenimento di questi patrimoni richiede un cospicuo impegno finanziario e progettuale verso le risorse informative, l’evoluzione di servizi avanzati, la risorsa umana e le strutture logistiche.
L’avvento della IT, delle risorse digitali e dei cataloghi in linea in oltre il 90% degli atenei, ha permesso la visibilità e, in parte, anche l’accessibilità in rete al patrimonio delle biblioteche di università, anche oltre il mondo accademico. Ciò ha attivato un forte interesse da parte del territorio e reso possibili numerosi casi di cooperazione dei sistemi bibliotecari di ateneo con i sistemi bibliotecari territoriali e con le biblioteche statali, confermando l’importanza di positive alleanze.
L’ultimo decennio ha visto un forte impegno nello sviluppo della biblioteca digitale, con una trasformazione profonda delle modalità di accesso alla risorsa informativa, richiedendo nuove progettualità, il riorientamento delle risorse umane e ulteriori investimenti finanziari. Il sistema bibliotecario delle università è oggi fortemente impegnato nella messa in opera di strumenti per un’integrazione tra tutte le risorse informative, in modo da consentire all’utente l’accesso, la navigazione e la ricerca indipendentemente dalle diverse piattaforme tecnologiche utilizzate: uno sviluppo, questo, che costituisce un’infrastruttura di supporto alla "società della conoscenza".
Il forte ostacolo alla fruizione delle risorse informative, ha affermato ancora Tallandini, deriva dai costi cospicui che gli atenei devono sostenere per acquisire l’informazione e dai contratti che non permettono la liberalizzazione degli accessi. Gli editori scientifico-accademici, contestualmente allo sviluppo della biblioteca digitale, hanno lievitato i prezzi a dismisura e imposto una contrattualistica tendente a eliminare il fair use. Le durissime condizioni del mercato dell’informazione hanno attivato il movimento open access che tuttavia, sconvolgendo in buona parte il sistema consolidato della pubblicazione scientifica, fatica ad affermarsi.
Le attività open access si presentano come una prospettiva in grado di contrastare l’attuale situazione di difficoltà di accesso alle informazioni per due vie: contenendo la deriva dei costi e sottraendo ai grandi editori il controllo esclusivo della informazione avanzata. Molti atenei hanno individuato nello sviluppo dei repositories istituzionali lo strumento open access in grado di rendere evidenti le loro attività e prontamente disponibili i risultati dei lavori prodotti. Molto lavoro è in corso per sviluppare con efficienza anche questa componente strategica per la biblioteca digitale.
La domanda che abbiamo tenuto a inviare è stata questa:
Per stabilire con gli editori i contratti e la politica dei diritti in maniera da consentire l’accesso a tutti, potrebbe essere una soluzione un saldo rapporto trasversale tra università ed enti locali che consenta di creare meccanismi per l’aggiornamento permanente fruiti tramite le biblioteche pubbliche con accesso ai database delle biblioteche delle università?
La risposta di Tallandini è stata puntuale ed esauriente:
«Vorrei rispondere analizzando le tre parti di cui si compone la domanda:
1) per stabilire con gli editori i contratti e la politica dei diritti in maniera da consentire l’accesso a tutti;
2) potrebbe essere una soluzione un saldo rapporto trasversale tra università ed enti locali;
3) che consenta di creare meccanismi per l’aggiornamento permanente fruiti tramite le biblioteche.
L’obiettivo iniziale (punto 1) non risulta facilmente perseguibile in quanto la spesa per un accesso aperto di tutta la popolazione alla pubblicistica scientifica avanzata, sulla base dei costi attualmente esposti dagli editori nelle varie tipologie di contratti, risulterebbe elevata e sicuramente difficile da definire a priori. La popolazione di un territorio, in generale, vede una tipologia di utenze con problematiche informative su diversi livelli di complessità: per la ricerca applicata, per le professioni, per gli insegnanti, per gli studenti, per il cittadino che si vuole aggiornare con una divulgazione di qualità ecc. Gli editori scientifico-accademici hanno come target una tipologia di utenza specialistica, piuttosto ristretta, con esigenze molto definite, e per questi motivi dispongono di un mercato oligopolistico. Quindi, fino a quando i costi delle risorsa informativa, legati ai diritti di copyright degli editori, resteranno ai livelli attuali, mi pare che il punto più importante sia quello di dare informazione delle risorse esistenti, in modo da poterne permettere l’accesso con meccanismi di servizio, a quanti siano interessati.
Perciò il punto 2 della domanda, "potrebbe essere una soluzione un saldo rapporto trasversale tra università ed enti locali", pone un’opzione assolutamente attuale la cui risposta è assolutamente positiva. Per un ateneo la risorsa informativa avanzata è un’infrastruttura di servizio necessaria per consentire alla comunità scientifica locale di parlare con il resto del mondo e di essere integrata nella comunità scientifica globale. L’accumulo di risorse informative degli atenei diviene un valore per la società tanto maggiore quanto più il processo di osmosi, nei due sensi, tra atenei e territorio, sia gestito in modo fluido. Un saldo rapporto tra atenei ed enti locali se non può oggi mettere automaticamente a disposizione di tutti tutte le risorse informative, è in grado di:
a) rendere trasparente la composizione dei patrimoni mediante l’accesso ai metadati, aprendo la via a varie forme di servizi;
b) permettere l’accesso diretto a tutte le risorse informative non vincolate da contratti commerciali.
La costruzione di una solida alleanza tra atenei ed enti locali è quindi la premessa a ulteriori sviluppi distribuiti nella politica dell’informazione e del long life learning, contestuali all’evoluzione delle tipologie di accesso possibili nei prossimi anni. In questo momento non ci è dato sapere quale sarà (e/o in quanto tempo si produrrà) l’impatto del movimento open access sui costi dell’accesso all’informazione. Tuttavia la costruzione della biblioteca digitale e l’apertura a tutti, mediante la rete, degli strumenti che permettono a ogni utente il riconoscimento delle risorse informative sono il primo passo per rendere realmente fruibili senza confini, in una prospettiva di liberalizzazione degli accessi, i documenti digitali. In questo senso "un saldo rapporto trasversale tra università ed enti locali" porterebbe a definire sin d’ora un ambiente informativo allargato a disposizione delle comunità del territorio, in grado di consentire la creazione di "meccanismi per l’aggiornamento permanente" fruibili attraverso le biblioteche.
Va sottolineato che questa relazione forte è, peraltro, già estesa nelle prospettive. Infatti la diffusa sensibilità degli atenei e degli enti territoriali a costituire un rapporto di collaborazione organica ha portato alla definizione di alcuni sistemi territoriali integrati (quasi sempre costituiti su base convenzionale) già operativi, pur con profilature e funzionalità non omogenee.
Tali sistemi territoriali di norma si sono sviluppati intorno alla realizzazione condivisa del catalogo informatizzato tra biblioteche di università e biblioteche del territorio: questa realizzazione attraverso l’interrogazione dell’OPAC e ora di portali comporta all’utenza territoriale la percezione di una biblioteca virtuale allargata, definita da tutte le biblioteche cooperanti. La trasparenza delle risorse catalogate trascina l’attivazione dei servizi condivisi, quali ad esempio il prestito, il prestito interbibliotecario, il document delivery.
Un altro aspetto non trascurabile della integrazione è il fatto che nelle biblioteche di molti atenei è permesso con norma formale l’accesso agli utenti non istituzionali; là dove non ci sia questa norma in parecchie biblioteche di università l’accesso agli utenti non istituzionali è ugualmente permesso con varie forme di accreditamento. L’utente, istituzionale e non, accolto in biblioteca, consulta tutto il patrimonio, su carta e digitale, della biblioteca o del sistema bibliotecario. I sistemi bibliotecari attivi in Italia compongono un mosaico di aggregati riconoscibili per caratteristiche e mission: le biblioteche pubbliche – legate/gestite dagli enti territoriali: Comuni, Province e Regioni, le biblioteche statali, le biblioteche di università, oltre alle altre istituzioni quali biblioteche private, fondazioni ecc.
È fortemente auspicabile un’interazione consapevole tra le diverse componenti di questi sistemi bibliotecari che porti a forme di integrazione dei servizi, valorizzando le specificità, e le relative offerte di servizio di ciascuna di esse, permettendo all’utente di navigare in un sistema informativo articolato in cui trovare risposta alle diverse esigenze. In questa prospettiva, per le loro caratteristiche, gli enti territoriali possono essere di grande supporto nel definire obiettivi concreti e nell’orientare risorse per gli investimenti giudicati necessari».